Oltre le elezioni: ricomporre il tumulto diffuso

I just can't get enough

Fare i territori,fare l'Europa

19 / 2 / 2013

«controcorrente è duro nuotare anche se sono nato alla riva del mare»
Lou X

Il discorso per il quale l'impatto della crisi strutturale si è incrudelito sempre di più nell'ultimo lustro sulla parte più debole (ed oramai sempre più larga) della popolazione, soprattutto nel Sud-Europa, mentre i capitali stanno già da un po' conservando il proprio dominio rinnovando le forme del sistema socio-economico ed inaugurando una nuova fase storica, è fondamentale. Tuttavia per dispiegarsi ha bisogno di ancora un po' di tempo affinché si evitino analisi affrettate e sterili retoriche. Il racconto su come la rappresentanza politica stia vivendo il suo apice di inflazione, è utile ma può suonare altrettanto ridondante se non viene messo in connessione con le evoluzioni più complesse dei rapporti di potere che per noi vanno letti sempre in maniera processuale (quindi mai data per cristallizzata) e reciproca, tra chi detiene il comando e chi viene forzato continuamente verso l'angolo muto della subalternità.

Dunque, per elaborare un'analisi che sia utile ad un dibattito generale sulla fase politica, pensiamo che in questo momento sia molto più interessante capovolgere la prospettiva e partire da uno sguardo ai sommovimenti che hanno animato la base della società nel nostro paese durante l'ultimo ciclo di governo (quello che comprende la legislatura di Berlusconi e di Monti).

Conflittualità, tumulto diffuso, alternative: limiti e prospettive dei movimenti tra passato prossimo e futuro immediato

Negli ultimi cinque anni in Italia il corpo sociale ha espresso interessanti cicli di mobilitazioni che però non sono evidentemente riusciti ad assumere la portata, la durata e la forza di veri e propri movimenti contro la crisi. Per gli esterofili contendenti sul modello di agitazione più applicabile alle realtà italiana, c'è stato poco da discernere: né modello indignados, né modello occupy, né modello greco o argentino perché, in questi anni in cui l'emersione della crisi è diventato fenomeno immediatamente riconoscibile dai più, dal Trentino alla Sicilia hanno avuto luogo tanti fermenti sociali ma in maniera discontinua, eterogenea, molto nucleare.

Nel frattempo, in Italia, ritorna il momento di andare alle urne. Nessuna delle liste in corsa sembra esprimere neppure un minimo interesse per ciò che bolle nella parte di popolazione che, pur con difficoltà, ha provato a mettersi in movimento nell'evolversi di questi ultimi anni. Tuttavia lo spazio pubblico si fossilizza, come è sempre capitato, sul piano elettorale nonostante la centralità della recessione, dell'aumento dei tassi di disoccupazione, del dilagare della povertà.

Del resto il tema del giorno di quotidiani ed altri media main-stream raramente viene stabilito dai bisogni del paese reale e sovente invece dai riassetti di potere che comunque passano anche per queste votazioni. Inoltre non ci sono stati, per i motivi di cui sopra, movimenti sociali che oggi possano rubare la scena alla kermesse elettorale, valorizzando in termini conflittuali la pur forte pulsione al rifiuto per un quadro partitico o para-partitico che si manifesta trito e ritrito.

Con ciò non vogliamo ovviamente sminuire la forza e la radicalità dei singoli focolai di dissenso e di potenziale alternativa sociale. Non si tratta neppure di caldeggiare alcun disfattismo politico. Di fatti le prospettive per una grande stagione di maggior interazione delle lotte sociali in Italia, non certo nella forma della sintesi ma di una loro ricomposizione plurale, restano sempre aperte grazie proprio alla base conflittuale garantita dai movimenti territoriali che hanno sempre avuto una vocazione più ampia (si vedano le spinte a mettere in discussione un intero modello di sviluppo, in casi come quelli di Chiaiano, della Val di Susa, di Vicenza), dai singoli e circoscritti cicli di mobilitazione nazionali e metropolitani, dalle singole vertenze, dalle esperienze affermative di quella cooperazione sociale che rischia anch'essa continuamente di essere sussunta da meccanismi di accumulazione del profitto e che va costantemente sottratta e liberata, dalle esperienze micropolitiche quali sono per esempio le iniziative di riappropriazione tramite l'occupazione e l'autogestione di spazi ed altre risorse oppure la costruzione di comitati informali nei quartieri urbani. Per noi la conflittualità va proprio letta oltre l'ottica binaria dello scontro campale (sia esso tramite lo scoppio simultaneo di riot in un intero paese, sia esso nella presa del palazzo d'inverno) tra la classe oppressa e quella dominante. Si tratta di un'ottica che rischia di stroncare le prospettive o di ridurle all'attesa di un'ora “x”: sia essa quella della rivoluzione ma anche quella della rivolta. La conflittualità non può che essere qualcosa di processuale e stare tanto nei grandi quanto nei piccoli tumulti diffusi e multiformi che si danno sui territori. Il conflitto, per noi, è in generale il corto circuito, la determinazione dell'incompatibilità della periferica specifica che blocca il complesso dell'hardware. Ciò che è mancato in Italia in questi ultimi anni probabilmente è proprio una dinamica di ricomposizione di tutti questi centri di conflittualità plurale e di tumulto diffuso. Potrebbe essere questo lo sforzo che andrebbe cercato ottimizzando la capacità di generalizzare e contemporaneamente di organizzare con elasticità (ovvero senza cristallizzare e burocratizzare) il dissenso coniugato alla ricerca di alternative, per dar forma a movimenti trans-regionali e trans-nazionali che sappiano assumere la continuità e l'organicità necessarie per trascinare la trasformazione nel senso del capovolgimento del capitalismo invece che in quello della sua rigenerazione.

Il 2010: le mobilitazioni universitarie, la generazione “sin futuro” e il 14 dicembre

Il ciclo di mobilitazioni del 2010 ha palesato notevoli embrioni conflittuali, con giornate di forte agitazione territoriale soprattutto grazie al protagonismo degli studenti medi ed universitari ma anche grazie alla nuova spinta dissidente del fronte degli operai metalmeccanici, dopo la stretta autoritaria della dirigenza di una delle principali industrie pesanti: la FIAT. L’apice di quella stagione di lotte si raggiunge con l’indimenticabile data del 14 dicembre: probabilmente uno dei pochi giorni (se non l’unico), negli ultimi anni, in cui la ricomposizione dei fermenti locali in una manifestazione nazionale trova una dimensione di scontro vera, e nella grandezza della partecipazione e nelle pratiche e nella condivisione delle stesse, tra le soggettività riluttanti rispetto all’imposizione della subalternità economica nonché socio-politica e gli apparati che si conservano da decenni come dominanti (rappresentati lì in piazza dalle forze dell’ordine ma pure poco più avanti sia dalle filiali delle banche insaracinescate sia dal ceto politico blindatosi nelle aule parlamentari).

Il 2011: occupy e 15 ottobre

Dopo un anno circa, durante il settembre 2011 folle di giovani e non solo hanno bloccato le strade, sanzionato simbolicamente gli istituti bancari, hanno provato a costruire in tante città italiane presidi permanenti nelle piazze sul modello delle accampade spagnole e degli occupy statunitensi. La data nazionale quell'anno era poi arrivata subito, all'inizio dell'autunno, e probabilmente doveva essere una delle tappe iniziali di un grande movimento che potesse, inizialmente, connettere nell'immaginario internazionale le piazze italiane con quelle della penisola iberica, degli USA e di tutti i paesi che in quella giornata erano scese in piazza essendo essa riconosciuta come una scadenza planetaria. Quel 15 ottobre era riuscito a chiamare in piazza le più varie espressioni della voglia di cambiamento diffuso nel paese, persino quell'anti-berlusconismo che fino a quel momento aveva stentato a convergere in manifestazioni pubbliche insieme ad altre effervescenze di dissenso.

Ovviamente, a quel momento sarebbe dovuta poi seguire la ricerca di una specificità territoriale che poteva far essere il nostro paese un gancio tra il modello movimentistico greco e quello degli indignados spagnoli. Tuttavia da un lato la repressione poliziesca e dall'altro la frammentazione delle organizzazioni politiche movimentiste, che pure generosamente costruivano quel momento già da agosto, hanno innestato delle dinamiche che hanno strozzato il corteo di quel giorno facendo implodere una stagione di movimento già alla sua partenza.

Il 2012: le vertenze lavorative, gli studenti medi e l'autunno NoAusterity

Nell'autunno 2012, quando le condizioni socio-economiche dell'Italia peggiorano progressivamente per l'esasperazione degli effetti della crisi, si ripropongono nuovi fermenti di conflitto sociale. Inizialmente, varie vertenze del lavoro riescono ad occupare per diverse settimane il dibattito mediatico, prendendo voce con gli scontri fisici direttamente tra gli operai e la polizia che difendeva i loro veri obiettivi politici, la controparte fatta di dirigenza industriale e fronti governativi sia regionali sia nazionali: si prendano come esempi emblematici il caso dei lavoratori sardi dell'Alcoa o di quelli piacentini dell'Ikea.

Nel frattempo ha preso piede pure la protesta nelle scuole superiori: la spinta immediata l'ha data ovviamente l'iter parlamentare di un provvedimento concernente direttamente l'istruzione pubblica, il DDL-Aprea, oltre agli ulteriori tagli che continuano a distruggere il comparto della formazione. Tuttavia ciò che è sembrato motivare di più gli studenti medi è stata una volontà generale di dissenso di una generazione che inizia a vivere la propria gioventù in pieno tempo di privazioni e nuova povertà.

Ovviamente, l'ondata di mobilitazione scolastica si è ibridata subito con l'iniziativa di pezzi di quel precariato diffuso nella metropoli, non soltanto le soggettività legate al lavoro interinale ma pure la larga fascia di inoccupati ed individui che la precarietà la vivono come condizione ampiamente sociale a partire dalla mancanza non solo di stabilità economica ma pure di diritti di cittadinanza: quello ad un reddito garantito, quello all'abitare, quello al trasporto, quello a spazi di socialità, quello alla formazione, quelli alla sanità, quello ad un ambiente sano che non nuoccia alla salute. Si tratta soprattutto di quei pezzi di precariato che vivono quotidianamente forme di autonoma organizzazione politica nelle modalità che almeno nell'ultimo quindicennio sono risultate le più consone per questi tipi di soggettività: in primis i centri sociali occupati ma anche reti di autorganizzazione, collettivi studenteschi. Per questa ibridazione di cui sopra, il ruolo di tali realtà organizzate di soggettività precarie è stato decisivo nella diffusione delle mobilitazioni dell'ultimo autunno, mobilitazioni che invece hanno trovato il movente per la propria radicalizzazione nel malessere più esteso nel paese in generale contro l'austerity, i diktat europei e il Governo-Monti. Così hanno preso forma la stagione, troppo breve ma interessante, dell' “occupazione degli scioperi” (da parte di chi, lavoratore e non, è andato oltre le piattaforme rivendicative e le pratiche dei sindacati tradizionali) e della “caccia ai ministri”. Centrale è stata in tal senso la giornata del 14 novembre in tutta Italia, occasione di generalizzazione sociale dello sciopero indetto simultaneamente dalla gran parte dei sindacati europei. Ma fondamentali sono state anche i giorni in cui si sono date le contestazioni contro le visite degli esponenti del governo in molte città: quella di Riva del Garda, contro il Presidente del Consiglio; quelle di Napoli, in occasione del vertice tenutosi in città tra il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Elsa Fornero e il suo omologo tedesco, o dell'incontro tra Giorgio Napolitano e il Presidente polacco, o della presenza di una squadretta di ministri all'inaugurazione della stagione di balletto del Teatro San Carlo, oppure ancora della conferenza del Ministro Clini; quella di Rimini, contro il Ministro Cancellieri.

Tuttavia anche queste spinte radicali e piuttosto diffuse di conflitto non hanno trovato l'opportuna continuità in termini sia di un prosieguo nelle settimane post-novembrine sia di un nesso prima di tutto cronologico con le mobilitazioni dei due autunni precedenti.

Se nei mesi successivi al 14 dicembre 2010 si fosse perpetuato quel fermento moltitudinario e tumultuoso in Italia come – ed in sinergia con – quelli di altre parti del mondo, se l'autunno di lotta del 2011 non fosse finito prima di iniziare, se le insorgenze di questi ultimi mesi fossero state anticipate da una primavera e da un'estate più movimentate socialmente e se si fossero sviluppate in un sommovimento cronico della base sociale dopo novembre: il protagonismo di chi, dall'alto, viene coattamente inquadrato e trattato come subalterno, invece di spegnersi nel silenzio imposto dal rumore dell'ennesima campagna elettorale, oggi anche nel nostro paese si ritroverebbe ad assumere le dimensioni di un vero e proprio movimento nato dal basso. Si tratterebbe di un movimento fortificatosi nell'arco di mesi, grazie ad una continuità serrata, e quindi capace di esprimere in maniera davvero forte la volontà ri-costituente dalla maggior parte della popolazione reale di questa penisola.

Gennaio- febbraio 2013: la narcosi-elezioni

Quindi ci si ritrova di nuovo davanti al teatrino della partitocrazia nelle sue varie forme. Il P.D. (insieme ai suoi coalizzati, tra cui la stampella sinistroide detta S.E.L.) e Monti fingono di concorrere ma non vedono l'ora di fare blocco unico in nome del “rigore” imposto dai poteri finanziari, per conservare il neocapitalismo nonostante la sua crisi. Berlusconi rispolvera un nazionalismo quasi irridentista e prova a rigarantire alla sua creatura para-partitica un diritto di tribuna nella riconfigurazione delle destre italiane. Grillo, caricato dal buon risultato delle ultime regionali, si sbraca e svela più palesemente il suo animo destrorso ma entra pure continuamente in contraddizione con la sua base di attivisti, prima che di elettori, che invece si mostra molto più composita: se, per esempio, da qualche parte i grillini mostrano forte continuità con la composizione militante leghista (e lo stesso vale per l'elettorato), da altre comprende pure nuclei con prospettive sovente vicine a quelle dei movimenti territoriali contro le discariche e le grande opere. A sinistra, intanto, una parte del partitismo tenta di ricostruire un polo che si dice oltre il feticismo neoliberista: ovviamente si parla della lista “Rivoluzione Civile”, del Giudice Ingroia, dell'ex-democristiano Orlando, del rifondarolo Ferrero e del sindaco orange Luigi de Magistris. Tuttavia, nonostante questa opzione tenti di focalizzare – a parole – il tema dell'antiliberismo e dell'esigenza di un nuovo welfare, da comunque principale risalto ai temi forcaioli del giustizialismo integrale e ad un antiberlusconismo fuori tempo massimo sulla linea che fu del defunto dipietrismo. Tutto ciò è ovviamente la diretta conseguenza del fatto di essere l'ennesima “cosa” legata a doppia mandata agli ambiti del ceto politico di questo paese, anche se sventola il vessillo della cosiddetta società civile. Del resto la società civile, che non a caso tanti oggi invocano da sinistra a destra, non è certo neppure essa la diretta espressione del 99% e non è qualcosa di identificabile con i movimenti sociali. Quando oggi si parla di società civile ci si riferisce a quella parte di società che, pur non facendo politica di professione, ha per status socio-economico le sue garanzie, le sue risorse, sovente le sue organizzazioni – spesso pure burocratizzate – e soprattutto i suoi mezzi “legali” (ma spesso illegittimi) per esercitare pressioni sugli apparati legislativi o su quelli esecutivi, con cui ha quasi sempre già legami strutturali. Molto spesso quelle che vengono definiti come esponenti della società civile prestati alla politica, sono personalità provenienti dal mondo delle associazioni di categoria, dalle lobbies professionali, dagli alti ranghi del mondo giudiziario o dal grande associazionismo. Non si tratta mai di pezzi veramente componenti il corpo denso della popolazione, quello che insomma ha pagato lo sviluppo capitalistico ed oggi paga la crisi, tanto meno di individualità provenienti da quelle lotte criminalizzate e spinte forzosamente nell'agone dell'illegalità nonostante la loro legittimità.

Oltre l'ostacolo... delle elezioni

Dato il quadro sinora espresso, pur non essendo ideologicamente astensionista ed animandosi di continua ricerca, il nostro cammino non trova alcun interesse in questa scadenza elettorale. Di contro pensiamo che questa fase storica di cambiamento strutturale vada vissuta attivamente per trascinare la trasformazione nella direzione che riteniamo foriera di nuovi spazi di cittadinanza e di democrazia, nuovi orizzonti per la giustizia sociale, nuove istituzioni determinate da chi produce ed abita i circuiti territoriali. Questo non è il momento di auspicare nuovi keynesismi ma quello di ottenere nuove conquiste sociali: dal reddito di base al diritto reale alla salute e alla cura; dall'accesso democratico alla formazione al superamento delle mille forme di lavoro precario; dal rispetto dei diritti umani nelle carceri alla liberazione effettiva delle nostre vite dalle mafie, oltre ogni operazione propagandistica e retorica securitaria; dalla salvaguardia dell'ambiente ad un nuovo ciclo di crescita sostenibile soprattutto per città martoriate come la nostra, un ciclo finanziato da più risorse dalle casse statali e incoraggiato da più autonomia delle dimensioni metropolitane, in particolar modo nelle regioni – come quelle meridionali – in cui si è scontata una coatta subalternità economica e sociale, storicamente sancita in nome di un'unità che non è stata il risultato della libera cooperazione tra popoli diversi quanto piuttosto il frutto di una dinamica eterodiretta da poteri forti.

Del resto crediamo che in questa fase più che mai, a prescindere da chi lo occupi, lo spazio parlamentare sia distante tanto dal paese reale quanto dai luoghi veramente decisionali per la vita delle popolazioni, quali sono quelli delle governance internazionali.

Per questo per noi resta prioritario, anche durante l'occupazione mediatica delle elezioni politiche, investire corpi ed intelligenze sia nell'internità ai piccoli e grandi tumulti territoriali sia nella connessione di questi con esperienze simili diffuse in altre parti della penisola italiana e del continente europeo.

Le uniche istituzioni pubbliche in cui, per noi, ha senso che i movimenti attualmente sperimentino un attraversamento, possono essere quelle locali, seppur in maniera meramente strumentale e sempre guardando al fine di una trasformazione radicale della realtà con la costruzione di nuove istituzioni. Negli anni scorsi in varie città italiane, compresa Napoli, realtà di movimento hanno sperimentato, eleggendo consiglieri comunali e municipali, l'attraversamento del nesso amministrativo come un meccanismo per innescare processi di drenaggio di risorse per una più equa distribuzione delle stesse sui territori soprattutto in termini di politiche sociali. Oggigiorno non ci sono più risorse da drenare, i Comuni diventano sempre più esattori fiscali e sempre meno iniettori di benessere locale: l'utilità per i movimenti territoriali – comunque irrapresentabili – di occupare spazio all'interno delle assise comunali, diventa in questa fase storica quella di avere uno strumento in più per spingere le amministrazioni a diventare terreni in cui sorgano quante più contraddizioni possibili rispetto al giogo dell'austerità imposta dai governi nazionali e dalle governances europee.

Tuttavia restiamo consapevoli che la spinta più forte per la costruzione di alternative, e nella dimensione locale e in quella trans-regionale e in quella trans-nazionale, debba partire dalla pancia dei territori, dalle eccedenze che essi covano, soprattutto in una città come Napoli che socialmente aspira ad essere metropoli ma che istituzionalmente si dimostra ancora tutt'oggi inadeguata e che esige di risorse ed autonomia, dopo anni di penuria e subordinazione, per non continuare a reprimere il suo potenziale di crescita.

Fare” i territori, farli interagire

La categoria a partire dalla quale continueremo ad agire la nostra iniziativa di movimento resta dunque quella del territorio. Riteniamo limitante però intendere il territorio solo come habitat. Piuttosto crediamo che esso vada inteso come il prodotto delle relazioni tra chi lo vive, abitando nonché lavorando e producendo in generale società localizzate ma non isolate.

Pertanto un territorio così inteso – cioè come rete di relazioni sociali tra individui ma anche tra gruppi sociali nonché di contatti tra questi stessi e l'habitat fatto di contesto naturale così come di infrastrutture e poli produttivi (industriali, commerciali, turistici, del terziario avanzato etc...) – comprende pure la dimensione dei rapporti di potere e quindi le sfere del dominio. La nostra prospettiva conflittuale vuole essere dunque rivolta prioritariamente alla sottrazione della decisione a chi la detiene in maniera coatta e autodeterminare i nostri territori, “fare” territorio dal basso ed in cooperazione, scegliendo il modello di sviluppo insieme a tutti quelle e quelli che come noi vengono continuamente spinti verso il margine della subalternità. La stessa controparte, in base all'epoca e ai luoghi geografici, va declinandosi in forme diverse pur conservando la sua sostanza di dominio capitalistico: sia il capitale mafioso, quello industriale o quello finanziario, sia – come sovente accade – l'intreccio indissolubile tra tutti questi.

Ovviamente una tale prospettiva non può rischiare derive identitarie, localistiche o persino provinciali. L'ambizione è per noi quella che, ogni base comunitaria (quella fatta dalla popolazione reale che è tale perché abita e produce fattivamente) determini autonomamente il proprio territorio, influenzando il campo di forze della costante trasformazione sociale, ma che si mettano pure continuamente in connessione questi esperimenti conflittuali attraverso tutta la penisola italiana e con una spinta transnazionale. Mettere in connessione, per noi, non significa omogenizzazione, vincoli o formalizzazione. Mettere in connessione per noi significa interazione informale e contaminazione, valorizzando le differenze nella costruzione di un comune plurale. Non crediamo neppure in un'univocità delle connessioni: devono essere tante e ciascuna determinata per un'affinità data dalle modalità d'analisi così come dalla scelta delle pratiche di cambiamento. Non crediamo neppure nell'esclusività: tra le differenti linee di connessioni devono esserci ponti che mettano in comunicazione le opzioni politiche diverse ma comunque costruite dal basso della mobilitazione sociale. E' tramite una ragnatela del genere che si può dare una nuova e più vera costruzione di un tessuto sociale italiano, rispetto alla coazione storica dell'unità statale, e di un'Europa dei popoli, rispetto all'astrazione di quella della finanza e dei mercati.

Lab.Occ. Insurgencia; Mezzocannone12Occupato; D.A.d.A; AuditoriumOccupato"C.&V.Verbano"-NA