Giornalismo all'italiana

L'arroganza del potere come professione: il caso Feltri

1 / 9 / 2009

Negli ambienti giusti girano due voci su Vittorio Feltri: che sia un gran pezzo di merda e che sia un brillante giornalista d’assalto. Sulla prima ipotesi non entriamo in merito, dalla seconda dissentiamo. La nostra immagine del giornalista d’assalto e del direttore carogna ma geniale è forse troppo schiacciata sull’immaginario americano e ci pare che il Feltri non abbia il glamour di Robert Redford o di Walther Matthau e neppure uno stile da premio Pulitzer. Nessuno è perfetto. Però dai muckrackers progressisti di inizio Novecento in poi la definizione implicava l’assalto, anche scandalistico o ricattatorio, al governo e al mondo degli affari. Smuovevano il letame, letteralmente, ma a loro rischio e pericolo. Beninteso con la speranza di farsi un nome e soldi.

Il nostro Feltri, invece, corre sistematicamente in aiuto ai potenti o, al massimo, si schiera nelle contese interne ai potenti, scaricando sull’amministrazione del giornale le eventuali spese processuali (come accadde, in cambio della dimissioni dal Giornale, nel 1997, dopo essersi rimangiato le accuse contro Di Pietro). Dato che i potenti cambiano, il Nostro non si è peritato di attaccarli di volta in volta tutti al momento del declino (ogni volta spalleggiandone un altro). Così partecipa alla caccia al cinghialone ferito («Ammesso e non concesso che un magistrato abbia sbagliato, ecceduto, ciò non deve autorizzare i ladri e i tifosi dei ladri... gli avvoltoi del garantismo... a gettare anche la più piccola ombra sulla lodevole e mai sufficientemente applaudita attività dei Borrelli e dei Di Pietro», l'Indipendente, 21 luglio 1993; «Mai provvedimento giudiziario fu più popolare, più atteso, quasi liberatorio di questo firmato contro Craxi... Di Pietro non si è lasciato intimidire dalle critiche, dalle minacce di mezzo mondo politico (diciamo pure del regime putrido di cui l'appesantito Bettino è campione suonato)... Craxi ha commesso l'errore... di spacciare i compagni suicidi (per la vergogna di essere stati colti con le mani nel sacco) come vittime di complotti antisocialisti... È una menzogna, onorevole!» –ivi, 16 dicembre 1992). Poi entra in scena Berlusconi, inizia l’esperienza del Giornale strappato a Montanelli (neanche lui il genio che viene detto, grazie ai suoi ripensamenti tardivi), le dimissioni forzate, l’invenzione di Libero (finanziato inizialmente dallo Stato come organo del Movimento Monarchico Italiano –sic), la recente riassunzione al Giornale. Mica ho fatto grandi ricerche d’archivio: è la Rete, bellezza!

Ma soffermiamoci sul suo sport preferito, quello in cui è più abile a solleticare la pancia dei lettori, la caccia agli indifesi. Proletari, precari, migranti, zingari, cattolici progressisti, da ultimo i gay. Non mancano certo gli attacchi ai colleghi, anche in circostanze per così dire inopportune. Per esempio, quando durante il sequestro e alla vigilia dell’assassinio di Enzo Baldoni in Irak, lo definisce “pacifista con il kalashnikov” e ironizza sulle sue “vacanze estreme”, quando avrebbe dovuto scegliere Alpitour piuttosto che una destinazione proposta dal Diario: adesso dobbiamo magari pagare pure un riscatto «per riportarlo a casa, questo bauscia simile a certi tizi i quali, durante il week end, indossano la tuta mimetica e giocano ai soldatini nelle brughiere del Varesotto». Gentile e profetico, non c’è che dire.
Andiamoci adesso a rileggere quanto ha scritto su di noi, a partire da Genova 2001 (citazioni da Libero). Ovviamente il movimento è «una poltiglia umana che sta insieme perché ha identificato un nemico senza volto: la globalizzazione» (21 luglio). La mattina del 20 (Carlo Giuliani verrà assassinato nel primo pomeriggio) il fogliaccio si dedica alle predilette profezie: «Oggi sarà il giorno del morto», scrive Renato Farina, l’ineffabile agente Betulla dei Servizi. Il 21 ovviamente l’editoriale di Feltri deplora che il ragazzo Carlo «si fosse unito al branco più violento», insomma se l’è cercata e il bravo carabiniere Placanica non ha colpe: «sparare per legittima difesa non solo è lecito, ma lodevole. Propongo una medaglia». A freddo, l’8 agosto, recensendo un instant book della Frilli Editore sulle giornate di Genova si permette di celiare sul reducismo dei partecipanti («militanti agnolettini», «valorosi giotttini», «fedelissimi di Casarini» il cui dovere è «menare le mani», «300.000 ecoangeli» che hanno sopraffatto e bastonato 7-8.000 poveri poliziotti e carabinieri per procurarsi «onori e lapidi». Hanno già «mutua e assegno di disoccupazione» e ora pensano soltanto a «trasferirsi sotto l’ombrellone a godersi il meritato riposo del guerriero», mentre l’inascoltato Renato Farina (il solito agente Betulla, radiato per questo dall’Ordine dei Giornalisti) lancia inutilmente l’allarme terrorismo, «vox clamans in deserto».

Basta, direte, lo sappiamo. Oltre tutto, perché prendersela con gli avvoltoi, quando i mandanti, in primo luogo chi stava nella stanza di controllo dei carabinieri a Genova, il vice-presidente del Consiglio di allora, Fini, torna pochi giorni fa proprio a Genova, alla festa del Pd, a vantarsene e viene pure calorosamente applaudito? Torniamo allora alla squallida nota vicenda del killeraggio di Boffo. Il giochino del ricatto omosessuale oscilla sempre fra l’elegante irretimento del Kgb ai cervelloni di Cambridge e l’appostamento all’orinatoio. Stavolta siamo decisamente sul secondo versante. Solo che gli anni sono passati, si usa il coming out e dunque il ricatto dovrebbe funzionare molto meno. Purtroppo non solo il pubblico del Bagaglino, di Libero e del Giornale si scompiscia con le storielle gay, ma anche la vittima, cioè l’Avvenire e le cerchie cattoliche sono molto sensibili al tema, dato che ne hanno fatto oggetto di virulente campagne politiche, miranti al contenimento dei diritti civili della categoria, s’intende senza sberleffi e con la massima compassione per i “peccatori”. E’ chiaro che così si sono messi nella posizione di essere facilmente ricattati come falsi moralisti, ogni volta che qualche predicatore si trova invischiato nel “peccato”. E qui di vischio ce n’è in abbondanza, per il bacino assai sospetto della vicenda (la malfamata comunità di recupero di Amelia di don Gelmini, dove è fin troppo facile trovare prede e ricattatori), per le allusioni a rimestare nella vita sessuale di alti prelati, per l’avvertimento mafioso su altri dossier.
Proprio uno dei difensori più indignati di Boffo, il vescovo di Mazara mons. Magavero, lancia un messaggio schizogeno in quest’ordine: non sarebbe male se l’agnello si sacrificasse dimettendosi, poi ve la faremo pagare. Agnosco stylum Romanae Ecclesiae – al tempo del pugnalato Paolo Sarpi stile-stilo (coltello), ma si fanno sempre riconoscere. Inutile dire che il dossier del ricatto feltriano ha un odore inequivocabile. Di orinatoio e di Servizi, come si desume dal miscuglio di arcaico burocratese e informatico sbirresco: «Il dottore, come da abstract di cui al retro... è stato condannato per più comportamenti posti in essere dal prelato Boffo... già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni (omosessuali)... Tanto si rassegna all’Eccellenza Vostra come da richiesta». Con il che abbiano detto tutto dei guardoni, dell’editorialista e, in caso di dimissioni o malferma difesa, della vittima e dei suoi svaniti protettori.