Drôle de guerre

22 / 11 / 2010

Dopo essere precipitata con ritmi incalzanti per tutto ottobre e inizio novembre, adesso la crisi del governo Berlusconi ha bruscamente decelerato. Tutte le parti in causa, tranne forse la Lega, hanno per diversi motivi paura delle elezioni, che della crisi sarebbe conseguenza inevitabile a breve scadenza. Berlusconi le ha prospettate in modo provocatorio e ricattatorio, timoroso solo che un governo tecnico si frapponesse fra dimissioni e consultazione anticipata cambiando la legge elettorale, Fini e Casini puntavano invece a un ribaltone parlamentare con appoggio organico o esterno del Pd, con l’obbiettivo minimo di andare alle urne senza il ricatto del premio di maggioranza e con quello massimo di durare un po’ di tempo e smontare l’apparato di potere berlusconiano (enti e Tv) per gareggiare in condizioni più favorevoli. Cos’è cambiato fra l’abbandono dei ministri Fli e adesso? In apparenza solo qualche risultato della campagna acquisti berlusconiana alla Camera e un troppo lento distacco di pidiellini ribelli al Senato, in sostanza una sempre maggiore difficoltà di trovare un accordo sulla legge elettorale e un vorticoso giro di sondaggi da cui risulta un’estrema incertezza sull’attribuzione del premio di maggioranza previsto dal Porcellum. A questo punto la caduta di Berlusconi seguita seccamente dal voto, per impossibilità di una transizione morbida attraverso un qualche Cln, sconsiglia tutti di precipitare la situazione.

Riprende allora vigore (almeno per questa settimana, al voto di fiducia ne mancano quattro...) l’idea di un Berlusconi bis aperto a finiani e centristi, buttata lì per scherzo al convegno di Bastia Umbra e ora risorta con le grandi manovre di Casini e la sua proposta di un “governo di armistizio”. Aggiungiamo che fra Fli laica e Udc catto-integralista (in coda Rutelli e la corrente Fioroni del Pd) non corre proprio buon sangue: si sopportano abbastanza per entrare al governo con Berlusconi e stringere compromessi incrociati, ma non abbastanza per sostituirlo ed elaborare una linea comune senza scuse. Una soluzione di compromesso terrebbe inoltre più unite Confindustria e Chiesa e garantirebbe una transizione senza scosse anche agli occhi di altri poteri forti nazionali ed europei. Del resto il cerino della mozione di sfiducia è rimasto in mano a Pd e IdV, quella promessa da Fini e Casini, che avrebbe certo raccolto maggiori consensi e sollecitato la scissione di Pisanu dal PdL, resta ancora nel cassetto. La sua mancata presentazione sarebbe il preludio, dopo il rigetto dell’altra mozione, delle dimissioni-lampo del premier con immediato reincarico e rimpasto. Tutto bene, salvo il dettaglio non irrilevante che la Lega non ci sta, pronta a negare il proprio appoggio a un governo Berlusconi-Fini-Casini e a provocare così nuove elezioni, in cui il PdL dovrebbe di nuove venire a patti con la Lega.

Un puzzle complicato che potrebbe portare a un congelamento della situazione. Degli interessi degli italiani non ne parliamo neppure, nessuno ci bada. Berlusconi strappa una maggioranza pagando a pié di lista ma restando sempre in bilico per un voto o due, vivacchia, si logora e arriva alle elezioni nelle peggiori condizioni, magari nell’autunno invece che nella primavera 2011, addirittura lasciando tempo per qualche rabberciata variante del Porcellum (per esempio la fissazione di un quorum per conseguire il premio). Insomma, la destra mediatico-populista e fiocamente protezionista e la destra liberal-finanziaria europea continuerebbero ad azzuffarsi e a restare in equilibrio per un certo periodo, gestendo gli effetti devastanti di una crisi inacerbita dall’instabilità politica e dalla speculazione internazionale sui titoli pubblici italiani. Un bell’assaggio della bollitura è offerto dalle vicende campane, fra camorristi cosentiniani, vajasse, monnezza che si accumula e decreti leggi fantasma per i termovalorizzatori. Il dopo-fiducia vedrebbe comunque il pressing di un partito del Sud, il cui nucleo originario (Micciché) potrebbe ampliarsi con Cafagna e Prestigiacomo. Intanto la Lega, con Maroni in pole position, medita un governo Tremonti dopo elezioni anticipate, promettendo (molto vagamente) il Quirinale al detronizzato Berlusconi. Dipenderà da quel che esce dalle urne e dalla sentenza della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento.

Drôle de guerre fu chiamata la II guerra mondiale sul fronte franco-tedesco fra il settembre 1939 e il maggio 1940, quando gli eserciti si fronteggiarono con piccole scaramucce, mentre la Wehrmacht completava l’occupazione della Polonia e si insediava in Danimarca e Norvegia. Poi scoppiò l’inferno e i nazi arrivarono a Parigi e sfilarono sotto l’Arc de Triomphe. L’armistizio, evocato da Casini e in parte già in corso, in uno strano clima di attesa e di intrighi (con il delizioso intermezzo di un’altrettanto deliziosa ministra), assomiglia molto a quella guerra da ridere o guerra seduta (Sitzkrieg, in opposizione alla Blitzkrieg su Varsavia), come la chiamò la controparte tedesca. Ma i venti di tempesta già soffiano dall’Irlanda e potrebbero scompigliare il debole anello italiano. In particolari difficoltà incappano i grandi progetti “riformisti” affidati, in assenza della mediazione governative, alla disinvolta trattativa fra le parti sociali, in primo luogo il tavolo sulla produttività, che dovrebbe sanzionare il ritorno alla concertazione fra Confindustria e Cgil (dunque a una vera concertazione, non alla resa di Cisl e Uil, a buon mercato ma poco impegnativa per i lavoratori) e l’isolamento della troppo radicale Fiom. Per ottenere questo risultato occorrerebbe qualche investimento del governo su defiscalizzazione del salario di produttività e ammortizzatori sociali e soprattutto il piano Italia di Marchionne. Se i soldi non ci stanno e la Fiat, in paurosa caduta vendite, sceglie di emigrare in sostanza a Detroit, il riformismo si rivela tutta fuffa e non solo Bonanni resta appeso per aria (guardate come ora fa il protettore dell’unità sindacale!), ma anche Susanna Camusso dovrà guardarsi bene dallo sganciarsi dai settori operai più avanzati e ridursi a rappresentante dei pensionati e del pubblico impiego –che d’altronde cominciano ad avere buone ragioni per incazzarsi anche loro!

La prima scadenza in cui i dispositivi di “stabilità” governativi (ma avallati dal Presidente napolitano e dall’Europa) andranno a sbattere contro uno dei pochi movimenti di massa autonomi dalla farsa dei partiti è la votazione sulla riforma universitaria Gelmini fra il 24 e il 26 prossimi. Scadenza in parte simbolica (perché la riforma è stata anticipata da decreti amministrativi e compiacenti allineamenti statutari di Atenei e perché dipende da misure finanziarie tuttora incerte nell’entità e nella distribuzione), ma di grande peso per rilanciare simbolicamente una contestazione che dovrà poi svilupparsi nelle tappe successive di applicazione (in caso di passaggio del ddl) e soprattutto nella contrapposizione di pratiche di autoriforma e autoformazione al mix aziendal-baronale che si vorrebbe instaurare a costo zero. Nozze con i fichi secchi, confidando nel servilismo della Crui e nelle tentazioni corporative dei ranghi strutturati inferiori. Meglio ancora se gli squilibri politici e la protesta dal basso infliggeranno una battuta d’arresto al nefasto progetto.

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