1.Come si è prodotta la situazione di emergenza
umanitaria in Italia nel 2011: alle origini del disastro attuale del
sistema di accoglienza.
Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi in data
12 febbraio 2011, veniva dichiarato, fino al 31 dicembre 2011, lo
“stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione
all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai Paesi
del Nord Africa”. Seguivano successivamente le ordinanze del Presidente
del Consiglio dei Ministri( OPCM) n. 3924 del 18 febbraio 2011 recante:
«Disposizioni urgenti di protezione civile per fronteggiare lo stato di
emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione
all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai Paesi del Nord
Africa, nonche’ per il contrasto e la gestione dell’afflusso di
cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea», l’ ordinanza
del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3925 del 23 febbraio 2011, e
ancora le ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3933
del 13 aprile 2011, n. 3934 e n. 3935 del 21 aprile 2011, n. 3947 del 16
giugno 2011 e n. 3948 del 20 giugno 2011. E poi ancora l’ OPCM 26
luglio 2011 contenente “Ulteriori disposizioni urgenti dirette a
fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale
in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai Paesi
del Nord Africa”.
Una raffica di provvedimenti emergenziali che, dopo una prima caotica fase affidata alla gestione del Prefetto di Palermo Caruso, terminata il 30 giugno 2011, individuavano nella Protezione civile il soggetto deputato al coordinamento degli interventi di accoglienza, con la nomina di un Commissario delegato, in persona del dott. Gabrielli e di un soggetto attuatore per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, in persona del dott. Forlani, e quindi con la nomina di diversi soggetti attuatori a livello regionale per la programmazione e la gestione degli interventi di accoglienza gestiti dalla Protezione civile regionale in favore dei richiedenti asilo o altra forma di protezione.
La situazione dell’isola di Lampedusa a partire dal 12 febbraio 2011 è stata sotto gli occhi di tutto il mondo. Si contavano almeno 4.000 migranti- in media- presenti sull’isola giornalmente, prima tunisini arrivati dopo la” rivoluzione dei gelsomini”, quindi, a partire dal mese di aprile di quello stesso anno, profughi di diverse nazionalità provenienti dalla Libia, poi, nei mesi di agosto e settembre, in prevalenza di nuovo tunisini. Nel centro di primo soccorso ed accoglienza (CPSA) di Contrada Imbriacola, in condizioni igieniche disumane, senza alcuna formalizzazione della loro presenza,sono state stipate anche 5000 persone in un centro la cui massima capienza era di 804 posti. Alla fine,il 23 settembre 2011, un rogo scoppiato dopo una serie di proteste costringeva alla chiusura della struttura ed al trasferimento di tutti i migranti in altre strutture di accoglienza in diverse regioni d’Italia. Un caso di “trattamento inumano è degradante” subito da migliaia di persone, che avrebbero potuto ricorrere alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo se solo fosse stato possibile presentare un ricorso da Lampedusa. Ma molti dopo il trasferimento da Lampedusa venivano respinti con modalità sommarie, come i tunisini e gli egiziani, mentre altri si disperdevano nella clandestinità. Successivamente i tunisini, ma solo quelli giunti fino al 5 aprile 2011 ricevevano un permesso di soggiorno temporaneo, in base all’art. 20 del T.U. 286 del 1998, mentre per i sub sahariani che continuavano ad arrivare, dopo un iniziale tentativo di blocco sull’isola, ormai trasformata in una prigione a cielo aperto, scattava l’ammissione alla procedura di asilo e il trasferimento in centri di accoglienza.
Le navi traghetto che avrebbero dovuto garantire una rapida evacuazione dell’isola sono state utilizzate come prigioni galleggianti, ed i trasferimenti in altre strutture sono stati bloccati per settimane, settimane nelle quali non si sono adottati provvedimenti legittimi e non si è proceduto alla identificazione di centinaia di minori stranieri non accompagnati, che per legge avrebbero dovuto essere dotati di un tutore. Nella ex base Loran di Lampedusa sono stati raggruppati, senza alcuna documentazione e senza la prescritta notifica alle autorità competenti (i tribunali minorili) come prescrive l’art. 343 del codice civile, centinaia di minori non accompagnati, spesso in promiscuità con gli adulti, senza alcun supporto psicologico e legale, privati di qualsiasi informazione sul loro futuro.
Purtroppo circostanziate denunce che su questi fatti sono state presentate nel 2011 alle competenti procure non hanno prodotto alcun procedimento penale e gli autori di abusi ed omissioni sempre più gravi hanno agito con la consapevolezza di una totale impunità.
La scelta iniziale di Maroni di bloccare ogni trasferimento da Lampedusa e di concentrare tutti i migranti presso i centri di prima accoglienza e soccorso siciliani, in particolare nell’isola di Lampedusa e nel mega centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, ha operato una completa inversione rispetto al funzionamento e alla natura stessa del sistema di accoglienza italiano e dei Centri di prima accoglienza e soccorso (CPSA) in particolare, che avrebbero dovuto garantire un servizio di prima accoglienza e soccorso delle persone salvate in mare, con immediato trasferimento presso altri centri di accoglienza situati in diverse località ubicate in tutte le regioni italiane. In base all’art.23 del Regolamento di attuazione n.394 del 1999, le attività di prima accoglienza e soccorso e quelle svolte per esigenze igienico-sanitarie, si possono svolgere anche al di fuori dei centri di identificazione ed espulsione ma solo “per il tempo strettamente necessario all’avvio dello stesso ai predetti centri o all’adozione dei provvedimenti occorrenti per l’erogazione di specifiche forme di assistenza di competenza dello Stato”. Per molti migranti arrivati in Italia a partire dal mese di febbraio del 2011, alcuni dei quali ancora oggi intrappolati nel sistema di accoglienza italiano, questo tempo “strettamente necessario” si è protratto per settimane o addirittura mesi mentre mogli e figli erano rimasti in Libia e questo stato di isolamento inumano impediva loro persino la possibilità di mantenere i contatti . Da questo blocco iniziale è partita la destrutturazione del sistema di accoglienza italiano, in quanto mentre si sono bloccati gli ampliamenti dei posti nei CARA e nei centri SPRAR, esistenti da tempo, (si rinvia alla ricerca Il diritto alla protezione coordinata dall’ASGI), si è preferito favorire la proliferazione di una miriade si strutture di accoglienza provvisorie, spesso del tutto improvvisate, ricorrendo al convenzionamento di gestori di alberghi e strutture turistiche affini, sempre e soltanto per negare che l’esigenza di accoglienza potesse trovare risposte in un sistema strutturato a regime. In questo modo si è fornita una accoglienza di pessima qualità e si sono moltiplicate le spese senza alcuna possibilità di controllo. Il conto finale di questo sistema di accoglienza basato su strutture provvisorie assomma ad oltre un miliardo e trecento milioni di euro. Nel 2011 si è giunti a pagare agli enti gestori anche 46 euro al giorno per un immigrato adulto e fino ad 80 euro al giorno per un minore accompagnato, spesso senza che fosse neppure garantita la consulenza legale, l’assistenza psicologica e i percorsi di formazione ed inserimento che pure si sarebbero dovuti erogare in base allo schema tipo di convenzione predisposto dal ministero dell’interno.
2.La trasformazione dei centri di prima accoglienza in centri di trattenimento amministrativo
Per tutto il 2011, e poi negli anni seguenti, si è aggravato il rischio
di detenzioni arbitrarie nei CIE o in centri di
trattenimento/accoglienza informali, mentre minori non accompagnati
giunti in età ormai prossima ai diciotto anni venivano indotti alla
fuga, per l’assenza di tempestive misure di accoglienza e per la mancata
comunicazione agli organi competenti ( tribunali dei minori) che
avrebbero potuto adottare provvedimenti tali da consentirne una
permanenza legale in Italia. Molti di loro, al compimento della maggiore
età sono stati costretti a presentare una domanda di asilo, ingolfando
ancora di più il sistema, oppure hanno abbandonato le cd. “strutture
ponte”, o strutture di accoglienza temporanea (SAT), come sono state
successivamente denominate, nelle quali erano stati confinati, luoghi
nei quali avrebbero dovuto restare solo per qualche settimana, ma nei
quali invece sono stati bloccati per diversi mesi, senza quelle misure
di accoglienza ed integrazione che prevedono in loro favore diverse
Direttive comunitarie, come quelle sulle procedure e sulle qualifiche di
asilo, e le normative interne ed internazionali “nel superiore
interesse del minore”, in particolare gli articoli 19 e 32 del Testo
Unico 286 del 1998.
Lo snaturamento del sistema di accoglienza italiano, trasformato spesso in un vero e proprio sistema detentivo, se non di confinamento in luoghi sempre più sperduti, attuato nel corso degli ultimi anni ha contraddetto le più elementari esigenze logistiche e sanitarie (evitare improprie situazioni di concentrazione di persone nei ristretti spazi a disposizione o in luoghi troppo decentrati), sia la necessità di procedere alla definizione della posizione giuridica degli stranieri e all’assunzione dei relativi provvedimenti presso altre strutture, come i centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) la cui natura giuridica e le cui funzioni siano chiaramente definite dalle norme vigenti.
E’ noto, infatti, come la normativa vigente che disciplina gli interventi di soccorso, assistenza e prima accoglienza degli stranieri appaia carente e lacunosa e si presti a interpretazioni difformi e applicazioni discrezionali. In particolare, non risultano definiti i diritti dello straniero destinatario delle misure di assistenza nei cosiddetti centri di prima accoglienza, tuttora disciplinati esclusivamente dalla L.563/95 (detta Legge Puglia), come quelli istituiti in Sicilia a Pozzallo (Ragusa) e a Rosolini (Siracusa). Lo stesso centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo ha funzionato con uno statuto incerto, in parte per persone che provenivano da altri CARA, ed in parte, almeno in un primo periodo, per i tunisini provenienti da Lampedusa, per i quali è stato anche un centro di identificazione. In molti casi nei centri di prima accoglienza non si è provveduto neppure ai rilievi fotodattiloscopici delle persone, che sono state trasferite, dopo mesi, ad altre strutture senza alcuna identificazione. Molti sono fuggiti, come dal centro di accoglienza di Manduria in Puglia, tutti gli altri hanno subito un gravissimo pregiudizio per il mancato avvio delle procedure previste dalla legge per la identificazione e per la formalizzazione della domanda di asilo.
Numerosi rapporti hanno evidenziato come gli immigrati arrivati via mare in Sicilia a partire dal febbraio del 2011 siano stati di fatto trattenuti presso gli attuali centri di prima accoglienza per periodi di tempo considerevolmente lunghi, variabili da alcuni giorni fino a settimane o mesi, senza che la normativa definisse con chiarezza e tassatività i diritti degli stranieri presenti e senza che tale situazione di effettiva limitazione della libertà personale fosse sottoposta ad alcun controllo giurisdizionale. Va sottolineato che tale situazione, non conforme alla legislazione italiana in materia di provvedimenti limitativi della libertà e che configura una violazione dell’art. 5 comma 1 della Convenzione Europea dei diritti Umani (CEDU), è stata oggetto delle preoccupazioni espresse dal Gruppo sulla detenzione arbitraria istituito in seno allo UN Human Rights Council, che ha altresì ricordato l’inadempienza del Governo italiani nel porre rimedio a una situazione da tempo evidenziata(1). Successivi rapporti di diverse organizzazioni, da Amnesty International a MEDU e Terre des Hommes hanno documentato le gravi e reiterate violazioni da parte del governo italiano degli obblighi di accoglienza sanciti dalle direttive comunitarie ( in particolare la direttiva 2003/9/CE) e dalla normativa interna, in particolare i decreti legislativi n.140 del 2005 e n.251 del 2007. Violazioni ancora più gravi quando si sono verificate ai danni di soggetti particolarmente vulnerabili come le donne, le vittime di abusi e torture, i minori non accompagnati.
3. Il fallimento delle misure di accoglienza in favore dei richiedenti protezione internazionale.
La Direttiva 2003/9/CE sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale prevede che all’art. 13 c.1 prevede che “Gli
Stati membri provvedono a che i richiedenti asilo abbiano accesso alle
condizioni materiali d’accoglienza nel momento in cui presentano la
domanda di asilo”. In Italia, malgrado si sia data attuazione a
quella direttiva con il decreto legislativo n.140 del 2005, si è
preferito da parte delle autorità di polizia procrastinare al massimo
l’apertura di una procedura formale volta al riconoscimento dello status
di protezione, e questa scelta meramente discrezionale della pubblica
amministrazione ha gravemente inciso sui diritti fondamentali della
persona migrante che intendeva chiedere asilo o altra forma di
protezione, al punto che in taluni casi non solo non si è dato accesso
alla procedura, e dunque all’accoglienza, ma si è proceduto a
respingimenti sommari di persone che pure avevano manifestato in modo in
equivoco la volontà di chiedere asilo.
Va ricordato che il trattenimento dei richiedenti asilo nei centri di primo soccorso ed accoglienza, o nei centri di identificazione ed espulsione, successivamente alla manifestazione della volontà di chiedere asilo e nelle more dell’esame amministrativo della domanda, si pone in evidente contrasto con la normativa vigente in materia di accoglienza dei richiedenti asilo, disciplinata dal D.Lgs 140/05 e dal D.Lgs 25/08. L’accoglienza dei richiedenti asilo, può avvenire, nelle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 20 comma 2 lettere a, b e c del D.Lgs 25/08, solamente presso i CARA (centri di accoglienza per richiedenti asilo), ovvero, nelle ipotesi disciplinate dall’art. 21 del citato D.Lgs 25/08 nei CIE (centri di identificazione ed espulsione). Non risulta pertanto possibile utilizzare i centri di primo soccorso ed accoglienza o i centri di identificazione ed espulsione come centri di accoglienza per richiedenti asilo poiché questi non presentano i requisiti previsti dalla legge e non risulta alcuna garanzia sul fatto che vengano assicurati, ai richiedenti asilo, anche in via emergenziale e temporanea, l’erogazione dei necessari servizi di supporto, consulenza ed orientamento, con particolare attenzione alle situazioni maggiormente vulnerabili. Di fatto, ritardando la formalizzazione della richiesta di asilo con il modulo C 3 si è reso possibile trattare i richiedenti asilo come se fossero comuni immigrati irregolari, anzi anche peggio, perché li si è segregati in luoghi che venivano sottratti a qualsiasi controllo giurisdizionale.
Molti richiedenti asilo sono rimasti per mesi in uno stato di sospensione di qualsiasi diritto, o in attesa di formalizzare la loro istanza, o in attesa di una decisione della commissione territoriale, in qualche caso senza neppure una identificazione certa e definitiva, come si è verificato nell’isola di Lampedusa ancora nel mese di febbraio del 2013 per 27 eritrei. Mancando i provvedimenti amministrativi che avrebbero dovuto riguardarli sono mancati anche provvedimenti da impugnare davanti all’autorità giudiziaria e per mesi la vita dei potenziali richiedenti asilo è stata rimessa alla più totale discrezionalità delle autorità di polizia.
In relazione, alla tutela giurisdizionale va prioritariamente ricordato che l’art. 39 della Direttiva 2005/85/CE prevede al comma 1 che “Il richiedente asilo ha diritto ad un mezzo di impugnazione efficace dinnanzi ad un giudice..” mentre l’art. 13 della CEDU sancisce che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’autorità nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”. Nel caso del diritto d’asilo, la nozione di effettività comporta un divieto di esporre il richiedente al rischio della lamentata persecuzione o al rischio di subire un danno grave fino a quando non è stata assunta dall’autorità giudiziaria una decisione nel merito. Il primo passaggio per formalizzare la domanda di protezione internazionale, la verbalizzazione ai funzionari di polizia attraverso il modello C3, non è scattato automaticamente né nei centri di accoglienza e soccorso né per i residenti dei Centri di accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA). Chi è arrivato a Mineo da Lampedusa nel marzo 2011 ha infatti saputo dell’esistenza del modello C3 da altri immigrati in altri CARA italiani, dopo mesi trascorsi in uno stato di totale sospensione dei diritti, magari per scoprire che l’iter burocratico per la richiesta di protezione internazionale non era neppure cominciato o che le pratiche si erano perse per strada: incontestabile il ritardo nel primo insediamento della Commissione territoriale competente a decidere sulle richieste di asilo a Mineo, e le lentezze burocratiche nell’espletamento delle prime procedure, come pure la sommarietà delle valutazioni della stessa commissione, come è confermato dalle numerose sentenze del Tribunale di Catania che hanno riconosciuto status di protezione negati dalla commissione territoriale.
Sul blocco e poi sul rallentamento cronico del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo in Italia pesava come un macigno la decisione iniziale del ministro dell’interno Maroni di trasferire a Mineo buona parte dei richiedenti asilo già accolti in altri CARA italiani, ma che ancora non avevano completato la procedura. Un’autentica bomba a tempo, i cui effetti si avvertono ancora oggi. Chi arrivava a Mineo da altri Cara italiani si è ritrovato senza modello C3, passaggio iniziale per la procedura volta al riconoscimento dello status di protezione internazionale, o meglio senza sapere se la domanda inoltrata in precedenza fosse considerata valida o se occorresse, visto il trasferimento a Mineo, ricominciare la procedura da zero.
Appare inoltre assai grave il rallentamento del turn-over nei CARA dovuto all’applicazione del Regolamento Dublino II sullo stato competente ad esaminare la richiesta di asilo. Come è emerso nella ricerca coordinata dall’ASGI “ Il diritto alla protezione “, “Il lavoro di ricerca ha confermato l’ipotesi iniziale relativa ai tempi di permanenza nei CARA, che in tutte le strutture sono di gran lunga superiori alle previsioni di cui al D.Lgs 25/08, attestandosi su un periodo medio di otto-dieci mesi, con punte superiori all’anno nel caso di richiedenti asilo nei cui confronti è pendente l’accertamento della competenza all’esame della domanda di asilo ai sensi del cd. Regolamento Dublino II. Ed è proprio la presenza nei CARA di richiedenti asilo in procedura Dublino che rappresenta uno dei dati di maggior rilievo che risulta confermato da tutti gli interlocutori, determinando un fortissimo rallentamento del turn-over nei centri”.
Si è pure verificato l’impedimento de facto nell’accesso alla giurisdizione per i richiedenti asilo e per i profughi provenienti dalla Libia, o da altri paesi, che si trovavano con la procedura bloccata o con una decisione sfavorevole da parte della commissione territoriale, persone che sono finite nei centri di accoglienza, come si è verificato a partire dal 2011, sia per l’assenza di tempestivi provvedimenti che fossero impugnabili, che per le difficoltà frapposte dalle autorità amministrative nella presentazione dei ricorso contro il diniego dello status di rifugiato o della protezione umanitaria.
Rispetto a quanto disposto dall’art. 32 comma 4 del D.Lgs 25/08, che consente un libero accesso alla giurisdizione per fare valere i diritti di difesa, appare inverosimile ipotizzare che decine o centinaia di richiedenti asilo, totalmente privi di mezzi, confinati in centri di accoglienza ubicati nelle lande più sperdute del nostro territorio potessero, nel brevissimo lasso di tempo a loro disposizione dalla legge, materialmente esercitare il diritto di ricorso, contattando legali disponibili, privatamente o per il tramite di enti di tutela, a tutelare le singole posizioni individuali e depositare in tempo utile i ricorsi. Oggi molti di coloro ai quali non è stato riconosciuto il diritto alla protezione internazionale, o quantomeno umanitaria, si sono dati alla fuga, e sono costretti a vivere nella clandestinità ed a subire ogni tipo di sfruttamento.
4. Cambia il governo, rimangono le stesse prassi applicate dal ministero dell’interno.
La situazione continuava a destare grande preoccupazione anche nel corso
del 2012, dopo l’attenuarsi degli arrivi dai paesi del nord africa,
soprattutto in Libia, ormai in mano a bande armate che bloccavano i
migranti prima ancora che potessero raggiungere le coste mediterranee.
Una preoccupazione destinata a crescere con il tempo, sia in relazione
alle misure di accoglienza che rispetto alla tutela giurisdizionale
avverso le decisioni negative assunte dalle Commissioni territoriali nei
confronti di persone trasferite, ma sarebbe meglio dire “deportate” nel
2011 da diversi CARA di altre regioni italiane nel cd. Villaggio della
solidarietà di Mineo, luogo dalla natura giuridica ancora oggi non ben
definita. Al di là del trattenimento amministrativo vero e proprio, in
centri chiusi, non si può negare che la concentrazione di un numero
elevato di persone prive di documenti di soggiorno definitivi ed in
attesa di una decisione sul loro destino da parte della Commissione
territoriale, una commissione amministrativa, comporti una limitazione
totale della libertà di circolazione, anche perché l’abbandono
temporaneo della struttura, magari per una ricerca di lavoro, più spesso
per eseguire gravosi lavori stagionali in agricoltura, ha comportato di
fatto la fine delle misure di accoglienza, ed in qualche caso la
risposta negativa sull’istanza di protezione. Ed attorno ai centri,
qualche volta anche al loro interno si diffondeva la violenza sulle
donne e la prostituzione.
Particolarmente grave la situazione dei richiedenti asilo giunti dalla Libia nel 2011, ed in parte minore negli anni successivi, che risultavano accolti nel sistema di accoglienza che il Governo ed Ministero dell’interno avevano deciso di affidare alla gestione della Protezione Civile (per un importo medio giornaliero di 40 euro a persona). Alla fine del 2012 si trattava di 18 mila persone, somali, ghanesi, ivoriani, maliani ed altri provenienti dall’estremo oriente come il Bangladesh o il Pakistan) ancora presenti nel sistema di accoglienza gestito dalla Protezione civile. In alcuni casi queste persone erano ospitati in luoghi decentrati, come a Eboli, o in diverse province siciliane e calabresi, e le attività di integrazione e inserimento, in tutta Italia, restavano drammaticamente sulla carta. Su queste circostanze sarebbe importante che le associazioni operanti nel territorio redigano dossier documentati anche al fine di supportare eventuali denunce o ricorsi presentati dai profughi prima del loro definitivo allontanamento, a seguito della inopinata chiusura delle strutture di accoglienza.
Il 25 luglio del 2012 in Parlamento, in risposta ad una interrogazione parlamentare, il ministro dell’interno Cancellieri, in una aula semivuota, rispondeva ad una interrogazione dell’on. Sabino Pezzotta sulla questione dei richiedenti asilo provenienti dalla Libia, e in gran parte denegati dalle commissioni territoriali, accennando solo alla prospettiva del rimpatrio assistito e non del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ribadendo la fine di qualsiasi misura di protezione umanitaria (come quella ex art. 20 T.U: n.286 del 1998, rilasciata ai tunisini giunti fino al 5 aprile 2011) al 31 dicembre 2012. Una scelta mantenuta con testardaggine fino agli ultimi mesi del 2012, che ha contribuito non poco a creare l’implosione del sistema di accoglienza alla quale si sta assistendo oggi.
In quella stessa data il ministro dell’interno annunciava lo stanziamento di ulteriori cinquecento milioni di euro per "chiudere" con l’emergenza nord-africa entro la fine del 2012. Alla fine l’intera operazione dell’accoglienza Nord-Africa sarebbe costata oltre un miliardo e 300 milioni di euro, mentre numerosi enti di accoglienza non hanno ancora ricevuto le proprie spettanze e molti operatori hanno dovuto lavorare per mesi sena ricevere un regolare stipendio.
Malgrado la diminuzione sostanziale degli arrivi nel 2012, solo il 20 per cento rispetto al 2011, si è continuato a praticare una politica di emergenza proprio quando si annunciava che i finanziamenti dello stato alla protezione civile, per gli interventi sulla cd. emergenza immigrazione nord africa, sarebbero cessati al 31 dicembre 2012, termine poi prorogato al 28 febbraio 2013 (con un provvedimento che comunque appare privo di copertura finanziaria). E l’emergenza “sbarchi” che nel 2011 si “concentrava” sull’isola di Lampedusa si è trasferita, per effetto delle scelte dei diversi governi, su quelle strutture di accoglienza dove sono stati trasportati come pacchi i migranti dopo settimane di blocco a Lampedusa, persone già esasperate da una lunga attesa in un limbo giuridico intollerabile ed in condizioni di trattenimento contrarie alla dignità della persona umana. A Mineo, dove al massimo potrebbero trovarsi 1800 migranti, ancora alla fine del 2012, si sarebbe arrivati addirittura ad oltre 3000 persone, alcune in attesa da un anno di un responso sulla loro richiesta di asilo, altre appena arrivate da Lampedusa dopo settimane di accoglienza/detenzione. Questo ha determinato il clima di tensione che è sfociato in diversi incidenti all’interno del Cara di Mineo e di molti altri centri di accoglienza italiani. Con la Legge n. 135 del 7 agosto 2012 si è stabilito che «si provvederà a regolare la chiusura dello stato di emergenza e il rientro nella gestione ordinaria, da parte del ministero dell’interno e delle altre amministrazioni competenti, degli interventi concernenti l’afflusso degli immigrati sul territorio nazionale».
«Il 26 settembre 2012 è stato approvato in Conferenza Unificata Stato – Regioni- Enti locali un documento redatto dal Viminale in collaborazione con il ministero del Lavoro, l’Anci, l’Upi e la Conferenza delle Regioni. In base a questo documento si fornivano indirizzi alla Commissione centrale e quindi alle commissioni territoriali di riesaminare le istanze di asilo dei migranti provenienti dalla Libia, quasi tutti non libici, sulle quali si era già stata una decisione negativa. I responsabili degli enti gestori avrebbero dovuto informare entro tempo brevissimo gli interessati, che avrebbero dovuto fare ricorso ad una procedura informatica (VESTANET) per la più sollecita definizione della loro procedura con il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Tutto questo iter si sarebbe dovuto concludere entro il 31 dicembre 2012. Intanto però erano a tutti note le inadempienze del sistema di accoglienza, e le carenze anche dal punto di vista informativo, oltre che di orientamento legale, con la conseguenza che i migranti si sono trovati discriminati a seconda del luogo nel quale erano stati confinati e della fase nella quale era giunta la procedura quando erano entrati nel sistema di accoglienza. Di fatto entro la scadenza del 31 dicembre del 2012 una minima parte dei richiedenti asilo, in parte denegati, giunti nel corso della cd. emergenza Nord africa (ENA) aveva ricevuto le prestazioni promesse dal sistema di accoglienza o aveva conseguito il rilascio di un valido titolo di soggiorno e del relativo foglio di viaggio. Anche il Ministero dell’interno avvertiva a quel punto che qualcosa davvero non funzionava, ma le contromisure non andavano oltre una generica azione di monitoraggio, con la chiusura delle strutture più impresentabili, con la conseguenza ancora di accrescere il disagio di chi vi aveva trovato accoglienza.
In una intervista nel mese di ottobre del 2012, sui controlli che il ministero dell’interno aveva disposto sul sistema di accoglienza italiano gestito dalla Protezione civile, Roberta di Capua, Direttrice del Servizio centrale di protezione per richiedenti asilo (SPRAR) osservava che:
«Il monitoraggio è stato fatto a campione da un team di cui faceva parte un rappresentante della Protezione Civile, uno dello Sprar e uno degli enti di tutela (Save the Children, Oim, Unhcr). Quello che emerso è che il quadro è molto disomogeneo. Si va da situazioni ottime con standard alti, che hanno seguito le linee dello Sprar e si trovano in Toscana, Emilia Romagna e Umbria. E regioni in cui lo standard è bassissimo poiché l’accoglienza è stata organizzata in alberghi, dove sono stati accolti centinaia di migranti, a cui inizialmente non veniva fornito alcun servizio di accoglienza e integrazione. E poi ci sono situazioni intermedie. Questa disomogeneità comporta delle diversissime condizioni d’uscita per i migranti». Intanto, mentre si avvicinava la chiusura dei centri di accoglienza, gestiti fino al 28 febbraio dalla protezione civile, è rimasta sulla carta l’intenzione, che pure qualcuno nel governo Monti aveva ventilato, di aumentare i posti in accoglienza nello SPRAR. I 700 posti che dovrebbero essere finanziati sono nulla rispetto alle 13.000 persone, richiedenti asilo e rifugiati, che in questi giorni vengono messe sulla strada, né si individua la copertura finanziaria di una misura di mero contenimento che rimane comunque provvisoria, se non sulla carta. Gravissima ad esempio la situazione di oltre seicento migranti trasferiti a Napoli in alberghi ubicati a Piazza Garibaldi, di fronte alla stazione centrale, un trasferimento che era stato deciso senza neppure avvertire il sindaco della città. In molte città italiane proprio per la differenza di trattamento, e quindi per il venir meno di ogni forma di accoglienza, scoppiavano proteste e si verificavano occupazioni, da Padova a Senigallia, da Bologna a Roma, in alcuni casi con interventi della polizia in funzione di ordine pubblico. Alcuni migranti che avevano promosso le azioni di protesta sono stati arrestati e denunciati per vari reati.
Anche la condizioni di coloro che avevano ottenuto il riconoscimento di uno status di protezione internazionale o di protezione umanitaria era sempre più segnata dalla precarietà e dalla esclusione. In molti casi i documenti non venivano consegnati tempestivamente oppure le persone restavano confinate in luoghi isolati in aperta campagna senza un adeguato sistema di trasporto. Eppure la legge italiana prevede diritti precisi in favore di coloro che hanno ottenuto lo status di protezione, in accordo con la direttiva 2004/83/CE. Infatti, secondo l’art. 29 della legge 251 del 2007
Libera circolazione, integrazione e alloggio
1. Fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 6, comma 6, del testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, i titolari dello status di rifugiato e di protezione
sussidiaria possono circolare liberamente sul territorio nazionale.
2. Oltre quanto previsto dall’articolo 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416,
convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, e dall’articolo 5 del decreto
legislativo 30 maggio 2005, n. 140, nell’attuazione delle misure previste all’articolo 42 del citato
decreto legislativo n. 286 del 1998, si tiene anche conto delle esigenze relative all’integrazione dei
titolari della protezione internazionale ed in particolare dei rifugiati.
3. L’accesso all’alloggio è consentito ai titolari dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria
secondo quanto disposto dall’articolo 40, comma 6, del citato decreto legislativo n. 286 del 1998.
5. Quali prospettive di prosecuzione delle misure di accoglienza dopo la fine della cd. emergenza Nord Africa ?
Particolarmente critica la situazione di coloro che hanno ricevuto un
diniego sulla istanza di protezione internazionale,ed hanno presentato
ricorso, ma che hanno perso il diritto all’accoglienza ed hanno già
lasciati i CARA. Infatti in base all’art. 5, comma 7 del Decreto
legislativo 140/2005, "Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 17 del
regolamento, in caso di ricorso giurisdizionale avverso la decisione di
rigetto della domanda d’asilo, il ricorrente autorizzato a soggiornare
sul territorio nazionale ha accesso all’accoglienza solo per il periodo
in cui non gli e’ consentito il lavoro, ai sensi dell’articolo 11, comma
1, ovvero nel caso in cui le condizioni fisiche non gli consentano il
lavoro".
Ma la situazione rimane grave anche per coloro che sono ancora allo stadio di richiedenti asilo, che hanno già effettuato l’audizione ma non conoscono la decisione della commissione, oppure che- addirittura- sono ancora in attesa di una audizione da parte della Commissione territoriale competente.
Queste persone non possono essere messe su una strada, sloggiate dai centri di accoglienza, come sta invece accadendo, prima che non si completi l’iter burocratico relativo alla loro domanda.
Secondo Art. 9 del d.lg. n. 140 del 2005 che prevede le modalita’
relative alle condizioni materiali di accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale
1. Salvo per i richiedenti ospitati nei centri di permanenza
temporanea e assistenza, per i quali vigono le disposizioni del testo
unico, i richiedenti asilo sono alloggiati in strutture che
garantiscono: a) la tutela della vita e del nucleo familiare, ove
possibile; b) la possibilita’ di comunicare con i parenti, gli avvocati,
nonche’ con i rappresentanti dell’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite per i Rifugiati, di seguito denominato «ACNUR», ed i
rappresentanti delle associazioni e degli enti di cui all’articolo 11
del regolamento.
2. La Prefettura - Ufficio territoriale del Governo, nel cui territorio
e’ collocato il centro di accoglienza di cui all’articolo 6, comma 2,
dispone, anche avvalendosi dei servizi sociali del comune, i necessari
controlli per accertare la qualita’ dei servizi erogati.
3. Le persone che lavorano nei centri di accoglienza hanno una
formazione adeguata alle funzioni che esercitano nelle strutture di
assistenza e sono soggette all’obbligo di riservatezza in ordine ai dati
e le notizie concernenti i richiedenti asilo.
4. Fatto salvo quanto previsto dal testo unico in materia di centri di
permanenza temporanea e assistenza e dall’articolo 8 del regolamento,
sono ammessi nei centri, di cui all’articolo l-sexies del decreto-legge,
gli avvocati, i rappresentanti dell’ACNUR e le
associazioni o gli enti di cui all’articolo 11 del regolamento, al fine
di prestare assistenza ai richiedenti asilo ivi ospitati.
Secondo gli articoli 8 e 11, del decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 2004, n. 303, ancora parzialmente in vigore per la mancata adozione da parte del governo del regolamento di attuazione previsto dai decreti legislativi 251 del 2007 e 25 del 2008, in attuazione delle Direttive Comunitarie 2004/83/CE e 2005/85/CE, ai migranti accolti nel sistema di protezione vanno garantiti standard minimi di accoglienza sui quali il governo e le prefetture hanno l’obbligo di vigilare.
«Art. 8 (Funzionamento). - 1. Nel rispetto delle direttive
impartite dalla prefettura - Ufficio territoriale del Governo, il
direttore del centro di cui all’art. 7, comma 2, lettera a) predispone
servizi al fine di assicurare una qualita’ di vita che garantisca
dignita’ e salute dei richiedenti asilo, tenendo conto delle necessita’
dei nuclei familiari, composti dai coniugi e dai parenti entro il primo
grado, e delle persone portatrici di particolari esigenze, quali minori,
disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, persone che sono state
soggette nel paese di origine a discriminazioni, abusi e sfruttamento
sessuale. Ove possibile, dispone, sentito il questore, il ricovero in
apposite strutture esterne dei
disabili e delle donne in stato di gravidanza.
2. Il direttore del centro provvede a regolare lo svolgimento delle
attivita’ per assicurare l’ordinata convivenza e la migliore fruizione
dei servizi da parte dei richiedenti asilo.
3. Il prefetto adotta le disposizioni relative alle modalita’ e agli
orari delle visite ai richiedenti asilo e quelle relative alle
autorizzazioni all’allontanamento dal
centro, prevedendo:
a) un orario per le visite articolato giornalmente su quattro ore, nel rispetto di una ordinata convivenza;
b) visite da parte dei rappresentanti dell’ACNUR e degli avvocati dei richiedenti asilo;
e) visite di rappresentanti di organismi e di enti di tutela dei
rifugiati autorizzati dal Ministero dell’interno ai sensi dell’art. 11;
d) visite di familiari o di cittadini italiani per i quali vi e’ una
richiesta da parte del richiedente asilo, previa autorizzazione della
prefettura – Ufficio territoriale del Governo.».
Nelle convenzioni stipulate tra la Protezione civile e gli enti
gestori, in base allo schema di capitolato adottato dal ministero
dell’interno nel 2008 dovevano essere previsti
(...) i servizi minimi garantiti, che possono essere ricompresi
nell’ambito del contributo massimo giornaliero di euro 40,00 lordo,
estensibili fino a 46,00 per casi motivati e da approvare
preventivamente da parte del soggetto attuatore,
1. vitto e alloggio
2. vestiario e prodotti per l’igiene personale
3. orientamento, informazione legale e assistenza nella procedura per la
richiesta di protezione internazionale tramite operatori con specifiche
competenze in materia
4. mediazione interculturale
5. accompagnamento all’inserimento scolastico dei minori e accessibilità
a percorsi per l’insegnamento della lingua italiana per gli adulti
6. orientamento e accompagnamento ai servizi sociali e sanitari
7. interventi di integrazione sociale (comprese attività di volontariato
presso le organizzazioni di volontariato e le associazioni di
promozione sociale ed eventuale attivazione di tirocini formativi e/o di
orientamento.)
Era anche previsto a favore dei richiedenti asilo un contributo per
piccole spese personali in ragione di euro 2,50 giornalieri (...)”
I soggetti gestori avrebbero dovuto sottoscrivere un Patto di
accoglienza che si sarebbe dovuto approvare anche da parte dell’Ente
Locale interessato. Con una Scheda di rendicontazione mensile degli
interventi: inviata alla Agenzia Regionale della Protezione Civile e per
conoscenza al Comune.
Dal "Manuale operativo per l’attivazione e la gestione di servizi di
accoglienza e integrazione per richiedenti e titolari di protezione
internazionale" si ricava che: "Dal momento in cui il beneficiario
risulta domiciliato presso la struttura di accoglienza, deve poter
accedere a tutti i servizi pubblici presenti sul territorio, tra cui il
Servizio Sanitario Nazionale. L’iscrizione al SSN e la conseguente
scelta del medico di base è un obbligo, oltre che un diritto, e
rappresenta pertanto una delle priorità connesse all’accoglienza." Anche
in questo settore si sono registrati ritardi e disfunzioni che hanno
messo a rischio il diritto alla salute dei richiedenti asilo e dei
rifugiati provenienti dalla cd. emergenza Nord-Africa.
Un ruolo importante sarebbe dovuto spettare infine alle associazioni di
tutela non convenzionate, ma è un ruolo che queste associazioni hanno
potuto svolgere con grandi difficoltà perché la loro presenza è stata
spesso avvertita con fastidio dagli enti gestori, e talora anche dalle
autorità locali di pubblica sicurezza, come se informare i migranti sui
propri diritti determinasse una situazione di conflitto o aggravasse un
clima di tensione già presente. Clima di tensione che invece era
direttamente imputabile alla mancanza di informazioni fornite alle
persone ospitate nelle strutture ed ai ritardi ingiustificabili nel
rilascio dei documenti da parte delle questure, da ultimo anche nel
rilascio del documento di viaggio in favore di chi aveva ottenuto il
riconoscimento dello status di protezione umanitaria, al punto che è
stata necessaria una circolare ministeriale il 18 febbraio 2013 per
ridurre l’area di discrezionalità con la quale alcune questure negavano
il rilascio di questo documento fondamentale per quanti titolari di un
permesso di soggiorno per motivi umanitari non potevano rivolgersi al
proprio consolato per il rilascio o per il rinnovo del passaporto.
«Art. 11 (Associazioni ed enti di tutela).
1. I rappresentanti delle associazioni e degli enti di tutela dei
rifugiati, purche’ forniti di esperienza, dimostrata e maturata in
Italia per almeno tre anni nel settore, possono essere autorizzati dal
prefetto della provincia in cui e’
istituito il centro all’ingresso nei locali adibiti alle visite,
realizzati nei centri di identificazione, durante l’orario stabilito. Il
prefetto concede l’autorizzazione
che contiene l’invito a tenere conto della tutela della riservatezza e
della sicurezza dei richiedenti asilo.
2. Gli enti locali ed il servizio centrale di cui all’art. 1-sexies,
comma 4, del decreto possono attivare nei centri, previa comunicazione
al prefetto, che puo’ negare l’accesso per motivate ragioni, servizi di
insegnamento della lingua italiana, di informazione ed
assistenza legale, di sostegno socio-psicologico nonche’ di informazione
su programmi di rimpatrio volontario, nell’ambito delle attivita’
svolte ai sensi dell’art.1-sexies del decreto.».
In base al Decreto legislativo 251 del 2007 che attua la direttiva 2004/83/CE sulle qualifiche di rifugiato, recentemente modificata dalla Direttiva 2011/95/UE, a coloro che ottengono lo status di protezione sussidiaria spetta il rilascio del titolo di viaggio, ove non possano rivolgersi al proprio consolato per il rinnovo o il rilascio del passaporto a meno che non vi siano motivazioni individuali da accertare con riferimento al possibile pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale.
Art. 24.
Documenti di viaggio
1. Per consentire i viaggi al di fuori del territorio nazionale, la competente questura rilascia ai
titolari dello status di rifugiato un documento di viaggio di validità quinquennale rinnovabile
secondo il modello allegato alla Convenzione di Ginevra.
2. Quando sussistono fondate ragioni che non consentono al titolare dello status di protezione
sussidiaria di chiedere il passaporto alle autorità diplomatiche del Paese di cittadinanza, la questura
competente rilascia allo straniero interessato il titolo di viaggio per stranieri. Qualora sussistano
ragionevoli motivi per dubitare dell’identità del titolare della protezione sussidiaria, il documento è
rifiutato o ritirato.
3. Il rilascio dei documenti di cui ai commi 1 e 2 è rifiutato ovvero, nel caso di rilascio, il
documento è ritirato se sussistono gravissimi motivi attinenti la sicurezza nazionale e l’ordine
pubblico che ne impediscono il rilascio.
Occorre inoltre segnalare che molti minori non accompagnati hanno compiuto i diciotto anni di età senza risultare destinatari di quei provvedimenti che per legge si sarebbe dovuto adottare nei loro confronti. In base al Decreto legislativo n.251 del 2007, in attuazione della Direttiva comunitaria 2004/83/CE sulle qualifiche di rifugiato o di persona meritevole di protezione internazionale.
(Art.28)
Minori non accompagnati
1. Quando è accertata la presenza sul territorio nazionale di minori non
accompagnati richiedenti la protezione internazionale si applicano gli
articoli 343, e seguenti, del codice civile. Nelle more
dell’adozione dei provvedimenti conseguenti, il minore che abbia
espresso la volontà di richiedere
la protezione internazionale può anche beneficiare dei servizi erogati
dall’ente locale nell’ambito del sistema di protezione per richiedenti
asilo e rifugiati di cui all’articolo 1-sexies del decreto-legge 30
dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28
febbraio 1990, n. 39,
nell’ambito delle risorse del Fondo nazionale per le politiche e i
servizi dell’asilo, di cui all’articolo
1-septies del citato decreto-legge n. 416 del 30 dicembre 1989.
2. Ferma la possibilità di beneficiare degli specifici programmi di
accoglienza, riservati a categorie di soggetti vulnerabili ai sensi
dell’articolo 8 del decreto legislativo 30 maggio 2005, n. 140, il
minore non accompagnato richiedente la protezione internazionale è
affidato dalla competente autorità giudiziaria a un familiare, adulto e
regolarmente soggiornante, qualora questi sia stato rintracciato sul
territorio nazionale; ove non sia possibile, si provvede ai sensi
dell’articolo 2, commi 1 e 2, della legge 4 maggio 1983, n. 184, e
successive modificazioni. I provvedimenti di cui al presente comma sono
adottati nell’interesse prevalente del minore, avendo comunque cura di
non separare il medesimo dai fratelli, eventualmente presenti sul
territorio nazionale, e di limitarne al minimo gli spostamenti sul
territorio stesso.
3. Le iniziative per l’individuazione dei familiari del minore non accompagnato, titolare dello status
di protezione internazionale, sono assunte nell’ambito delle convenzioni di cui all’articolo 8 del
decreto legislativo 30 maggio 2005, n. 140, da stipulare anche con organismi o associazioni
umanitarie a carattere nazionale o internazionale. I relativi programmi sono attuati nel superiore
interesse del minore e con l’obbligo della assoluta riservatezza in modo da tutelare la sicurezza del
titolare della protezione internazionale e dei suoi familiari.
Occorre in definitiva
provvedere
al rapido trasferimento (24-48 ore) dei migranti che giungono a
Lampedusa verso veri centri di accoglienza, nel territorio nazionale, e
non solo verso il mega-Cara di Mineo, al fine dell’esame sollecito delle
posizioni giuridiche individuali; riconoscere nel più breve tempo
possibile un permesso di soggiorno per protezione internazionale o per
protezione umanitaria a tutti i migranti che sono stati costretti a
lasciare la Libia a seguito della guerra e delle conseguenze che ancora
oggi si riscontrano in quel paese ai danni dei potenziali richiedenti
asilo
ri
strutturare e finanziare un sistema di accoglienza decentrata dei
rifugiati e dei richiedenti asilo diffusa su tutto il territorio
nazionale, raddoppiando il numero dei posti nei CARA, con la chiusura
del megacentro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, e la
sollecita definizione di tutte le richieste di asilo e dei ricorsi
ancora pendenti davanti ai tribunali; finanziare il passaggio delle
competenze dalla protezione civile ai comuni, trasferendo dal ministero
dell’interno alla Conferenza stato-regioni la competenza della
distribuzione dei richiedenti asilo su tutto il territorio nazionale
evitare
di sottoporre migranti e richiedenti asilo, subito dopo l’ingresso nel
territorio nazionale, a forme spurie di trattenimento amministrativo in
luoghi come stadi, palestre, capannoni di vario tipo, definiti centri di
prima accoglienza, ma nei quali in assenza di provvedimenti formali
notificati individualmente si potrebbe configurare una detenzione
arbitraria; facilitare l’integrazione lavorativa dei richiedenti asilo e
di coloro che hanno conseguito uno status legale come previsto dalla
Direttiva comunitaria 2003/9/CE
garantire
informazione ed assistenza legale ai richiedenti asilo per la
presentazione della domanda e durante la procedura di asilo, senza
limitare l’accesso delle associazioni di tutela ai luoghi nei quali gli
stessi richiedenti asilo sono accolti o trattenuti
consentire
l’esercizio tempestivo di un rimedio giudiziario effettivo ai
richiedenti che ricevono un diniego della propria domanda di protezione
internazionale; garantire l’accesso ai diritti di difesa ed al
patrocinio a spese dello stato, diritti che, presso alcuni tribunali,
come quello di Catania, soffrono pesanti limitazioni
individuare
soluzioni credibili che garantiscono l’avvio dei percorsi di
integrazione, dopo la fine dell’accoglienza nel sistema dei centri di
accoglienza/CARA.
6. Alcune considerazioni finali sugli strumenti di tutela legale dei diritti dei profughi.
In una situazione caratterizzata da un preoccupante vuoto politico, che
lascia ai corpi separati dello stato ed alla pubblica sicurezza una
discrezionalità sempre più ampia, sembra che la fine dell’emergenza
umanitaria Nord Africa possa produrre una situazione di emergenza
altrettanto grave di quella che si è verificata negli anni scorsi quando
arrivavano a Lampedusa decine di migliaia di persone. Ma questa volta
non solo a Lampedusa, ma sull’intero territorio nazionale, con una
preoccupante dispersione di coloro che avrebbero titolo ad un permesso
di soggiorno umanitario, ad un documento di viaggio e a forme congrue di
accoglienza, considerando il percorso di fuga dalla Libia, sul quale
molti altri loro compagni hanno perso la vita. Molti sono oggi costretti
ad abbandonare i centri di accoglienza dopo mesi passati inutilmente in
Italia per colpa dei ritardi burocratici o delle oscillanti scelte
dell’esecutivo, ed attendono ancora la definizione della loro posizione
giuridica. Una dispersione che potrebbe comportare la caduta nella
clandestinità e l’insorgenza di gravi problemi sociali in città già
segnate da una crescente intolleranza nei confronti degli immigrati, e
delle persone che li aiutano.
I fatti che abbiamo sopra rappresentato vanno ricostruiti attraverso le storie personali degli immigrati che sono arrivati dalla Libia e che nel tempo hanno subito pratiche di detenzione amministrativa e di confinamento in contrasto con le norme interne e con le direttive comunitarie. Senza ricevere quelle misure di accoglienza ed orientamento, oltre che di integrazione, alle quali avevano diritto. Per restituire loro una identità che fin qui è stata negata, anche quando dopo anni di attesa è giunto il tanto atteso permesso di soggiorno, occorre fare valere in giudizio le loro ragioni per i danni che hanno subito a causa del malfunzionamento del sistema di accoglienza in Italia, che ha comportato anche settimane di ingiustificata detenzione, e per la discriminazione istituzionale di cui sono stati oggetto, una discriminazione che appare evidente anche negli ultimi provvedimenti adottati dal governo Monti e dal ministero dell’interno. Alla fine il governo non è stato capace di altra misura che non fosse l’ennesima proroga con lo scaricamento di tutte le responsabilità sui comuni dove si trovano ancora migranti ENA ( Emergenza Nord Africa), una scelta che rischia di costituire una vera e propria miccia foriera di altro scontro sociale, considerando la drastica decurtazione dei trasferimenti dello stato agli enti locali ed il clima di crescente concorrenza tra le diverse fasce disagiate della popolazione.
Dopo l’ultima Ordinanza di Protezione civile n. 33 del 28 dicembre 2012 adottata soltanto a pochi giorni dallo scadere del termine di accoglienza, il Ministero dell’interno ha proseguito ad emanare circolari su circolari, tra queste quella del 18 febbraio 2013 relativa alla “Chiusura dell’emergenza Nord-Africa”, con la quale si dovrebbe regolare il passaggio di competenze dalla Protezione Civile al Ministero dell’interno, alle Prefetture ed ai Comuni.
Questa circolare prevede come struttura di coordinamento a livello
locale i “Tavoli di coordinamento regionale” dei quali non è nota in
questo momento l’esistenza e l’efficacia in merito alla programmazione
ed alla gestione della presenza degli immigrati ENA su tutto il
territorio nazionale, senza nulla aggiungere per rendere più veloci le
pratiche che li riguardano in ordine al rilascio dei documenti di
soggiorno o al completamento della procedura di asilo, per coloro che
non hanno ancora sostenuto l’audizione o sono in attesa di una
decisione. La stessa circolare, di fronte al frequente diniego del
titolo di viaggio da parte di diverse questure ai titolari del permesso
di soggiorno per motivi umanitari, delimita i poteri discrezionali fin
qui esercitati nel rilascio di questo documento fondamentale per i
titolari di uno status di protezione, ma non garantisce i tempi e
comunque affida alle stesse questure “la verifica della posizione del
singolo straniero” malgrado sia già intervenuta una decisione favorevole
della Commissione territoriale. La circolare del 18 febbraio ribadisce
poi per i minori stranieri non accompagnati” le previsioni contenute
nella Direttiva sui minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo,
adottata dal ministero dell’interno d’intesa con il ministro della
Giustizia in data 7 dicembre 2006, una circolare che non è stata mai
pienamente attuata su tutto il territorio nazionale. Ma l’aspetto più
negativo della circolare è avere previsto, oltre al solito richiamo al
rimpatrio volontario e assistito, una “misura di uscita” di 500 euro da
assegnare a ciascun migrante che sarà estromesso dal sistema di
protezione gestito fin qui dalla protezione civile, a seguito della
chiusura delle strutture fissata appunto con la fine dell’”emergenza
Nord Africa” per il 28 febbraio 2013.
Una somma che appare ben poca cosa e che non potrà certo risarcire i
danni, anche non patrimoniali, subiti dai migranti in questo lungo
periodo di stallo nei centri di accoglienza italiani, magari mentre
perdevano i contatti con i familiari rimasti in Libia o in altri paesi
di transito, senza che le competenti autorità rilasciassero loro i
documenti di soggiorno ed i titoli di viaggio ai quali avrebbero avuto
diritto di accedere. Una somma che si sta prestando ad ulteriori
ricatti, o ad altre promesse non mantenute, come il pocket money o i
tirocini formativi che avrebbero dovuto essere forniti durante il
periodo di accoglienza.
Risulta che, in alcune strutture, agli immigrati che percepiscono i 500 euro viene fatto firmare una dichiarazione con la quale rinunciano ad ogni altro diritto nei confronti dello stato italiano, mentre in altre località le Prefetture e gli enti gestori stanno ancora aspettando l’accreditamento di queste somme. La misura amministrativa che stabilisce solo in favore di alcune categorie di migranti “in uscita” dal sistema di accoglienza fin qui gestito dalla protezione civile risulta poi discriminatoria nei confronti di tutti quei rifugiati o titolari di protezione che sono già usciti dal sistema senza percepire alcunché, o che sono stati accolti nel sistema degli SPRAR, dove adesso potrebbero avanzare la medesima pretesa. Da questo punto di vista potrebbero applicarsi gli art. 43 3 44 del T.U. sull’immigrazione che precedono la possibilità di agire in sede civile contro la discriminazione indiretta, anche se di matrice istituzionale. Ma per agire con successo in questa direzione è fondamentale ricostruire minuziosamente le storie individuali e garantire la tracciabilità dei ricorrenti, per evitare che vengano sottoposti a pressioni improprie e che preferiscano allontanarsi facendo perdere le tracce, così da impedire una piena acquisizione degli elementi accusatori a fondamento delle denunce.
La sostanza della politica migratoria adottata dall’ultimo governo Monti in definitiva è rimasta la stessa di quella seguita negli anni dai governi di segno diverso. I vertici del ministero dell’interno hanno garantito una totale continuità che rischia adesso di proseguire anche nel corso della nuova legislatura. E la nuova composizione del Parlamento alimenta ulteriori preoccupazioni.
Le autorità italiane ai più diversi livelli si vogliono sbarazzare del maggior numero di migranti, ad ogni costo e con qualunque mezzo, anche se sono portatori di istanze di protezione o se si tratta di minori o di altri soggetti vulnerabili. Prima si sono praticati ( e si continuano a praticare verso l’Egitto e la Tunisia) i respingimenti collettivi, poi la detenzione informale nei centri di prima accoglienza e soccorso,esemplare il caso del CPSA di Pozzallo ( Ragusa), quindi i profughi dalla Libia sono stati indotti a presentare in massa richiesta di asilo, anche per decongestionare Lampedusa, poi ci sono stati i trasferimenti con le navi, infine sono stati abbandonati, salvo lodevoli eccezioni, nei centri di accoglienza gestiti dalla protezione civile, mentre le loro pratiche marcivano nei cassetti o le istanze di protezione venivano respinte dalle commissioni territoriali. Una politica devastante anche per l’effetto che sta producendo sull’opinione pubblica, sempre più propensa alla xenofobia ed al pregiudizio razziale, come appare evidente dalla quantità di fango e dalle violenze verbali (almeno per ora) che si scagliano nelle reti della comunicazione telematica contro i richiedenti asilo, i rifugiati e chi li sostiene.
Per la Commissione per i diritti umani del consiglio d’Europa l’Italia è stata sicuramente inadempiente rispetto agli obblighi di garantire standard minimi di accoglienza ai richiedenti asilo ed ai rifugiati, questo lo confermano adesso i tribunali amministrativi tedeschi che proprio per questa ragione hanno bloccato dei trasferimenti verso il nostro paese di richiedenti asilo che erano incappati, dopo essere transitati dall’Italia ed avere presentato una istanza di protezione in Germania, nelle maglie del regolamento Dublino 2. Questi migranti non sono stati riportati in Italia proprio perché i tribunali amministrativi tedeschi hanno accertato che qui non avrebbero goduto degli standard di accoglienza previsti dalle direttive comunitarie 2003/9/CE e 2004/83/CE. Riusciranno i giudici e gli avvocati italiani a ripristinare il principio di legalità ed a garantire il rispetto delle Direttive comunitarie in materia di accoglienza e protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati?