Chi ci libererà dai greci...

31 / 5 / 2010

Qualcuno crede veramente che sia colpa di Atene se saremo costretti a rinunciare all’indispensabile ponte sullo Stretto o al mirabile piano nucleare? Se finiscono in fumo le grandi riforme costituzionali, su cui tanto si sono travagliati i cervelli di D’Alema e Violante, nonché il federalismo fiscale a costo zero votato in modo bipartisan con grande sventolare di bandiere verdi e tricolori? I greci sono stati una scusa per una manovra recessiva europea, risposta folle e perdente all’aggravamento della crisi finanziaria mai domata con i frettolosi interventi dell’anno scorso. In Italia hanno costretto il governo ad abbandonare la politica dello struzzo e i progetti buoni solo a prendere voti alle elezioni nazionali e regionali. Ricordate, quando la crisi non c’era o, se c’era, era una sciocchezza, tanto i nostri conti erano a posto? Quando (due settimane fa!) si diceva che di una finanziaria, lievissima per carità!, ci sarebbe stato bisogno al massimo nel 2011? Tutti d’accordo. Mica solo Tremonti e altri “gerarchi”, anche la Cisl, la Confindustria, il Corriere della sera, l’ineffabile Crui.

Invece la botta c’è stata e pesante. Con tratti di meschina iniquità (la rateizzazione del versamento della buonuscita, il blocco delle finestre di pensionamento, l’accanimento sugli invalidi), bugie sfacciate (non metteremo le mani nelle tasche dei cittadini), devastazione dei servizi locali e della sanità non compensabili con l’aumento della pressione fiscale addizionale e dei ticket, farse squallide come la (ritrattata) riduzione delle province e la deroga per quelle confinanti (cioè la Sondrio di Tremonti). Il tutto sui due pilastri del blocco della spesa pubblica e del turnover (dai Ministeri alla Scuola e Università) e del condono generalizzato di ogni abuso, che ovviamente significa autorizzazione all’evasione fiscale generalizzata e futura.

Come ne esce Berlusconi dal crollo degli universi paralleli fittizi? Reticenze, imbarazzo, resistenze sconfitte all’ineluttabile tremontiano in prima battuta, poi tentativo goffo di riprendersi la scena buttando la colpa sulla sinistra e rimangiandosi pezzi di finanziaria secondo gli interlocutori, fino al disastro dell’anniversario Confindustria, con il bis del predellino miseramente floppato davanti al silenzio della platea e ai dinieghi di Marcegaglia e Fini. L’incontro con Napolitano, senza documenti firmati, ci è stato misericordiosamente risparmiato. La cautela di Fini, che non vuole contarsi troppo presto, la riluttanza di Tremonti che, a crisi in corso, non vuole formalizzare il proprio ruolo decisionale, l’attendismo della Lega che ha ancora bisogno di un garante forte nel Sud e il terrore pieddino per elezioni anticipate e prove di forza puntellano un potere berlusconiano completamente svuotato, sotto probabile botta giudiziaria e incapace perfino di portare a casa le proprie leggi ad personam, tipo intercettazioni. Quando cade l’acrobata entrano i clown. Appunto, si è rifatto vivo Veltroni.

Per capire però l’andamento di questo strano tramonto del berlusconismo occorre prendere un momento le distanze dal balletto politicista, che a un primo colpo d’occhio indurrebbe a immaginare un inevitabile slittamento del governo verso sinistra, come bene o male si delinea in Francia e forse in Germania. Lo sfondo generale è una crisi devastante da cui il capitalismo finanziario globale non ha idea come uscire. Stringendo la prospettiva, il piano italiano corrisponde all’impostazione complessiva europea, cioè taglio dei deficit pubblici (altrove giustificato dal salasso del 2009 per salvare le banche), blocco dei salari e niente investimento sullo sviluppo –in netto contrasto con la politica cautamente espansiva della Cina e degli stessi Usa. Solo che in Italia i livelli di partenza (investimenti su scuola e ricerca, indici di produttività) sono nettamente inferiori a quelli di Francia o Germania; anche i salari stanno almeno al 20-25% al di sotto. Inoltre manca da noi qualsiasi idea di riconversione, dopo lo sbaraccamento della grande industria e il soffocamento da parte dei paesi emergenti di gran parte della nostra produzione di medio livello, il made in Nordest e dintorni. Elettronica zero, green economy confinata al falso eolico di Verdini, turismo affidato alla Brambilla e beni culturali a Bondi. La gravità della crisi e la scarsa attendibilità delle alternative rendono difficile immaginare una fuoriuscita lineare, foss’anche il consueto subentro di una sinistra riformista che si fa carico dei debiti del neoliberismo. Non a caso i discorsi sul Cln di salvezza nazionale o su governi tecnici (per cui sempre più anche il partito-Repubblica guarda al bravo commercialista Tremonti più che al goldmansachsiano Draghi) tradiscono non soltanto il disorientamento Pd ma l’oscura preoccupazione che altri poteri forti decidano di scendere in campo con la scusa di schiacciare il drago della crisi. Cosa significherebbero, altrimenti, le rievocazioni del 1993, le rivelazioni di Ciampi sul black out del 27 luglio di quell’anno in concomitanza alle stragi mafiose e la preparazione della discesa in campo di Forza Italia? I pericoli di golpe, stavolta, segnerebbero non l’esordio bensì il declino di Berlusconi, un modo per sbarazzarsi di una destra pasticciona e di una sinistra impotente, approfittando dell’eclisse di un’Europa autorevole.

Tutto ancora abbastanza vago, la storia non si ripete e l’unico potere strutturato fuori dal berlusconismo è la Lega, troppo circoscritto territorialmente per funzionare in senso golpista. Ben messo, invece, per una soluzione tecnocratica a guida Tremonti, che al momento non sembra però conciliabile con altri spezzoni decisivi quali la Banca d’Italia, le altre grandi banche, la Confindustria, l’Eni. La Chiesa è paralizzata. Neppure si vedono con chiarezza gli eventuali sostegni esteri, anche se è palese l’insofferenza americana per i flirt berlusconiani con Putin e Gheddafi. Di fronte al pericolo di un’ondata di lotte, perfino di un confuso ribellismo anarcoide nei prossimi mesi, quando si prenderà coscienza degli effetti di lungo periodo della crisi del 2008-09 e degli effetti a breve della terapia d’urto di questa finanziaria, la soluzione standard sarebbe stata, in altri tempi, di usare la sinistra parlamentare come parafulmine e surrogato in attesa di tempi migliori. Ma la sinistra italiana è troppo debole per fare tale sporco lavoro e la stessa crisi non ripete il modello ciclico abituale –per es. quello della seconda metà dei ’70, quando anche per ragioni di contenimento dell’insorgenza il Pci fu di fatto associato al potere. Di qui l’attuale sovrapporsi di progetti di successione e boatos allarmistici, che rendono probabile una fine anticipata della legislatura, ma non ne lasciano prevedere i modi e i protagonisti. Il dato positivo è l’emergere di un’opposizione sociale, ancora controllata dal sindacato: lo sciopero del 25 giugno è allo stesso tempo una sollecitazione da sinistra del riluttante Pd e un accorto tentativo di imbrigliare lo scontento dilagante nel pubblico impiego. La grande massa delle nuove povertà, del precariato generazionale comincia peraltro appena a muoversi, tendendo probabilmente a esprimersi in forma direttamente politica (fra il ribellistico e il giustizialista) più che sul terreno sindacale, dove è frenata dalla frammentazione dei contratti e dei luoghi di lavoro. Il gioco comunque comincia a farsi duro.

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