Voglio prima di tutto ringraziare voi che i compagni e le compagne che
mi hanno invitato a questo seminario. Cercherò di essere il più
possibile breve, limitandomi a trattare due punti e a sollevare alla
fine una domanda che vorrei discutere con voi.
La prima tesi che vorrei condividere con voi è che il
regime di controllo dei confini in Europa su cui insieme ad altri ho
lavorato molto non è da intendersi come qualcosa che funziona secondo un
modello Top-down, come se ci fosse la Commissione in alto che
dà le sue indicazioni che discendono linearmente verso il basso fino a
colpire i migranti. Anche se la Commissione europea negli ultimi tre
anni ha investito ben due miliardi di euro per la militarizzazione dei
confini esterni, le agenzie europee come Frontex, ma anche le agenzie
nazionali che si occupano di controllo dei confini non possono vantare
dei successi straordinari.
per quel che riguarda Frontex, ad
esempio, negli ultimi quattro anni, il numero di migranti
clandestinizzati che sono stati fermati ed espulsi nel corso di
operazioni gestite dall’Agenzia europea di controlllo dei confini è di
1.800 persone, un numero veramente straordinario per un’agenzia che ha
avuto finanziamenti molto consistenti. Questo non significa che il
controllo delle migrazioni in Europa non funzioni.
In Europa ogni anno vengono espulsi o ritornano a casa
con i programmi del cosiddetto “rimpatrio volontario” circa 300.000
migranti che però vengono solitamente espulsi da agenzie nazionali.
Perché faccio questo paragone? Io solitamente odio le statistiche e i
numeri, ma quello che voglio semplicemente sottolineare è che le
retoriche a proposito dell’europeizzazione del controllo dei confini e
delle migrazioni hanno un ruolo importante, ma questo non ci deve fare
dimenticare che le agenzie nazionali e gli Stati nazionali continuano a
giocare un ruolo decisivo in questo regime di controllo.
Abbandono immediatamente questo terreno, non voglio almeno per oggi
parlarvi delle tragedie relative al rapporto tra Italia e Libia, ma
vorrei oggi parlare della dialettica e della circolazione delle lotte in
Europa e alla periferia dell’Europa. C’è una vecchia tesi di
Wallerstein secondo cui l’internazionalizzazione dello sfruttamento e
della divisione del lavoro determina un rafforzamento del lavoro vivo.
Sviluppando un parallelo con questa tesi di Wallerstein che è stata per
esempio dimostrata in modo convincente a proposito del Messico,
possiamo forse lavorare con l’ipotesi che la
transnazionalizzazio-ne del regime di controllo dei confini europei e
delle migrazioni in Europa, una transnazionalizzazio-ne che ormai
coinvolge Africa, Asia e America latina, non determini soltanto effetti
di radicale esclusione, ma potenzialmente una moltiplicazione e un
rafforzamento delle lotte in questa Europa allargata.
E
adesso vorrei provare a illustrare questa tesi sulla base di un esempio
concreto: nel marzo del 2008 si è tenuto un
incontro a Bamako, la capitale del Mali, organizzato da un’associazione
che raccoglie migranti e profughi del Mali e che esiste da
molto tempo. Questa associazione è composta da migranti e profughi che
sono stati espulsi dall’Europa, che sono attualmente in Mali, ma che non
sono necessariamente cittadini del Mali. Quello che contraddistingue e
rappresenta l’elemento di comunanza tra questi migranti e profughi è il
fatto di essere stati espulsi e di essere stati espulsi dalla Francia.
Molti
di questi migranti hanno partecipato con noi ad alcune delle lotte più
significative che ci sono state in Europa negli ultimi anni e in
particolare a quelle del movimento dei Sans-papier. Questi migranti che
fanno parte dell’associazione non si pensano esclusivamente come vittime
dell’espulsione, cosa che sicuramente sono, ma anche e soprattutto come
una rete di sostegno per i migranti che tentano di ritornare in Europa.
Una delle azioni più note e più significative di questo gruppo
consiste nell’accogliere all’aeroporto di Bamako i migranti che vengono
espulsi dalla Francia, e ci sono stati spesso nel corso di queste azioni
dei veri e propri momenti di confronto, anche aspro, con la polizia
europea che accompagna i migranti che vengono espulsi. Questo dice molto
a proposito dell’esternalizzazione del regime di controllo delle
frontiere in Europa. Nel corso di queste azioni si sono create le
condizioni in cui la polizia di frontiera del mali ha scioperato
bloccando così per quattro mesi le espulsioni dalla Francia.
Cosa
possiamo imparare da questo caso che non è particolarmente eccezionale,
ma piuttosto esemplare? Quello che possiamo comprendere da questo
esempio è che con l’allargamento e l’esternalizzazione del regime di
controllo dei confini, si determina anche un allargamento e
un’esternalizzazione della resistenza a questo regime.
Non abbiamo a
che fare esclusivamente con una transnazionalizzazio-ne del regime di
controllo delle migrazioni, ma anche con una transnazionalizzazio-ne, per
quanto conflittuale, contraddittoria e precaria, dei luoghi in cui si
determinano le lotte della migrazione.
Di fronte a queste azioni e ad altre che si sono
verificate ad esempio in Marocco c’è stata una reazione isterica da
parte di Sarkozy, ma c’è stato anche un tentativo di legare in maniera
sempre più stretta la politica di controllo delle migrazioni alla
politica di aiuto allo sviluppo.
se noi guardiamo alla politica di
controllo delle migrazioni in Europa dai confini dell’Europa allargata,
possiamo incontrare moltissimi momenti di interruzione puntuale della
continuità del controllo, ad esempio il rifiuto del Senegal di
accogliere i migranti espulsi dall’Europa è uno di questi momenti, ma
soprattutto quello che possiamo e dobbiamo fare è
costruire una mappa alternativa delle vie migratorie che si indirizzano
verso l’Europa e che contribuiscono a decentrarla e a provincializzarla
continuamente.
Con questo non voglio dire che ci sia
un’assoluta autonomia delle migrazioni che noi dovremmo celebrare e che
si manifesta in una reazione continua e puntuale al funzionamento del
regime di controllo dei confini. Quello che voglio dire è che se
vogliamo comprendere Schengen e l’insieme delle tensioni che si
determinano continuamente nell’implementazione del regime di Schengen,
dobbiamo partire da questi momenti di interruzione e da queste pratiche
di resistenza, da questa nuova grammatica della migrazione, perché
altrimenti non capiamo quello che succede. Quando parlo di grammatica ne
parlo in modo letterale, nel senso che intendo fare con ciò riferimento
alla necessità di una continua traduzione delle lotte dei migranti e
delle migranti all’interno del linguaggio e delle pratiche che noi
stessi costruiamo quotidianamente sul terreno delle lotte e
dell’antirazzismo. Cercherò adesso di darvi un esempio citandovi un
brano del manifesto di Bamako che è stato adottato in quell’incontro del
marzo del 2008 di cui parlavo prima:
“L’implementazione del Programma dell’Aja del 2004, l’esternalizzazione dei controlli di frontiera, ha condotto a un inasprimento della repressione contro i migranti in Europa. Questo Programma trasforma i paesi di transito nella polizia di frontiera dell’Europa e questo significa letteralmente guerra contro i migranti. I soldati sono gli Stati africani e l’agenzia europea Frontex, il braccio armato dell’Europa. Le prime vittime di questa guerra sono le persone in viaggio senza visto che nel tentativo di raggiungere la frontiera europea subiscono cose inimmaginabili, e vengono intimiditi e repressi dalle autorità dei paesi di transito africani quando vengono deportati in Mali. I Sans-Paier e gli espulsi hanno cominciato ad organizzarsi in diversi gruppi sia in Europa sia in Mali. Escono dalla clandestinità, non si vergognano più, e hanno deciso di lottare per i loro diritti. Dobbiamo ampliare questa mobilitazione e non solo limitarci a condannare le espulsioni, ma contemporaneamente affermare i nostri diritti. Invitiamo tutti gli espulsi ad aderire alle nostre iniziative e a mobilitarsi in massa”
Non è un testo scritto dalle reti radicali europee come quella di Frassanito o da intellettuali post-operaisti. A parte gli scherzi devo dire che quando ho letto questo testo sono rimasto molto impressionato perché mi sembra una prova evidente della circolazione dei nostri discorsi e delle nostre pratiche in modo “incarnato”. Questa mi sembra una buona dimostrazione di ciò che la merce forza-lavoro, il lavoro vivo, porta con sé quando viaggia.
Qualcosa di simile è successo
l’anno scorso a Lesbo durante il campeggio No border. Il
movimento antirazzista, il movimento radicale in Europa non si è reso
conto di quello che siamo riusciti a ottenere a Lesbo la scorsa estate:
praticamente l’abolizione della Convenzione di Dublino II. Proprio la
circolazione dei linguaggil, dei comportamenti, delle pratiche, della
conoscenza all’interno del mondo della migrazione, ha portato al fatto
che si è molto rapidamente diffusa la notizia che la Convenzione di
Dublino II era stata sospesa, e con ciò si è assistito ad una
moltiplicazione dei movimenti dei migranti verso la Grecia.
Abbiamo ormai imparato a leggere le lotte della migrazione anche dal
punto di vista della loro temporalità; abbiamo imparato a leggere negli
stessi centri detenzione le modalità con cui il tempo dei migranti
viene sfruttato, ma anche la modalità con cui i migranti cercano di
conquistare tempo e di piegare la conquista di questo tempo alla
costruzione dei loro progetti migratori. Adesso stiamo cominciando a
capire che questo momento della circolazione del linguaggio e delle
lotte rappresenta un momento fondamentale da cui partire per ogni
ragionamento sulla dimensione europea del movimento antirazzista e per i
diritti dei migranti. Noi stiamo comprendendo in Germania, per esempio,
che la crisi conduce a una stabilizzazione dei progetti migratori dei
migranti transanazionali, come in qualche modo era accaduto nel
fordismo, ma al tempo stesso emergono tratti completamente nuovi della
transanazionalizzazi-one dello sfruttamento.
Una delle cose più
interessanti che abbiamo constatato negli ultimi mesi è che, nel segno
della crisi globale, si assiste a un’inversione delle rimesse, nel senso
che adesso sono molto spesso le famiglie dei migranti che stanno in
Europa a versare soldi sul conto dei migranti per permettere loro di
stabilizzare, nonostante la crisi, il progetto migratorio.
Quella
che abbiamo descritto in questi anni nelle nostre analisi critiche del
neoliberalismo come transnazionalizzazio-ne dei costi di produzione della
forza lavoro viene così ad arricchirsi di un ulteriore aspetto. Questa moltiplicazione delle vie verso l’Europa e
dall’Europa all’indietro, e gli effetti che quanto stavo dicendo hanno
sulle famiglie ci parla di caratteristiche davvero nuove del paesaggio
migratorio che si sta definendo nel segno di un regime postfordista di
controllo delle migrazioni in Europa.
Dobbiamo cominciare a capire che all’insistenza che ci
ha sempre caratterizzato rispetto alle condizioni dei migranti
clandestinizzati, dobbiamo affiancare dentro la costruzione di un
sistema complesso di analisi e di lotte la precarizzazione che continua a
investire le seconde e le terze generazioni e le condizioni che
complessivamente vivono i migranti indipendentemente dalla semplice
condizione dell’illegalità.
Credo che quello che sta avvenendo in
Francia, IN Italia, in Spagna, anche in Grecia, sia un passo importante
in questa direzione.