Come si diventa ultrà

La curva o il nulla

Quale sarà il cammino di tanti giovani ribelli del calcio?

Utente: tobbia
11 / 11 / 2010

La curva o il nulla. Non avevi scelta. Potevi inforcare la sciarpa della tua comunità e fare massa critica, oppure impiccarti sul patibolo di uno stile di vita imposto dai predatori di miti che in quel tempo impazzavano. Non c’erano alternative per il cervello in costante assemblaggio di un ragazzo ribelle sbocciato nel primo spicchio degli anni ottanta. Così si diventava ultrà. Per una forma di affabulazione coatta.

Vivevi il marciapiede assediato da simbolismi effimeri eppure spietati. Dovevi sopravvivere alla selezione delle specie giovanili, dettata dall’indotto del rinnovato boom dei consumi. Tutto sembrava imporre d’abbigliarti e comportarti come un albero di Natale. Si chiamavano Timberland, Mon Clair, Invicta. Erano addobbi scintillanti, lucine colorate e festoni. Se non guardavi il mondo da quella prospettiva, di fatto rimanevi tagliato fuori dalla very normal people. Non riuscendo a calarti nella dimensione dei tuoi pari, avresti faticato a stringere amicizie, non ti saresti divertito, non avresti scopato, saresti diventato alieno nella tua stessa terra. Perché un pianeta su cui tornare non ce l’avevi. Le rotte verso l’immaginario erano state bloccate. E l’eroina t’aspettava sul guado, pronta a scarnificarti.

Ma se pure accettavi di omologarti ai linguaggi dell’edonismo, sapevi che la sostanza sarebbe stata poca. Intuivi già il destino che t’attendeva: sradicato dal bosco che non avevi mai avuto, rinsecchito e spoglio dopo boccate di artificiosa socialità, al primo cambio di stagione avresti gettato via te stesso. E tutte le relazioni che avevi costruito, si sarebbero polverizzate. Sia le mode paninare e il trionfo delle griffe, sia la parte più appariscente di tanta sottocultura metallara e darkettona, t’apparivano tendenti al vuoto.

In alternativa a questa “folla di solitudini”, c’era veramente poco. Avvertivi i riverberi di ondate sociali e conflitti politici che in anni passati si erano sprigionati dai grandi movimenti di critica all’esistente. Persino ciò che era deputato alla rimozione della turbolenta storia degli anni sessanta e settanta, finiva per evocarli. Nei tormentoni estivi, nella pubblicità sempre più invadente, nella retorica delle anime pie e dei docenti scolastici formato “The wall”, si scorgeva la volontà normalizzatrice. Pur non avendo vissuto la strada nei decenni precedenti, ne avvertivi il peso storico e ti ritrovavi a doverci fare i conti. Tutto ciò ti faceva arrabbiare, come un film trovato già iniziato al cinema, riassunto frettolosamente dal venditore di pop corn. All’indignazione che affiora in chiunque non si rassegni a vivere le conseguenze di una sconfitta patita da altri, si aggiungeva il senso di fastidio interiore tipico di ogni ritardatario. Vecchi compagni ed amici raccontavano scontri epici con poliziotti, genitori, insegnanti, preti e tabù. Era una narrazione da cui, se non altro per ragioni anagrafiche, ti sentivi tagliato fuori. Sapevi d’essere arrivato tardi sulla Terra . Avvertivi comunque il bisogno di andare al di là.

Piero abitava di fronte casa mia. Aveva il doppio dei miei anni. Mi piaceva il suo modo empatico di vivere la città. Era il capo degli Ultrà Cosenza, nonostante rifiutasse l’investitura: “le pecore hanno un capo. E le mandrie un cane che sorveglia. Nua sim’i Cusenza e capi un’ni’ vulimu”. Mio fratello invece seguiva la Fiorentina. Studiava a Firenze. Entrambi mi portarono nelle rispettive curve. Per un ragazzino, immergersi in una curva all’inizio degli anni ottanta era più di un battesimo. Un’iniziazione! Della Fiorentina divenni tifoso, innamorato del viola e di Antognoni. Il Cosenza mi entrò nelle molecole. Ne divenni ultrà. Il “San Vito” era una zona liberata. Meraviglioso! L’affollavano creature magiche, trasgressive, costruttive e bizzarre. Padre Fedele catalizzava matti e diseredati, andava e veniva dall’Africa per le sue missioni solidali, facendosi accompagnare spesso dai ragazzi della Mad Band, il collettivo originario dei Nuclei Sconvolti. Molti di loro erano attenti al sociale, antifascisti, originali nel look e nei linguaggi. Attraverso lo stadio, s’entrava in contatto con l’intera città, i quartieri, le contraddizioni, la bellezza e le zone d’ombra. Tra gli ultrà conobbi amici con cui condivido ancora oggi giornate migliori e momenti difficili; in curva ho incrociato per la prima volta lo sguardo della ragazza di cui mi sono innamorato, che sarebbe diventata la donna con cui ho condiviso la mia esistenza. È lì che abbracciai stili di vita, linguaggi, relazioni, interessi e consumi diversi da tanti miei coetanei. È lì che ho trovato la mia comunità. Il calcio c’entrava poco. Anzi, quasi nulla.

L’incontro col movimento antagonista è arrivato dopo, quando in Italia si sono riprodotte nel giro di pochi mesi le occupazioni di spazi sociali da autogestire. A Cosenza quella ventata liberatoria prese il nome di “Gramna”. Tra quelli che l’occupammo, tanti avevamo sulle spalle qualche anno di curva, le prime diffide e una propensione alla rivolta maturata nel periodo in cui lo Stato decise di inasprire, per vizietto e convenienza, le leggi speciali e il conseguente attacco violento nei confronti del fenomeno ultrà. Non fu facile armonizzare la mentalità da stadio con l’attivismo politico. Dovevi sempre dar spiegazioni sia ai tuoi fratelli curvaioli estranei ai linguaggi dei movimenti, sia ai compagni che diffidavano del mondo ultrà perché in esso scorgevano comportamenti fascistoidi. Il problema è annoso e di difficile soluzione. Fino a quando in taluni movimenti che lottano per una società più libera e giusta regnerà l’idea che i concetti di comunità, autonomia, territorio e uso della forza siano dominio delle destre, sarà impossibile capirsi. Per un paradosso, anche gli ultrà, che continuano a professarsi ostili alla “politica”, perché ossessionati dalla questione dei simboli che in effetti sono stati fonte di dissidio all’interno delle curve, spesso finiscono per adottare nelle relazioni tra gruppi proprio quelle logiche partitiche come il sotterfugio, le correnti e le alleanze strategiche.

A Cosenza è stato meno arduo combinare la nostra cittadinanza nei due diversi mondi dei movimenti politici e della curva. I Nuclei Sconvolti non hanno mai fatto mistero d’essere contro l’ordine costituito, antirazzisti e solidali con i più deboli. Forse proprio per queste motivazioni, la mano dello Stato non è mai stata leggera nel “San Vito”. Spesso negli ammuffiti corsivi dei quotidiani italici e nelle rubriche riservate alle lettere, mi capita d’intravedere il solito ipocrita grido di dolore della “società civile” nei confronti del demonio ultras, reo – secondo certe candide cornacchie che s’improvvisano opinioniste – d’aver violentato il calcio. Ne consegue l’elogio delle misure repressive e della crociata maroniana. Tutte le volte che m’imbatto in simili lassative analisi, provo tanta nausea, soprattutto se ripenso a quanta benzina abili incendiari che da sempre si nascondono nel ventre dello Stato abbiano scaricato nel corso di tre decenni sul fuoco originariamente fatuo della conflittualità ultras. Dalla metà degli anni settanta in avanti, infatti, cronologicamente si registrano prima le grandi ristrutturazioni del sistema calcio e dell’apparato poliziesco. Solo in corrispondenza di queste trasformazioni, s’assiste a salti di qualità nelle dinamiche degli incidenti tra ultras. Scorrendo in carrellata: l’avvento del calcio business, la ricostruzione degli stadi per i mondiali di Italia ’90, le leggi speciali comportanti super poteri alle questure e deroghe allo stato di Diritto, l’ingresso del pallone in Borsa, la Pay TV, il post-calcio. Ciascuno di questi passaggi di fase è seguito – e non preceduto – da un inasprimento della violenza negli stadi con un conseguente verificarsi di tragici episodi in cui diverse persone hanno trovato la morte. Questa constatazione non vuole servire a gridare al complotto. Semplicemente, si tratta di ristabilire i giusti rapporti di causa ed effetto. Negli ultimi quarant’anni gli ultrà hanno certamente contribuito a giustificare e alimentare la militarizzazione della società italiana. È un dato di fatto. Ma la spinta iniziale verso lo Stato di polizia è sempre arrivata dall’alto. Le strategie di cosiddetta “prevenzione del teppismo calcistico” sono state funzionali a due obiettivi: anzitutto introdurre e legittimare le ristrutturazioni degli assetti economici dell’industria calcistica; quindi innalzare la soglia quantitativa e qualitativa del fenomeno della violenza. Prima le recinzioni e le cariche indiscriminate, poi Paparelli. Prima la legge sulle diffide e gli stadi bunker, poi De Falchi. Prima le società di capitale e la Borsa, poi le immani tragedie avvenute alla fine degli anni novanta. Prima il gas lacrimogeno CS dentro gli stadi, poi a Genova. E chi ricorda più i sei tifosi e ultrà morti in circostanze diverse per mano di poliziotti e carabinieri? Nel corso del tempo questa guerra agli ultrà ha contribuito a modificare le forme del conflitto intorno agli stadi. Che a dispetto dei proclami del secessionista rinnegato Maroni, è divenuto più cruento. Ancora oggi, l’Osservatorio sulle manifestazioni sportive è costretto ad ammettere che le misure eccezionali degli ultimi anni sono servite soltanto a causare un incremento del 20 per cento della quantità di incidenti intorno alle partite di calcio. La tessera del tifoso diviene così il segnale di un regolamento di conti finale, nella pianificazione di un sistema calcio che non volendo più mettere a profitto la turbolenza ultras e non potendo gestirla, stringe la morsa per cercare di salvare il baraccone del football e al tempo stesso sperimenta nuove dinamiche del controllo da applicare in eventuali inediti contesti di rivolta politica e sociale. Torneranno alla carica col progetto di privatizzare gli stadi. La tessera è solo un apripista. Sottoscriverla significherebbe prestarsi ad un’infamità. Istituzionalizza la divisione tra buoni e cattivi, attribuisce alla digos un potere illimitato. Questo però non significa che dagli stadi sparirà il tifo organizzato. Semplicemente, i curvaioli saranno muniti di codice a barre e microchip. Si estingueranno i vecchi Ultras. Saranno sostituiti dagli “Intras” che invece di “andare al di là”, staranno “al di qua”. I tentativi di una ribellione unitaria e di una presa di coscienza generale, appaiono destinati a fallire. Nonostante la vivacità e la coerenza di gruppi come il Collettivo Consentia che ha deciso di attuare una protesta radicale contro la tessera, arrivando a disertare la curva, forse ormai è troppo tardi. Nei decenni passati, incalzati da pressioni di ogni tipo, spesso privi di qualsiasi riferimento culturale, quasi tutti i gruppi ultrà italiani si sono trasformati in agenzie di servizi per le rispettive società calcistiche, in centri commerciali del gadget, in succursali delle questure, o addirittura in sezioni di partito. Rimangono fuori da questa palude tanti liberi soggetti che né si sono lasciati irretire da logiche tribali né hanno inseguito il modello highlander.

Quel che conta, adesso, è capire cosa accadrà fuori dalle curve. Quale sarà il cammino di tante migliaia di giovani ribelli che in esse hanno trovato un punto di riferimento umano e sociale? Intelligenze eretiche come Giancarlo Mattia, Marco Philopat, Valerio Marchi e Riccardo Pedrini ci hanno spiegato che le forme del conflitto sociale passano anche e soprattutto per le pratiche sottoculturali spontanee, aventi valenza politica, sovversiva, esistenziale. Quel che avverrà quando molti ultrà scacciati dalle curve sciameranno nelle strade, è una storia tutta da scrivere. Una cosa è certa: per seguirla, non servirà guardare la Domenica Sportiva.

Claudio Dionesalvi

(LOOP, n° 10 - ottobre/novembre 2010, www.looponline.info)

www.ciroma.org/site/archives/3714