Da Ramallah a Gerusalemme

Seconda tappa di un viaggio in Palestina dopo il 7 ottobre

11 / 1 / 2024

Per avere un piccolo assaggio di cosa significhi l’apartheid israeliana nei confronti dei palestinesi è sufficiente percorrere 20 Km in automobile. Questa è la distanza che separa Ramallah da Gerusalemme. Muoversi da un punto all’altro dei Territori Occupati e verso Gerusalemme non è mai stato un gioco da ragazzi, soprattutto dalla seconda Intifada in poi. Il tragitto è reso complicato dall’espansione delle colonie illegali, dal lungo (oltre 700 Km) e tortuoso muro dell’apartheid, dai checkpoint militari fissi come quello imponente di Qalandia o quelli temporanei che vengono aperti e chiusi a discrezione dell’esercito. Sono aumentate negli anni, invece, le “bypass street” ad uso esclusivo degli israeliani per raggiungere i territori di Israele dalle colonie.

Qui in Palestina, la libertà di movimento non è un diritto, bensì un privilegio che dipende dal colore della tua carta d’identità e di conseguenza dalla targa della tua auto. I palestinesi in Palestina storica possiedono diverse categorie di documenti d'identità. Quelli della Cisgiordania e della Striscia di Gaza hanno la "carta d'identità verde" che consente loro di spostarsi entro queste regioni ma non attraverso l'area che le separa, e non possono circolare in Israele. La "carta d'identità arancione," rilasciata prima del 1994 a pochi anziani palestinesi, ha le stesse funzioni della "carta d'identità verde." I palestinesi che vivono in Israele (Palestinesi del ‘48 o “arabi israeliani”) hanno la "carta d'identità blu" e di solito possiedono un passaporto israeliano, anche se non godono pienamente di tutti i diritti civili in Israele. I palestinesi di Gerusalemme hanno anche una "carta d'identità blu" ma non possono avere un passaporto israeliano e di solito possiedono un passaporto giordano, ma non hanno il diritto di vivere in Giordania. Infine, esiste una categoria di palestinesi senza carta d'identità, oltre diecimila, che hanno solo un foglio di carta con la foto e un timbro. È estremamente difficile, se non impossibile, per loro spostarsi tra i villaggi a causa dei checkpoint militari israeliani.

Dopo il 7 ottobre il numero di checkpoint è aumentato e molti punti di passaggio principale chiudono al tramonto, istituendo un vero e proprio coprifuoco notturno per i palestinesi, con tutte le relative conseguenze immaginabili. Ci raccontano che, non solo qui non si sentono più sicuri a muoversi ta le città e i villaggi per visitare parenti e amici e portare avanti le attività quotidiane, ma i visti di lavoro in Israele per i palestinesi sono stati quasi totalmente revocati.

Ieri, per coprire questa manciata di kilometri a bordo di un’auto con la targa arancione israeliana, abbiamo impiegato tre ore, durante le quali continuavamo a ricevere incessantemente notifiche “alert” sul cellulare relative ai razzi lanciati sul territorio israeliano prevalentemente dal Libano verso il nord, ma anche alcuni provenienti da Gaza verso Tel Aviv. Alla guida dell’auto su cui viaggio c’è Meri Calvelli, storica cooperante che ha speso la sua vita in Palestina e gli ultimi vent’anni dentro la Striscia di Gaza. Durante il viaggio i nostri pensieri ed i suoi racconti sono chiaramente focalizzati su Gaza, sulla situazione collettiva degli sfollati e sulle drammatiche storie personali delle famiglie e delle persone che conosciamo, oltre che sui progetti di cooperazione sui quali stavamo lavorando insieme. In tre mesi, secondo quanto dichiarato dalle agenzie stampa Anadolu e Reuters, sono stati spesi sessanta miliardi di dollari per l’operazione militare su Gaza, mentre in questi giorni i gazawi stanno letteralmente morendo di sete e di fame e i pochi aiuti umanitari che entrano vengono assaltati e fiorisce il mercato nero per i generi di prima necessità.

Anche Gerusalemme è incredibilmente semi-deserta. È la prima volta che mi capita di vedere le strade della città vecchia senza turisti e pellegrini. La presenza militare nella città occupata, invece, è imponente come al solito e i coloni si aggirano con le armi in bella vista per le strade del mercato. 

Gerusalemme è oggetto di specifiche risoluzioni delle Nazioni Unite che ne delineano lo status e la suddivisione. Secondo le risoluzioni, la città dovrebbe avere uno status internazionale speciale, evitando così l'annessione da parte di un singolo stato. Tuttavia, la realtà sul campo è diversa: Israele controlla l'intera città da quando ha occupato Gerusalemme Est durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Nonostante le proteste internazionali e le risoluzioni ONU che non riconoscono l'annessione, Israele considera Gerusalemme la sua capitale indivisibile e gli USA, sotto la presidenza di Donald Trump, hanno spostato l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, legittimando di fatto l’occupazione. Questa situazione crea tensioni continue, in particolare nella Gerusalemme Est a maggioranza palestinese, dove l'occupazione israeliana si concretizza come una violazione dei loro diritti umani.

La giornalista che sto accompagnando nel suo viaggio-reportage ed io siamo gli unici ospiti dell’Hebron Khan Hostel per la notte; nei bar e nelle caffetterie incontriamo solo alcuni giornalisti. I gatti sono gli unici che riescono indisturbati ad attraversare i confini. Da qui si seguono a distanza le notizie che arrivano da Ramallah, dove il segretario di stato USA Anthony Blinken è in visita ad Abu Mazen e scopriamo che la polizia dell’Autorità Palestinese ha arrestato alcuni manifestanti che protestavano contro il contributo degli USA a questo genocidio. 

Poco prima di uscire da Gerusalemme per dirigerci verso Jaffa, al campo profughi di Shufat, poco distante dalla città vecchia, l’esercito israeliano esegue un raid in pieno giorno, attaccando i residenti e lanciando lacrimogeni.