Impressioni da Londra

Le rivolte «logiche»

14 / 8 / 2011

Sono due le immagini che catturano l’attenzione in questi giorni di agosto. Immagini che solo in apparenza sembrano appartenere a mondi differenti ma che per una specie di scherzo della storia, abbiamo la fortuna di trovare accostate nelle pagine dei giornali. Da una parte quelle che ritraggono le facce incredule degli operatori delle borse di mezzo mondo che assistono inermi al crollo, dall’altra quelle delle città inglesi attraversate dai riot che da sabato scorso sono esplosi in modo incredibilmente virulento.

Tanto le une quanto le altre, disposte accanto, sembrano messe lì a posta per dirci cose che isolatamente non avrebbero avuto l’opportunità di dire.

Ad accomunarle però, non è solo il collage giornalistico. C’è una sottile linea che le lega. Nelle parole dei leader politici che le commentano ricorre una strana omologia: “la Borsa è un orologio rotto” (Berlusconi), il downgrade delle agenzie sul debito pubblico americano “fa acqua da tutte le parti” (Tesoro Usa), “l'andamento dei mercati che abbiamo visto negli ultimi giorni è semplicemente ingiustificato sulla base dei fondamentali dell'economia” (Rehn, Commissario Ue agli affari economici).

Il Primo Ministro Cameron parla della rivolta come insensata, irriducibile alla logica della politica: «mindless», «needless and opportunisti».

Insomma, sembrerebbe che i governi siano sotto l’attacco di forze impersonali, irrazionali, potenzialmente distruttive e prive di logica. In entrambi i casi, si affacciano come di consueto, anche le teorie cospirazioniste. Lo spettro delle possibili spiegazioni oscilla tra la matrice della preordinazione (da parte degli speculatori e di non meglio specificate bande, dall’altra) e quella dell’assenza di logica.

Eppure, come tutti sanno, tanto le rivolte quanto i mercati, una «logica» ce l’hanno eccome. Nonostante la natura irriducibilmente differente pare che condividono in profondità anche una stessa percezione: che stiamo entrando in una spirale recessiva di lungo termine, che le politiche di austerità non faranno quadrare il cerchio ai «fondamentali dell’economia», ma produrranno e accentueranno dinamiche di biforcazione sociale già in atto. Che declassamento e impoverimento di fasce sempre più ampie di popolazione saranno la realtà con la quale convivere, non un effetto perverso della situazione attuale, ma almeno nel medio termine, un solido orizzonte.

Visti da questa particolare angolazione, mercati e rivolte presentano una razionalità di rango ben superiore a quella dimostrata dai governi che si affannano a fornire rassicurazioni, fingendo di avere la situazione in pugno.

Del resto questa presunta irrazionalità, affonda le radici nella convinzione che i comportamenti che la contraddistinguono appartengano ad una sfera «separata» da quella in cui governa l’agire socialmente legittimato. Allo stesso modo con cui sentiamo ripetere la consolante quanto ridicola distinzione tra economia «finanziaria» ed economia «reale», torna alla ribalta l’idea che ad animare le rivolte di questi giorni in Inghilterra sia una sorta di «altra società», o «quasi società», nei confronti della quale si possono assumere atteggiamenti opposti, dalla paura alla compassione, ma pur sempre «separata» e legata solo formalmente alla comunità.

Sono in questi giorni a Londra e nel leggere i commenti su queste giornate sono stupefatto dal modo in cui riviva lo spettro dell’underclass. Sembra quasi che la contesa del dopo-riot si giochi attorno a questo. Del resto, lontano parente delle classi pericolose di ottocentesca memoria, quello della urban underclass è un retaggio tipico della sociologia anglosassone che ha visto nelle trasformazioni della stratificazione sociale post-fordista l’emergere di un agglomerato non solo povero, ma escluso, de-socializzato, ignorante, che per questo esprime in modo istintuale, mindless appunto, i propri bisogni.

La sotto-classe non è solo il prodotto della disuguaglianza, non significa solo subalternità ma anche preclusione sociale e politica a-farsi-classe. Nata con una vocazione critica, la categoria è stata utilizzata moralisticamente dai conservatori che vi hanno visto l’incarnazione sociale della devianza e dai progressisti l’oggetto inerme su cui indirizzare l’intervento assistenziale e riparatore.

Quello dell’underclass è un limite vistoso sia sul versante interpretativo che su quello politico. Limite incarnato, si badi bene, non solo nella cultura della società britannica ma anche e soprattutto nelle striature che la segnano.

Sul fronte interpretativo, nonostante sia difficile dire qualcosa di sensato sulla composizione sociale che sta animando i riot di questi giorni, basterebbe leggere i «profili» sociali dei ragazzi portati in tribunale in queste ore per rendersi conto che la faccenda risulta ben più complessa delle rappresentazioni monolitiche: disoccupati, ma anche occupati, neri ma anche bianchi, poco istruiti ma anche molto istruiti. Questa eterogeneità, che lascia intendere una complessità maggiore a quella che solitamente si è disposti a credere, viene immediatamente surclassata da un’immagine della povertà completamente negativa, definita essenzialmente da mancanza, da un vuoto. Il punto che lega il moralismo di ogni risma si concentra sull’elemento del saccheggio come espressione, alternativamente, della naturale propensione al crimine, della contraddizione fra l’universalismo consumistico e il particolarismo dell’accesso al reddito, ed insieme nella convinzione che sarebbe una povertà dell’esperienza a rendere compulsivo e rabbioso il gesto. A me invece pare che ciò che rende «esplosiva» l’esperienza della povertà, non è affatto il suo venir fuori da uno stato di isolamento, ma esattamente dal suo contrario: l’essere cioè immersa dentro flussi sociali, comunicativi e di consumo complessi, densi ed estesi. Finché non si accede a questa consapevolezza che colloca il desiderio dentro forme di vita ad un alto livello di connettività, non ci liberemo mai del moralismo che vede nelle ribellioni il riflesso pavloviano ad un eccesso di stimolo consumistico.

Ciò che passa attraverso le merci (merci che connettono, che concatenano forme di vita, che allargano le possibilità della circolazione) è un livello di socializzazione di cui si conosce già perfettamente l’utilità e il valore, ma al quale viene imposta una misura inaccettabile, questa sì senza valore, senza proporzione, senza contenuto. Non c’è solo il pesante livello della disoccupazione a rendere vacua la misura del lavoro nell’accesso alle merci, ma anche l’insufficienza di reddito che deriva da quelli precari, spesso semi-gratuiti. È questa misura, violenta e brutale, ad essere presa di mira. Non è la norma del consumo che, producendo bisogni indotti, si rivolta contro se stessa, ma è casomai il desiderio che nell’azione collettiva prova a se stesso che quella misura è sempre revocabile, precaria e, in ultima istanza, needless.

Piaccia o no, per una manciata di notti nelle strade delle città inglesi, si è presentato una nuovo modo di regolazione dell’economia, incapace di istituzionalizzarsi, ma che sta lì a ricordare che quello che domina in modo diseguale le vite di tutti, non ha nulla di assoluto. Dietro i fuochi, un piccolo evento di auto-normazione.

Si potrebbe dire, senza troppa ironia, che il progetto de-statualizzazione il Welfare contenuto nell’idea di Big Society del Primo Ministro Cameron si sia magicamente avverato in questi giorni d’estate: sotto forma però, di un keynesismo d’assalto.

Ma è soprattutto il limite politico dell’underclass, che sembra dominare oggi il dibattito negli Uk. L’implicito recupero della categoria inquieta soprattutto perché non anima solo gli incubi della stampa britannica, ma anche i sogni di alcuni commentatori che contrappongono la veracità del burning and looting alle modeste movenze della middle class che in inverno, nel Regno Unito, ha animato (non da sola) le manifestazioni studentesche. Occorre dire, a onor del vero, che anche in Italia non molto tempo fa abbiamo avuto esempi dello stesso acume analitico. Eppure, la verità che desta più scandalo in questo particolare momento storico è quella che ci dice che i processi di impoverimento che toccano oggi settori diffusi della società rendono possibili composizioni inedite. Rendono possibili, non vuol dire che lo siano nell’immediato né che lo siano necessariamente. Che queste sono all’oggi «di fatto» complicate, non c’è dubbio alcuno. In questi giorni in diversi quartieri britannici i cittadini si danno appuntamento per «ripulire le strade», senza l’aiuto del Governo, in una contesa che vede il «sociale» come una terra di conquista. Il sito della Bbc chiama paradossalmente (e significativamente) resistenza queste azioni di civismo. Dentro questo paradossoc’è tutto il significato ambivalente della Big Society: nel suo essere per definizione «terza» rispetto allo Stato e al Mercato, questa può assumere alternativamente le fattezze della privatizzazione del comune e della miniaturizzazione dello Stato, oppure il segno costitutivo e conflittuale dell’autonomia dall’uno e dall’altro. Dipenderà dal modo in cui i processi di soggettivazione occuperanno questo spazio a risolvere in un senso o nell’altro l’alternativa. In questo tentativo di comporre o di contrapporre i pezzi che convergono nella vulnerabilità di massa, si gioca la partita del governo e quella dei conflitti. Ma la partita è politica, non ha nulla ha che fare con la «natura», anche se «sociale», del problema. Questo è solo un pregiudizio degno del peggior giornalismo, di qualunque bandiera esso sia.

In questi giorni Londra è stata effettivamente fuori controllo. Questo ci dice che i mercati finanziari e i tumulti si presentano come l'«alto» e il «basso» delle pratiche di governo, cioè il limite che ne segna il perimetro e lo spazio d'azione. Per questo le giornate inglesi, nonostante l’estrema complessità che le caratterizza e gli esiti che prenderanno, ci devono far gioire. Non solo perché una parte di popolazione sta reagendo alle politiche di austerità e agli effetti che producono in termini di controllo sociale. Ma soprattutto perché ci dicono che oltre ai mercati finanziari, esiste un'altra istanza capace di tenere in pugno i governi. Sappiamo bene che la lotta di classe non si accontenta di questo, deve misurarsi sul terreno della trasformazione. Ma d'altra parte sappiamo anche bene che non può nulla senza questo carattere minaccioso, senza questo rendere troppo costoso il continuare sulla stessa strada.