Bloody Sunday, da una generazione all'altra

La storia della strage in cui morirono 14 persone uccise dai soldati britannici durante una manifestazione pacifica a Derry, in Irlanda del Nord.

31 / 1 / 2022

Gli avvenimenti del 30 gennaio 1972 segnarono profondamente la storia dell’Irlanda del Nord e le vite dei suoi abitanti. Una domenica pomeriggio di rivendicazioni pacifiche nella città di Derry si trasformò per mano dell’esercito inglese in quella che ormai è tristemente nota come Bloody Sunday, la “domenica di sangue”. Quel giorno, infatti, durante una manifestazione pacifica organizzata dalla Northern Ireland Civil Rights Association, il 1° battaglione del Reggimento Paracadutisti aprì il fuoco contro i dimostranti uccidendone quattordici. Tutti furono uccisi mentre scappavano o alzavano le mani in segno di resa: Patrick Doherty fu colpito alle spalle mentre cercava riparo; a Bernard McGuigan fu sparato mentre tentava di aiutare Patsy Doherty, nonostante avesse in mano un fazzoletto bianco; James Wray era già gravemente ferito e giaceva sull’asfalto quando un soldato lo finì con un colpo in testa. Secondo la commissione di inchiesta guidata da Lord Saville, quasi tutti i feriti e le vittime furono colpite alle spalle.

Nonostante tutte le testimonianze, incluse quelle fotografiche dei giornalisti presenti, escludessero che i manifestanti fossero armati o costituissero un pericolo di alcun tipo, la memoria delle vittime fu ulteriormente insultata dalla commissione di inchiesta che si tenne nei mesi successivi e presieduta da Lord Widgery: il report che ne risultò affermava che i manifestanti in realtà avevano attaccato per primi e che, dal momento che l’esercito aveva solo risposto agli attacchi, non si ravvisava alcuna irregolarità nella condotta dei militari. Era stato chiaro fin da subito che l’indagine sarebbe stata parziale, come fu confermato non solo dai risultati ma anche dai documenti che saltarono fuori negli anni successivi, tra cui in particolare il cosiddetto “Heath-Widgery memo”, un memorandum del 31 gennaio 1972, esattamente all’indomani della strage, in cui l’allora Primo ministro Ted Heath ricordava a Lord Widgery che: «We are in Northern Ireland fighting not only a military war but a propaganda war».

Solo nel 2010, a quasi quarant’anni dal massacro perpetrato dalle forze di occupazione inglesi, la verità è emersa definitivamente. Questo è stato possibile solo grazie alla tenacia delle famiglie delle vittime, che a partire dagli anni Novanta hanno messo in piedi una grande campagna mediatica, culminata con l’istituzione nel 1998 di una nuova commissione di inchiesta presieduta da Lord Saville. Il report che ne seguì scagionò definitivamente le vittime di quel giorno e accusò invece i soldati inglesi, definendo inoltre il Bloody Sunday «a catastrophe for the people of Northern Ireland». Nonostante le scuse pubbliche di David Cameron, la giustizia è ancora lontana: non solo nessuno dei soldati individuati dall’inchiesta Saville è stato incriminato, ma il governo di Boris Johnson ha annunciato un disegno di legge che prevederebbe l’amnistia per tutti i reati legati ai Troubles.

Tra i promotori del movimento che chiedeva, e chiede, giustizia per le vittime del Bloody Sunday, Tony Doherty ha sicuramente ricoperto un ruolo fondamentale. Figlio di Patrick “Patsy” Doherty, aveva appena nove anni quando l’esercito gli portò via suo padre. Come è facile immaginare, questo evento lo segnò profondamente, al punto che appena diciassettenne entrò a far parte dell’IRA, ma nel giro di pochi mesi fu arrestato e scontò quattro anni in carcere. Una volta tornato libero, fu tra i primi promotori della Bloody Sunday Justice Campaign.

Proprio in occasione del cinquantesimo anniversario, è uscito in Italia il primo volume della sua trilogia di memorie, intitolato “Il piccolo di papà. Storia di un’infanzia nell’Irlanda del Bloody Sunday” (Nutrimenti ed.). In questo toccante memoir, Doherty ripercorre gli anni tra il 1967 e il 1972 nel quartiere cattolico di Brandywell, Derry, e ricostruisce attraverso le vivide descrizioni del piccolo Tony le strade, le case, i giochi e persino gli odori che hanno caratterizzato la sua infanzia.

Nonostante venga da una famiglia operaria, Tony cresce spensierato, esplora il mondo e combina marachelle come tutti i suoi coetanei. Tuttavia, man mano che il suo racconto va avanti, l’ombra del conflitto si allunga sempre di più sulla sua vita quotidiana. Prima gli attacchi dei B-Special, la sezione protestante della polizia nord-irlandese, poi l’arrivo dell’esercito inglese, e i continui scontri che ne deriveranno, avranno un’influenza sempre maggiore sulla routine di Tony e della sua famiglia. Doherty rappresenta con grande naturalezza cosa significhi vivere la guerra, quali disagi ne derivino, anche quando non la si comprende appieno, come nel caso del piccolo Tony: la presenza dei soldati all’inizio è un’attrazione, le armi in bella vista sono un gioco, e ci vorrà un po’ prima che possa realmente comprendere le conseguenze del conflitto.

La figura di Patsy Doherty rimane un punto di riferimento in tutta la narrazione: un uomo fiero, che lotta per i propri diritti e che non rinuncia alla propria dignità neanche davanti ai soldati; severo ma capace di guidare Tony in un momento molto doloroso e cruciale della sua infanzia; padre affettuoso che però verrà strappato troppo presto alla sua famiglia dalla lucida follia dei parà inglesi. “Il piccolo di papà” è soprattutto un viaggio nella memoria attraverso cui Tony Doherty rivive il rapporto con suo padre e lo omaggia con un racconto emozionante e coinvolgente.