Il sistema capitalistico, per la prima volta dagli albori della sua
storia, appare oggi incapace di assorbire le domande sociali che si
moltiplicano di fronte al crescente malessere della maggior parte della
popolazione. Tra queste istanze, le principali sono legate alla
necessità ormai improrogabile di attenuare le disuguaglianze economiche,
alle richieste di riconversione energetica e, inoltre, a quelle che
potremmo definire le rivendicazioni di nuove forme e contenuti della
cittadinanza da parte dei migranti.
Di fronte all’inedita fisionomia di queste pressioni sociali, la “mano
invisibile” che regolava “la società di massa”, e la già finzione
comunistica propria di un utilitarismo liberale che pretendeva di
armonizzare gli interessi contrastanti , non funzionano più.
Nessuna illusione di un’unità sociale possibile appare ancora
sostenibile, mentre svanisce il sogno di quella dinamica democratica roussauiana
che imponeva la partecipazione alla decisione delle regole da parte di
chi si trova a seguirle. In un simile panorama, le migrazioni assumono,
insieme alle delocalizzazioni della produzione come altro effetto
amplificato dalla globalizzazione, un nuovo ruolo nella ridefinizione
dei meccanismi del mercato e nella riscrittura dei diritti.
È su più livelli e in differenti ambiti, infatti, che la presenza dei
migranti viene oggi incontro alle nuove necessità dei poteri statali e
dei mercati sovrastatali che si trovano a navigare a vista nella realtà
ancora indeterminata e sfuggente della globalizzazione.
Nel nuovo contesto della crisi del capitalismo globale,
il modello novecentesco di Welfare ha abdicato grazie soprattutto alla
nuova possibilità di selezionare la forza lavoro invece che
disciplinarla. Come scrive Santoro (2009), “la
sparizione del ‘popolo’ come attore relativamente omogeneo è
strettamente legata alla crisi delle istituzioni disciplinari
inglobanti: la popolazione odierna non viene più costruita, come
accadeva nel XIX secolo, ma selezionata” (ivi, p. 228, traduzione
nostra). Ciò è possibile anche grazie al fatto che la maggioranza dei
cittadini europei si oppone all’attribuzione ai non-cittadini dei
diritti civili, politici e sociali, come se tali diritti “fossero un gioco a somma zero”, e “la
concessione di prestazioni sociali ai migranti potesse fare ancora
scendere il livello di quelle fornite ai cittadini e già ridimensionate
dalla mondializzazione economica e finanziaria” (SANTORO, 2009, pp. 230-1, traduzione nostra).
La presenza di persone giuridicamente invisibili e socialmente
calpestabili perché prive di uno status formalmente riconosciuto, oppure
in possesso di un permesso di soggiorno estremamente precario in quanto
connesso all’esistenza di un’occupazione lavorativa regolare e a tempo
indeterminato, permette infatti di livellare verso il basso anche le
pretese legittime delle altre categorie di lavoratori attraverso il
ricatto di avere a disposizione un esercito di manodopera sfruttabile a
bassissimo costo e pronta a sostituirsi, in patria o altrove, a chi
rifiuta di lavorare senza adeguate tutele e giusti salari. Si pensi a
questo proposito al caso esemplare dei referendum indetti nel giugno del
2010 e nel gennaio del 2011 nelle fabbriche Fiat di Pomigliano d’Arco e
di Mirafiori, attraverso i quali il ricatto della delocalizzazione (nei
paesi di origine di potenziali migranti che adesso possono venire
sfruttati direttamente sui loro territori) ha spinto un gran numero di
lavoratori ad accettare nei fatti un ampio restringimento dei diritti
acquisiti in anni di lotte sociali.
Nella ridefinizione del rapporto di forza tra mercato e
lavoratori, quindi, e nel retrocedere del ruolo dello Stato come
regolatore delle leggi del mercato, la presenza dei migranti viene
strumentalizzata nello svuotare di ogni equilibrio possibile ogni
negoziazione, e nel velocizzare il percorso di fragilizzazione e
reversibilità anche di quei diritti che per decenni sono stati
considerati come definitivamente acquisiti.
L’inizio del XXI secolo appare allora segnato, a livello globale, da
nuove dinamiche di manipolazione e selezione della popolazione agite
anche e soprattutto attraverso inedite forme di confinamento dei diritti
persino in quelle regioni del mondo occidentale e per quelle categorie
di cittadini per cui essi sembravano oramai una conquista irrevocabile.
Allo stesso tempo, però, simili rinnovate condizioni possono anche aprire la strada all’insorgere di veri e propri “atti di cittadinanza” , capaci di segnare uno scarto rispetto ai comportamenti definiti dal precedente modello sociale. “L’essenza di un atto”, scrive Isin (2008), “in quanto distinto dalla condotta, dalla pratica, dal comportamento e dall’habitus, è che l’atto è una rottura nell’esistente” (ivi, p. 25, traduzione nostra) e “ compiere un atto significa sempre compiere l’inatteso, l’imprevedibile, l’ignoto” (p. 27, traduzione nostra).
È poi probabile e sta in parte già avvenendo, inoltre, che questi atti
si manifestino anche e soprattutto a partire da quei soggetti
formalmente esclusi dai confini dei diritti concessi soprattutto
attraverso la cittadinanza.
Nel contesto della crisi attuale, le migrazioni contemporanee sfidano infatti i limiti imposti ai contenuti e all’attribuzione di questo status per come essi si sono ridefiniti nel corso di secoli di sviluppo del modello nazionale, rimettendo in discussione le basi stesse del sistema in cui erano stati rinegoziati. Le migrazioni, pertanto, contribuiscono in maniera significativa a restituire alla cittadinanza la sua dimensione di processo dinamico che evolve in base alle istanze dei soggetti che ne forzano i confini, ma anche dall’incontro di queste istanze con le forze, per così dire più conservatrici, che a simili nuove rivendicazioni si oppongono in nome della nostalgia di un’immaginata omogeneità nazionale e di un orizzonte sociale, economico e politico che non può più caratterizzare la realtà contemporanea.
La presenza dei migranti nei paesi che ne richiamano la
forza lavoro e in cui vengono proiettate le loro aspettative rispetto al
possibile miglioramento delle proprie condizioni di vita, non solo
rinnova la tensione - ancora più paradossale nell’epoca della
globalizzazione - tra l’universalità dei diritti umani e l’appartenenza a
determinate nazionalità, ma rimette in gioco nuovi problemi di
giustizia distributiva a livello globale.
Il modo in cui si manifesta e viene gestita la presenza dei migranti nei
nostri paesi rimanda immediatamente all’idea di un mondo non pacificato
e di società non più “disciplinate”: se le modalità di imbrigliamento
della loro mobilità e le prassi e i dispositivi dispiegati al fine di
controllarla raccontano una realtà in cui “la crescente segregazione, separazione ed esclusione nello spazio è parte integrante dei processi di globalizzazione” (BAUMAN, 1998, p. 5), le strategie di resistenza di questi ‘viaggiatori non autorizzati’ che praticano a vari livelli un “diritto di fuga”
(MEZZADRA, 2001) al contempo non formalizzato e insopprimibile,
esprimono invece una possibilità del tutto nuova di superare queste
stesse forme di controllo(1).
Occorre innanzitutto sottolineare che nel nuovo gioco di confinamenti da
cui l’istituto della cittadinanza è attraversato e che contribuisce
esso stesso a ricreare proprio in rapporto alle migrazioni, acquista
un’importanza fondamentale il tema della mobilità migrante, non solo in
quanto scelta soggettiva ma soprattutto come caratteristica
costantemente riprodotta e implementata. Tale mobilità non si manifesta
infatti solamente nel momento in cui i candidati all’immigrazione
abbandonano i loro paesi per raggiungerne altri in cerca di protezione
dalla guerra e dalla persecuzione personale oppure, come accade nella
maggior parte dei casi, di un miglioramento generale delle proprie vite
sempre più precarie. Essa è divenuta piuttosto la principale condizione
esistenziale di questa umanità in circolo, rappresentata da milioni di
persone che abitano il territorio dell’Europa e degli altri paesi di
immigrazione, ma che vengono ridotte – con rare possibilità di
cambiamento - a soggetti con un accesso ai diritti in vari modi
limitato.
L’implementazione di questa mobilità dipende infatti dalle stesse forme
di inclusione differenziale – prodotte a loro volta dalle politiche
migratorie e di cittadinanza attuate dai governi - che caratterizzano le
posizioni dei migranti rispetto alla società e al territorio in cui si
ritrovano a vivere. Solo con grandi difficoltà i migranti otterranno uno
statuto giuridico che permetta loro di acquisire una stabilità
temporale e spaziale attraverso la concessione di un permesso di
soggiorno di lunga durata o addirittura della cittadinanza. Nella
maggior parte dei casi essi resteranno vincolati dalla possibilità
costante di non riuscire a ottenere o rinnovare i propri documenti e di
venire espulsi o deportati. Inoltre, più di altri gruppi di popolazione,
le persone di origine migrante, anche quando accedono a un titolo che
ne permette la permanenza più stabile sul territorio, o addirittura sono
nate da genitori stranieri nel paese in cui questi hanno migrato molti
anni prima, sono spesso costrette a muoversi ovunque venga loro offerta
una possibilità lavorativa, anche se precaria o stagionale.
Se la produzione di forme estreme di precarietà
dell’esistenza dei migranti appare direttamente connessa a un tentativo
di messa ai margini di milioni di “non-cittadini ufficiali”, rispetto alla possibilità di quel “discorso” e di quell’ “azione” che, per Arendt (1958), “sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini”
(ivi, p. 129), ciò è accaduto grazie soprattutto al fatto che a queste
persone è stata da tempo imposta una mobilità forzata che ha impedito
loro di radicarsi su un territorio e renderlo lo scenario stabile dei
propri progetti e dei propri desideri.
Non a caso, nella Carta mondiale dei migranti, proclamata nel 2011
dall’omonima Assemblea riunita a Gorée, in Senegal, si legge che
Siccome noi apparteniamo alla terra, ogni persona ha il diritto di potere scegliere il proprio luogo di residenza, di restare là dove vive oppure di circolare e di installarsi liberamente senza costrizioni in qualunque parte del pianeta (traduzione nostra)
E in effetti, l’obiettivo di quella che è stata definita “l’autonomia delle migrazioni”, non è solo “un diritto generalizzato alla libertà di movimento, ma anche un diritto di restare” (WALTERS, 2008, p. 189)(2).
È proprio partendo da questo presupposto – che ad essere rivendicato non
sia solamente il diritto di muoversi liberamente attraverso i confini,
ma anche quello di scegliere di restare al loro interno - che Walters
suggerisce allora di prestare attenzione “a quei momenti
costitutivi, a quelle performances, a quelle azioni e a quegli eventi
dai quali viene alla luce una nuova identità, o sostanza, o relazione di
cittadinanza”, per comprendere meglio “quelle situazioni attraverso le quali dei soggetti cui mancano diritti o riconoscimento formali si rivelano – con o senza l’aiuto degli altri – capaci di agire come cittadini, e meritevoli di essere trattati da cittadini” (ivi, p. 192, traduzione nostra).
Le condizioni di vita imposte nella realtà contemporanea alle persone in
qualche modo e a diversi livelli escluse dalla cittadinanza, non hanno
infatti impedito, l’insorgere, in vari luoghi e in differenti momenti
della storia più recente, di veri e propri atti che hanno forzato i
confini dello spazio pubblico e della cittadinanza stessa. Si pensi ad
esempio a quanto è accaduto a Rosarno nel gennaio del 2010.
Preliminare all’arendtiano “diritto ad avere diritti” è stato in quel caso l’esercizio del diritto di reclamarli, l’accesso alla possibilità “to claim rights”,
come direbbe ancora Isin (2009). Ma per reclamare i propri diritti
bisogna prima riuscire a prendere parola e a irrompere sulla scena dando
vita d un “atto” che mentre si produce renda i soggetti protagonisti dei veri “attori” performativi della realtà, un atto che permetta di superare anche la distanza tra l’azione e la “rivelazione” e consenta invece “il rivelarsi di chi parla e agisce” (Arendt, 1958, p.133).
Questi atti si riproducono con sempre maggiore frequenza tra i non
cittadini dei paesi di immigrazione dell’intero Occidente (si pensi
anche allo sciopero dei Latinos negli Stati Uniti il primo maggio del
2006, al grido di “un dia sin nosotros”), ma anche tra i cittadini di
paesi come quelli del Maghreb e del bacino orientale del Mediterraneo in
cui la crisi economica e alimentare ha evidenziato i limiti di una
cittadinanza svuotata di diritti effettivi ed efficaci (3).
Dopo il conformismo imposto nella società di massa di
cui parla Arendt, ci siamo ritrovati a vivere, lo si è già detto, nuove
modalità di distruzione del “mondo comune” nell’epoca della gestione
della popolazione globale attraverso la sua selezione e ulteriore
frammentazione. La crisi contemporanea, però, è una crisi sistemica che,
come narra anche l’etimologia stessa del termine “crisi”, rappresenta
anche una enorme possibilità di “scelta” verso un cambiamento non più
confinabile nei limiti garantiti anche attraverso le concezioni
disciplinari di una società non più attuale.
Sembra essere oggi soprattutto l’esercizio di questa scelta - che nel
caso delle migrazioni si manifesta nel diritto di scegliere se, quando e
dove restare o di tornare ad esercitare la propria mobilità non più
imbrigliata - a potere oggi forzare i limiti stessi di una cittadinanza
che, non più solo concessa ma direttamente agita, eccede, a livello
locale e globale, i suoi confini formali (che definivano a chi e come
doveva essere attribuita) e sostanziali (che stabilivano di quali
diritti e doveri essa dovesse essere tramite).
Note:
(1) Proprio per descrivere la risultante di questo
incontro tra dispositivi di controllo della mobilità e strategie della
soggettività migrante ho altrove parlato di “campi di forza” e “percorsi
confinati” (v. Sciurba, 2009).
(2) Citando Hardt e Negri (HARDT e NEGRI, 2000, pp. 396-7), Walters
sottolinea inoltre che “il capitalismo incita e sfrutta la mobilità dei
suoi soggetti, ma la loro mobilità, in ultima istanza, finisce per
eccedere sempre rispetto ad esso (WALTERS, 2008, p. 189, traduzione
nostra).
(3) Per accennare alla peculiarità delle rivoluzioni in atto in questi
paesi in transizione possiamo prendere in prestito una definizione usata
per descrivere i movimenti sociali che, a partire da rivendicazioni
legate ai diritti di cittadinanza, stanno attraversando tanti paesi del
Sud del mondo: “Questi nuovi movimenti, diversamente dai ‘vecchi’ o
classici movimenti sociali, tendenzialmente mancano di chiare strutture
organizzative o di burocrazie interne, e, effettivamente, funzionano
attraverso la fusione di identità politiche e di programmi sia locali
che globali” (Thompson L., e Tapscott C., 2010)