Una storia “connettiva”: come nasce l’autonomia nella Bassa Padovana

Recensione del libro "Radici connettive. Il '68 a Este e nella Bassa padovana" (Derive e Approdi 2021). Mercoledì 17 novembre a Radio Sherwood intervista pubblica a curatrice e co-autori.

15 / 11 / 2021

Danilo Del Bello recensisce il libro “Radici connettive. Il '68 a Este e nella Bassa padovana” (Derive e Approdi 2021). Mercoledì 17 novembre a Radio Sherwood, nell'ambito delle iniziative organizzate dal Centro Studi e Documentazione "Open Memory - Sherwood", intervista pubblica con Beatrice Andreose, giornalista e docente, curatrice del libro e i co-autori Lauso Zagato, Gianni Boetto e Gianni Andreose.

La lettura di “Radici connettive”, il libro sulle lotte del ’68-‘69 nella Bassa padovana, in particolare ad Este e Monselice, con le testimonianze dirette di alcuni protagonisti suscita emozioni e riflessioni politiche di ampio respiro, va al di là del tempo storico.

Quando si parla di memoria, la questione si fa assai delicata, gioca brutti scherzi: può avvolgersi nel Mito metastorico, oppure, al contrario, in un ripiegamento nostalgico che interiorizza il senso della sconfitta, invece di essere un potente strumento di lotta e di riattualizzazione di «quel sogno di una cosa che il mondo ha da sempre posseduto e che aspetta solo di arrivare alla coscienza», come dice Marx in una lettera ad Arnold Ruge. Un Marx utopico, quello ripreso da Ernst Bloch, ma anche da Walter Benjamin, contro lo storicismo deterministico e la concezione di uno sviluppo della storia lineare e indefinito, che fa dell’utopia e della speranza non un ideale astratto e irraggiungibile, bensì un potente volano per agire nel presente, qui ed ora, per la trasformazione radicale della realtà. Il futuro è già qui e si nutre di quelle tracce, di quei bagliori di tutte le lotte, le sofferenze, le rivolte, le insurrezioni del passato degli oppressi contro gli oppressori, degli sfruttati contro gli sfruttatori, seppure in forme sempre nuove e diverse.

Nel suo ultimo articolo del gennaio 1919, Rosa Luxemburg scrisse «La strada del socialismo è pavimentata da sconfitte … da cui traiamo esperienza storica, scienza, forza, idealismo. O socialismo o barbarie!». E basta guardarci intorno per capire quanto sia attuale questa espressione.

Lo stesso spirito ha animato Che Guevara quando ha detto ai suoi assassini nell’ottobre del 1967: «abbiamo perso, ma la rivoluzione è immortale». Questo il senso della storia, il suo telos per nulla scontato e inevitabile, una “scommessa”, come direbbe Pascal, inserita nelle rotture, salti, discontinuità, biforcazioni degli eventi storici, nelle “occasioni” che in ogni tempo si aprono per la rivoluzione, mai predeterminate, ma il risultato della combinazione di una molteplicità di elementi nel rapporto tra “virtù e fortuna”.

Nei racconti dei protagonisti di quella stagione di lotte non c’è nessuna aura mitica: è narrata con semplicità la genesi delle lotte operaie e studentesche che hanno investito il territorio. Dalla grande fabbrica fordista, l’Utita, con i suoi ritmi disumani, con un dispotismo padronale pienamente dispiegato, con l’arroganza dei capetti e il “cronometro in mano” per misurare i livelli di produttività e il cottimo, le diseguaglianze e differenziazioni salariali. Allo sfruttamento selvaggio della “fabbrica diffusa, laboratori, forza lavoro femminile si aggiunge inoltre il maschilismo e la violenza del patriarcato.

Un gruppo di giovani, nessuno dei quali proveniente dal P.C.I., piuttosto dal patronato e dal cattolicesimo di base, comincia un percorso autonomo, passando attraverso la cultura critica, la musica, il cinema, l’arte. Un processo di “soggettivazione”, diremmo noi oggi, che li porta davanti ai cancelli dell’ Utita, la fabbrica schiavista, per i primi volantinaggi tra gli operai. Nasce il comitato operai studenti, un grande successo e mobilitazione nello sciopero del 1969, la cacciata dei fascisti, le parole d’ordine contro il dispotismo del comando padronale, le stratificazioni gerarchiche della forza lavoro, il cottimo, per l’egualitarismo.

Quel gruppo di amici, che si ritrovavano al bar o nelle osterie, provarono ad agire, lanciarono una scommessa per nulla certa o predeterminata, fuori da ogni schematismo ideologico, dalla pseudo-scienza deterministica ed ossificata del marxismo della terza internazionale, uniti da relazioni ed affetti, passioni ed emozioni, l’indignazione contro le ingiustizie e lo sfruttamento, all’ interno di processi che portano all’apparire di una nuova composizione di classe.

Un processo “genealogico”, nel contesto generale della rivoluzione del ’68, in cui la macrostoria  globale si riflette nelle microstorie locali, l’universale nel particolare: il maggio francese, la primavera di Praga, la guerra nel Vietnam, grandi mobilitazioni in tutto il mondo, ma anche l’affermarsi del pensiero critico sulla scienza, la medicina, la tecnologia e il loro uso da parte del potere. Un pensiero che oggi fatichiamo a scorgere a fronte di uno spaventoso bio-potere determinato dall’ideologia neoliberista il cui mito di un progresso indefinito e infinito sta portando il nostro mondo sull’orlo della catastrofe.

Ma questa genealogia ha dei precedenti importanti rispetto al ’68: dai Quaderni Rossi, nel 1961 matrici del filone operaista e del marxismo eretico contro la sclerotizzazione dei partiti comunisti, a Classe operaia nel 1964, dove si pone il problema dell’organizzazione autonoma di classe, fuori dai partiti istituzionali della sinistra, passando per l’indimenticabile insurrezione degli operai Fiat in piazza Statuto a Torino nel 1962.

«E’ stata una sorpresa, ma l’abbiamo organizzata noi», diceva Romano Alquati, una delle principali figure dell’operaismo alle sue origini, inventore dell’inchiesta operaia, o meglio della “conricerca”, cuore del metodo operaista, la totale immanenza di intellettuali e ricercatori alla lotta di classe per la riappropriazione del sapere -potere operaio, del tempo di vita contro il tempo del lavoro sfruttato, salariato, per il rifiuto del lavoro. «E’ stata una sorpresa, ma l’abbiamo organizzata noi», una frase, un lampo in cui risuona una profonda indicazione sul rapporto “virtù-fortuna”, sul caso, sull’occasione, sulla discontinuità dei processi storici che solo a posteriori, quando si sono compiuti, è possibile ricostruire secondo nessi di causa ed effetto.

Ma in realtà la storicità rimane sempre sul bordo tra presente vissuto e scintille del passato-futuro che in esso riverberano. Se tutto ciò è successo, perché non potrebbe succedere ancora, seppure, ovviamente, in forme diverse e sempre nuove seguendo il filo rosso delle lotte di liberazione che hanno attraversato la storia dell’umanità?