Una questione non solo privata

Di Resistenza in resistenza. Una recensione del libro Il combattente (Bur, 2016) di Karim Franceschi.

23 / 2 / 2016

«Qual è il tuo nome di battaglia?» mi chiede ancora. Non ha bisogno di aggiungere altro, so che nell’Ypg nessuno usa il proprio vero nome. Si chiamano tutti con degli pseudonimi, e il mio ce l’ho pronto già da un po’. Marcello. Chiamatemi Marcello.

Una scelta inusuale per un nome di battaglia, quella di Marcello. Un nome tutto sommato comune, non associato ad un qualcuno “di grande”. O, almeno, ad uno che sia conosciuto da tutti. Perché Marcello, invece, contiene un significato estremo per Karim Franceschi, autore di un libro che racconta un pezzo, tra i più intensi, della sua biografia: i tre mesi passati da combattente per liberare Kobane dall’occupazione del Califfato nero. Marcello è infatti il nome che avrebbe scelto per lui suo padre Primo, se soltanto in Marocco (dove l’autore è nato) avessero accettato il secondo nome. Chiamarsi Marcello significa rimettersi in un qualche modo alla storia del padre, ma – a scanso di equivoci – è bene sgombrare il campo da qualsiasi interpretazione psicoanalitica dall’odore freudiano: la storia del padre è tutta politica perché fu un partigiano di Signa che affrontò le truppe fasciste durante la Resistenze sugli Appennini tosco-emiliani. Di qui la formazione che ha portato Karim a crescere con gli ideali dell’antifascismo e della difesa della libertà, a loro modo sempre riattualizzati dalla militanza nei centri sociali fino alla permanenza nell’esercito Ypg dei curdi. Marcello è tutt’altro che un nome frequente in Italia, tantomeno una memoria individuale. E’ l’accostamento di due eventi “estensivamente lontani” nel tempo e “intensivamente vicini” nella loro portata; è il mezzo del viaggio dalla Resistenza alla resistenza dei giorni nostri. Questa analogia, ricorrente in tutto il libro, serve al lettore per comprendere la fatidica domanda che ogni combattente, tantissimi comandanti e giornalisti hanno rivolto a Karim: cosa ci fa un italiano a Kobane?

La partenza

Mi sento un rivoluzionario, e sto andando a combattere armato di ovetti Kinder e lecca-lecca. Non male, no.

Difficile districare le motivazioni politiche da quelle singolari per entrare nella mente del protagonista. Kobane e la rivoluzione del Rojava hanno rappresentato e rappresentano ancora oggi un’utopia, un ideale incarnati nei corpi degli abitanti della Siria settentrionale, di coloro che animano le istituzioni del confederalismo democratico, dei guerriglieri e delle guerrigliere curdi pronti a difendere la propria terra contro l’invasione del “vero” fascismo del nuovo millennio. I curdi del Rojava hanno applicato nella pratica le riflessioni teoriche di Abdullah Ocalan, diametralmente opposte alle identità chiuse e xenofobe, come dimostra la teoria del superamento dello Stato-nazione da una parte, dall’altra la stessa descrizione che ci dà Karim delle milizie Ypg e Ypj. Curdi, turchi, siriani, iraniani, iracheni, molti internazionali occidentali, tutti sostengono e si inseriscono nelle prime linee del fronte facendo proprio questo progetto rivoluzionario. Inutile ribadire le influenze che questa esperienza storica ha avuto sul pensiero e sull’azione dei movimenti sociali in Europa e non solo.

Questo il retroterra dal quale partire, da cui si muovono le intenzioni di Karim. Kobane è un baluardo di luce tra gli oscurantisimi islamisti, la guerra tra civiltà adottata dalla narrazione dominante dell’Occidente, lo scacchiere geopolitico in cui emerge la sete di potere del sultano Erdogan e dell’Arabia Saudita. Le parole sulla scelta di partire per la Siria non lasciano spazio al dubbio interpretativo, perché esprimono con la forza della loro semplicità questo desiderio di spingersi oltre la solidarietà e la diplomazia dal basso. Bisognava, per Karim, impugnare il fucile per essere parte attiva della resistenza del sogno rivoluzionario fattosi realtà. E dare così una speranza in più anche a chi guarda ad un “mondo alternativo possibile” al di fuori della Siria.

La guerra

E’ la guerra, no? Una volta che ci sei dentro non è che puoi stare lì a fare troppo il filosofo

Sconvolge la capacità di provocare dei brividi di freddo della descrizione di una guerra. Raccontarla con gli occhi di un ragazzo – partito per il fronte siriano alla stessa età di chi scrive adesso – la rende una realtà pesante quanto un macigno che ti colpisce nel petto. L’illusione della nuova “guerra del XXI secolo”, al contrario di quella di trincea o intereuropea del Novecento, sta nel non coinvolgerti direttamente perché non riguarda, se non di riflesso, i tuoi territori. Ma sta lì, è a un passo da te e può includere persone che conosci. Questo è ciò che dice un romanzo contemporaneo sulla guerra. Perché è anche così che dovremmo leggere Il combattente. La guerra, sempre un’eco di ritorno nei nostri media e nei dibattiti, è un qualcosa che non è stato vissuto dalle nostre generazioni, che è quanto mai un impensabile nelle nostre menti relegato tuttalpiù ai racconti che facevano i nonni o i partigiani. Invece, chi è partito per Kobane sa bene cosa sia, e Karim riporta con straordinaria somiglianza quello che siamo stati abituati a leggere tra le pagine di Fenoglio, Pavese, Levi o Calvino. Per prima cosa, il fatto che la guerra sia trasversale: non esiste distinzione di classe in sé, perché non riguarda soltanto alcuni. In secondo luogo, rimodula le relazioni secondo un principio basilare, quello dell’amico – o meglio, dell’heval/a – e del nemico. Karim descrive bene l’osso della questione: “o io o lui”. L’altro, in questo caso un fascista dell’Isis, è intenzionato ad ucciderlo assieme ai suoi compagni. Premere il grilletto del Kalashnikov per primo, sganciare una bomba a mano o puntare un fucile da cecchino sono frutto dell’istinto di sopravvivenza e della coraggiosa determinazione data dalla situazione che gli sta attorno. Nessun pensiero “filosofico” si sofferma troppo sull’umanità o meno della persona.

Ecco la terza cosa che apprendiamo sulla guerra da Il combattente, non così spesso un topos letterario tra gli autori della Resistenza del Novecento. Il fatto, cioè, che la divisione amico-nemico non sia sinonimo di guerra civile intesa come uno scontro fratricida che mette sull’altare l’unità nazionale e/o etnica. La guerra è lotta di liberazione politica, è rivoluzione quando difende e costruisce progetto al di là del conflitto. La guerra è “di classe” perché la classe si definisce proprio nel rapporto antagonista e militare con un’altra parte a lei incompatibile, perché essa si fa nel processo di opposizione; e l’altra parte è, nel caso dell’Isis, uno degli effetti di quel capitalismo predatorio che ha bisogno dei giacimenti petroliferi e della devastazione di interi paesi.

Il ritorno

Dicono che sono coraggioso, un esempio da seguire, mi chiedono consigli su come fare per unirsi all’Ypg, mi invitano alle conferenze e alle trasmissioni televisive. Di fronte a tanto affetto ho pensato a mio padre Primo. Mi chiedo cosa direbbe, se fosse ancora vivo.

Delle reazioni, degli effetti dei tre mesi a combattere per liberare Kobane, Karim non ce ne parla. Ne porta in qualche modo testimonianza il libro stesso, la ragione della sua stesura, la sua promozione. Come non raccontare questa storia e questa biografia in giro per l’Italia? Proprio in questi giorni è importante, quando le autorità e le istituzioni europee si rifiutano di coinvolgere le Forze Democratiche Siriane di cui fanno parte i curdi del Rojava nei colloqui sulla pace a Ginevra; quando la Commissione europea accorda tre miliardi di euro alla Turchia per la gestione dei flussi dei profughi dalla Siria, noncurante del fatto che Erdogan abbia bombardato Azaz dove i curdi hanno conquistano posizione cacciando l’Isis. E, sempre per rimanere in Turchia, che i governi occidentali ignorino la terribile operazione di repressione politica ai danni dei curdi nel Sud-Est del Paese, è il segnale della difficoltà di avere una narrazione trasparente di quello che è accaduto e sta accadendo in Siria. Legittimare fino in fondo la resistenza il cui simbolo è Kobane, vorrebbe dire dover rompere con il governo assassino di Erdogan per i governi occidentali.

Il racconto di Karim vuole proprio questo, tuttavia. Render giustizia ad una parte della popolazione della Siria che vuole autogovernarsi con un progetto politico ed umano attuato nonostante la guerra. Il ritorno diventa allora la parte inedita del libro in cui, di nuovo, la dimensione privata si intreccia con quella collettiva perché tramite la sua esperienza diretta del fronte vuole fare la differenza nel senso comune, nel cuore e nella mente di una persona. Proprio come ha fatto suo padre Primo tramandandogli l’eredità di una lotta che ha cambiato l’Italia. Perché non c’è opposizione tra singolare e collettivo quando si scrive un pezzo di storia, purché siano in armonia come gli insegnamenti partigiani raccontati ad un figlio e il desiderio di partire per combattere l’Isis al fianco dei curdi: ce lo aveva insegnato in modo diverso anche il buon Milton nella sua turbolenta relazione tra il dovere di partigiano, Fulvia e Giorgio. Non è questa la vera ragione di scrivere e pubblicare un libro? Lasciamo allora a Il combattente tutto lo spazio che merita per fare in modo che questo racconto politico diventi almeno un po’ personale per tutti noi.

Presentazione de "Il Combattente" di Karim Franceschi al Cso Pedro