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Stu vico niro nun fernesce maie
E pure o sole passa e se ne fuje
Ma tu stai lla, tu rosa, preta e stella:
Carmela.
E chiagne sulo si nisciuno vede
E strille sulo si nisciuno sente
Ma nun è acqua ‘o sanghe dint’ ‘e vvene
Carmela.
Si ll’ammore è ‘o ccuntrario d’a morte
E tu ‘o ssaie,
si dimane è sultanto speranza,
e tu ‘o ssaie.
Nun me può fa’ aspettà fino a dimane:
astrigneme int’ e braccia pe stasera,
Carmela. Carmè. -
Carmela è Napoli. E questa riflessione viaggia
intorno a questa poesia diventata un classico e alla storia di chi l’ha
musicata, per provare a ritrovare un’immagine di questa città in un periodo di
transizione storica e di necessaria confusione. Immaginari difficili da
costruire, e legami con una parte di passato che sembrano spezzati per sempre.
Una riflessione che viene proprio in questo periodo storico della città e che
possiamo definire la fine di quel cosiddetto rinascimento napoletano, che dovrà
ora conoscere un bilancio delle trasformazioni dal ’95 al 2005.
Partendo da questa canzone (che sembra venire da un passato molto lontano ma
che in realtà è degli anni ’80), mi è sembrato di capire qualcosa in più di
questa città.
Napoli tende a chiudersi su se stessa, come un qualsiasi organismo che affronta
un dolore enorme.
E chissà se per allargare l’orizzonte non sia necessario scavare sempre verso
il basso, ascoltare i suoni che vengono dal di sotto, e quelli provenienti da
lontano.
Una mescola possibile fra passato presente e futuro.
Purezza espressiva del passato, culture mediterranee, voci dei paesi liberati
dal dominio coloniale, nuovi modelli comunicativi e strutture linguistiche
delle nuove metropoli e delle annesse periferie.
C’è qualcosa di ancora indefinito che lega tutto questo.
E che bisogna indagare. E sono convinto che una voce evocatrice come questa e
alcune caratteristiche della sua opera possano, in qualche misura, agevolare
questo processo.
Carmela è Napoli, si diceva. E una parola estranea, “preta” (trad. pietra, n.d.r.), si incunea con amorevole ferocia fra
due delle immagini più accorate e ora logore destinate dalla tradizione alla
donna, appunto “rosa” e “stella”, e indica di quella Carmela la
dura fisicità, grumo di disperata vitalità e cellula costitutiva di quel vicolo
di fame dove il domani pare essere sempre senza speranza.
Nel concreto, l’operazione realizzata da Bruni e Palomba in questa canzone, è
quella di utilizzare gli elementi strutturali del canone classico per piegarli
ad esprimere la drammatica e quotidiana realtà di Napoli e dei suoi abitanti,
al di là di ogni mito e di ogni travisamento coi panni abusati del
sentimentalismo e del colore d’occasione.
Carmela è una delle anime d’un vicolo nero, un nero che pare non finisca mai e
in cui persino il sole passa e fugge via.
Questa immagine, fra le altre, il rapporto cioè fra il vicolo stretto e quindi
senza sole e lo “scuro” interiore del vicolo con i suoi problemi, la
ritroveremo in tutta la canzone napoletana post-bruni, persino in alcune forme
espressive cosiddette neomelodiche (che pur bisognerà indagare).
Nei toni, fra le canzoni di Bruni forse soltanto la canzone “Amaro è o’ bene”, fra quelle successive
a Carmela, darà evocazioni simili.
Alcuni anni dopo Goffredo Fofi scriverà che Carmela è lo spartiacque fra la
vecchia e la nuova canzone napoletana, cioè allo stesso tempo l’ultima canzone
tradizionale e la prima moderna.
Il brano fu effettivamente considerato un classico fin dal suo apparire (e
anche per questo non fu diffuso dai mezzi di comunicazione di massa ma si
diffuse nei canali sotterranei) e come le antiche canzoni diventate poi
classiche, fu diffuso soprattutto dalle chitarre degli ultimi rari
posteggiatori.
Bruni diventò un simbolo, perché probabilmente, negli anni ’80, quel
particolare tempo della poesia che era rappresentato da un certo mondo
culturale, era in realtà, già finito da tanto.
Non mi trovo d’accordo con Palomba quando dice che Bruni rimane nella storia
perché fuori dalla storia.
Credo che invece sia pienamente dentro la storia della città, e credo anche che
ogni espressione artistica, culturale, politica, sia sempre in relazione con il
contesto che la esprime e che la fa emergere.
Napoli infatti vive un periodo di vuoto di immaginari e quindi in alcune fasi
anche di espressioni artistiche dagli inizi degli anni ’70 fino alle
trasformazioni degli anni ’90, che però come sappiamo saranno più confuse della
speranza.
E' un periodo di transizione in cui la città si trasforma in una scatola sonora
disomogenea, sempre più diversificata. Disoccupazione, immigrazione, movimenti,
emersione e progetti di rilancio delle periferie, primi falliti tentativi di
riconversione industriale.
Conclusasi nel ’70 la stagione dei Festival della canzone napoletana, e delle
Piedigrotte, Napoli non ha più avuto manifestazioni culturali ed artistiche che
a quei livelli potessero lanciare nuove capacità espressive.
Il teatro di Eduardo - che raccontava del periodo post-guerra e degli
sconvolgimenti del boom economico degli anni 50-60 - era finito e forse se ne
diffusero maggiormente i tratti folkloristici più che i messaggi che esprimeva,
l’interesse per la tradizione di Viviani venne solo anni dopo - autore che
raccontava lo scenario popolare di Napoli fra gli anni 20 e 40 - e fino alla
nuova drammaturgia rappresentata da Santanelli, Ruccello, Moscato, fino alla
creazione di nuovi laboratori artistici, dalle riletture di testi di autori
stranieri ma anche ripresa di alcune caratteristiche del passato napoletano, ci
fu quasi una fase di vuoto.
I processi di trasformazione troppo veloci della città avevano confuso anche la
capacità della città stessa di raccontarsi, non solo all’esterno, ma anche negli
stessi immaginari interni. Similitudini forse si possono fare con la fase
attuale della città, raccontata sottoforma di parzialità con l’immagine della
città di Gomorra e suoi annessi, ma che stenta a dare una lettura complessiva
di quello scenario grandioso che è una metropoli moderna.
Anche la canzone classica andava pressoché scomparendo,in radio e tv,
surclassata da altri generi musicali.
Fra gli strati popolari cominciava ad emergere una musica locale che veniva
direttamente dal degrado, spesso ispirata al mondo della malavita.
Per un processo di adattamento anche per chi vive la città gli unici elementi
tradizionali e storici conosciuti sono gli stessi usati per costruire la
facciata turistica.
Elementi ovviamente fasulli e che non servono a ritessere quel filo rosso che
collega presente passato e futuro.
E’proprio per questo lavoro di tessitura che è interessante la vita di questo
straordinario artista.
La capacità di Sergio Bruni è stata proprio quella di sapersi continuamente
rinnovare attraversando tutte le anime della città.
Il mondo cambiava e andava seguito.
La tradizione a cui si aderisce, va discussa volta per volta senza farsene
soffocare.
Ci si porta dietro la storia. Anche nella voce. Una voce che nel caso di Sergio
Bruni viene da lontano. Ma non rimane indietro.
E Bruni ha cambiato più volte voce e spessore nel corso di cinque decenni.
Originario di Villaricca, Bruni fa proprio prima di tutto il mondo contadino e
si incontra da giovanissimo con la città, con il mare.
Ma anche con le sue difficoltà. Bruni a Napoli è poverissimo, viene reclutato
nell’esercito ma durante la
Resistenza, con un gruppo di giovani, si arma e smina il
ponte di Chiaiano da un esplosivo che i tedeschi avevano piazzato lì per impedire
l’arrivo degli alleati, per questo verrà colpito alla gamba in un conflitto a
fuoco dai nazisti, e claudicò per tutta la vita.
Fu dura, praticamente senza entrate, seguire la scuola di Canto ai Quartieri
Spagnoli dove ebbe la possibilità di studiare la tradizione antica.
Poi vennero le prime esibizioni nei rifugi sotterranei, in quella Napoli
parallela che viveva le attese della fine dei bombardamenti, ai classici
napoletani, al tour negli Stati Uniti che ricorda i concerti napoletani di
Gilda Mignonette o Enrico Caruso ascoltati dagli emigranti, al recupero di una
tradizione popolare, alla creazione di un centro studi della canzone
napoletana, alla registrazione di un’antologia con il grande Roberto De Simone,
la ricerca di continui perfezionamenti della voce e della sue vibrazioni
necessariamente legate alla storia della città, fino al disco “Levate ‘a maschera Pullecenella (tard.
“Togliti la maschera Pulcinella” n.d.r.) – itinerario poetico musicale
attraverso la Napoli
di oggi” tacciato di politicismo, in cui si arriva ad affrontare il degrado
della Napoli degli anni 80, microdelinquenza e denuncia del giustizialismo, e
infine il ricordo della resistenza partigiana.
L’arte di questo poeta musicale, ultimo Maestro
e quindi senza eredi, ha avuto la capacità di attirare anni dopo raffinati
intenditori e giovani musicisti ribelli.
Si pensi al successo dell’ultimo concerto di Bruni, uno dei più emozionanti,
svolto nella piazza San Domenico Maggiore di Napoli, con diecimila persone che
riempivano non solo la piazza, ma in pratica quasi metà del centro storico.
Oppure l’interesse di una grossa parte culturale della città, studenti,
antropologi, sociologi, critici, artisti, che riempì l’Aula Mura Greche
dell’Università Orientale in occasione dei 50 anni di carriera di Bruni.
Nella prima parte dell'opera degli Almamegretta, in versi come quelli di “Fa ammore cu mme” o di “Pe dinte e viche addò nun trase o mare”
(trad. “Per i vicoli dove non entra il mare” n.d.r.) sempre degli Almamegretta
ma testo proprio del vecchio Palomba, o nella seconda fase artistica di
D’Angelo (non ultimo il suo disco cover D’angelo canta Bruni) o nel progetto di
Bennato di riprendere il lavoro della NCCP legandolo ai canti anonimi del Sud con
quelli etnici del mediterraneo fino ai ritmi metropolitani, si possono leggere
momenti di legame e superamento in avanti di quel processo culturale.
Forse ancora indefinito. E probabilmente, in modo molto veloce (ma ormai le
trasformazioni hanno tempi più stretti), questo processo è già finito, superato
ora da chissà cosa.