66a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica - Lebanon – di Samuel Maoz

Un Rinoceronte a Saint Tropez

Utente: mari
9 / 9 / 2009

Devo trascorrere cinque giorni ad alto tasso di mediocrità cinematografica, con qualche modesta eccezione (i fenicotteri rosa di Herzog, le carrozzine di Lourdes, Huppert estrema e splendida come sempre…) scansando divise di tutti i tipi, filtrato da giovanotti palestrati con orrendi codini alla Corona, taglieggiato da osti improvvisati, prima di imbattermi in qualche cosa che dia un senso al tradimento del solenne giuramento periodicamente formulato: non mettere più piede al Lido in occasione di questo rito pagano. Sono i 92 minuti di “Lebanon”, opera di un israeliano non ancora cinquantenne che ha portato a termine gli studi di cinema nel 1987, ma che ha impiegato altri vent’anni per dare forma al suo incubo. E liberarsene.

Il 6 giugno 1982, primo giorno dell’ingresso delle forze armate israeliane in terra libanese per quell’evento bellico che verrà ricordato soprattutto per il massacro nei campi di Sabra e Chatila, alle 6,15 del mattino il soldato ventenne Samuel Maoz, la prima cinepresa avuta in dono a tredici anni e già autore di decine di film, dall’interno del suo carro armato spara per la prima volta nella sua vita contro un bersaglio vivente invece che contro barili di carburante. E fa centro. Tornerà a casa da sua madre, ma si libererà del peso di quella esperienza solo nel 2007 scrivendo e portando a termine “Lebanon”. Solo allora sarà veramente tornato.

Raccoglie la lezione di De Palma e Bigelow risolvendola in una confezione ai limiti della temerarietà: tutto il film è chiuso dentro un carro armato, nome in codice Rinoceronte. Missione facile: “ripulire” dopo il passaggio di aviazione e parà una cittadina ostile, nome in codice Saint Tropez. Cerca di depistarci aprendo i nostri occhi su una prima immagine fatta di un campo di girasole, giallo oro sotto un cielo perfettamente blu, prima di chiuderci in questo mostro metallico in cui si legge il motto “L’uomo è d’acciaio, il carro armato è solo ferraglia”. Ma le missioni facili non esistono, anche se i nomi in codice sono graziosi. Arrivano in progressione inarrestabile lo sporco, il sudore, la paura che diventa panico, il vomito, il sangue, la morte. L’orrore del colonnello Kurtz. Il cinismo degli ufficiali, lo strazio dei civili inermi, il sadismo dei falangisti, l’esterno separato dall’occhio liquido del mirino di puntamento. Tutto lentamente si disgrega, cambia forma e colore. Sentiamo le grida di una donna che ha perduto la sua bambina, vediamo il corpo di un vecchio venditore di galline cui l’obice ha polverizzato un braccio e una gamba, lo sentiamo gridare “shalom!”, pace!, mentre gli sparano un colpo per finirlo. Sentiamo l’odore di carne bruciata. Un minuto dopo l’altro tutto cambia: dentro il carro e dentro i quattro giovani occupanti.

E siamo dentro anche noi. Anche noi sudiamo, siamo sporchi, il sangue di nostro fratello è rappreso su ciò che resta della nostra camicia, ci viene da vomitare. Odiamo i nostri superiori e ci chiediamo come sia possibile tutto questo. Siamo soli a gridare il nostro orrore e la nostra disperazione, la nostra impotenza contro i disegni dell’Uomo che non riesce a non divorare se stesso, il nostro odio contro i Signori di tutte le guerre. Atterriti dal rumore del mostro di ferro che prosegue la sua corsa, schiacciati contro la poltrona, ricominciamo a respirare solo quando il Rinoceronte esce da Saint Tropez e si ferma nella luce del nuovo giorno. Una bestia ferita a morte, finalmente immobile in quel campo di girasoli. Silenzio.
Grande cinema, finalmente.

Marco Rigamo