Technoluddismo: resistenza all'innovazione e riappropriazione della tecnologia

Intervista a Marco del Collettivo Ippolita, che allo scorso Book Pride di Milano ha presentato "Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro", libro di Gavin Mueller tradotto in italiano da Valerio Cianci per Nero Editions

2 / 4 / 2022

Allo scorso Book Pride tenutosi a Milano abbiamo incontrato Marco del Collettivo Ippolita, venuto a presentare Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, libro di Gavin Mueller tradotto in italiano da Valerio Cianci per Nero Editions.

Di cosa parla questo libro?

Il libro ripercorre la storia del luddismo, partendo dal movimento che nasce durante la prima industrializzazione per arrivare ai giorni nostri. E in qualche modo fa vedere come nel corso della storia emergono tanti fenomeni di resistenza all’innovazione tecnologica da parte degli operai interessati direttamente, nel loro lavoro quotidiano, dalle stesse.

Le innovazioni non sono sempre state viste come portatrici di un progresso o di un minor carico di lavoro, ma spesso e volentieri come fonte di problemi. Pensiamo ad esempio al taylorismo che si è affermato, prima in America poi dappertutto, come un modo efficace e scientifico di sfruttare il lavoro operaio, rimanendo aderente a una certa narrazione legata al progresso che portava a un efficientamento del lavoro. Questo efficientamento in realtà è problematico non solo perché riduceva e sfruttava al massimo i tempi di lavoro andando a insistere sui tempi di produzione, ma anche perché andava a mettere in discussione i saperi degli operai che erano impiegati nella produzione.

Al di là di questo esempio storico, il libro ripercorre tutta una serie di momenti dove le pratiche di resistenza a queste innovazioni lasciano immaginare un diverso rapporto con la tecnologia. L’autore, ripercorrendo alcuni capisaldi della storia del luddismo (uno fra tutti Thompson), mostra come, già in origine, chi incendiava i primi telai meccanici non erano primitivisti, ma lavoratori che vedevano le loro condizioni lavorative degradate dall’introduzione di questi macchinari e quindi si opponevano a uno sviluppo che in realtà celava uno sfruttamento capitalistico brutale della classe operaia.

C’è una particolare attitudine da parte, ad esempio, dell’operaismo italiano, ma in generale di un certo tipo di marxismo, di intendere la tecnologia come possibilità di emancipazione collettiva, come l’elemento al cui interno si potesse creare quell’eccedenza in grado di ribaltare i rapporti produttivi. Il libro critica molto questa impostazione. Perché?

Perché la tecnologia non è neutra. Il punto non è solo la proprietà dei mezzi di produzione, ma come funzionano i mezzi di produzione. Se i presupposti sono legati allo sfruttamento inevitabilmente anche l’autogestione dei mezzi di produzione o la sua riappropriazione non garantisce che ci sia una reale liberazione del lavoro. Tantomeno garantisce che non si verifichi quello che è sotto gli occhi di tutti oggi, cioè una sovrapproduzione di merci che noi usiamo ogni giorno, di qualità dubbia e che hanno un impatto devastante sull’ambiente in cui viviamo.

Se io automatizzo la mia fabbrica e me la autogestisco, ma non ho un pensiero ecologista, ad esempio, vado a replicare dei meccanismi di sfruttamento del mondo naturale che non mi fanno risolvere il problema. Mi spostano il focus da una cosa a un’altra, ma in realtà non incidono un reale cambiamento a livello planetario. E il libro parla proprio di come si siano dati nel corso della storia vari esempi di resistenze e di pratiche alternative su più versanti dello sfruttamento.

A proposito di resistenze e pratiche alternative: come possiamo immaginarci un’alternativa di sistema che tenga dentro l’ecologia, la riappropriazione della tecnologia e l’uscita dallo sfruttamento del lavoro?

Il discorso è provare a capire che la tecnologia non è il nemico, ma va intesa in una modalità che ci permetta di usare la tecnologia esistente uscendo dalla catastrofe. La catastrofe oggi è data non solo dalla guerra in corso, ma dalla rincorsa alle materie prime, a maggiori delta di guadagno, a fatturare cifre sempre più grandi sia nell’economia reale che in quella finanziaria.

Il problema quindi non sono le macchine, ma il rapporto con cui noi diamo vita alle macchine e che instauriamo con loro. In questo ci muove un cambio di paradigma, che deve essere necessariamente di carattere epistemologico legato alla costruzione e all’uso della tecnologia in cui siamo immersi. Da diversi anni sono in corso una serie di sperimentazioni per usare la tecnologia in modo altro, ma queste pratiche non si conoscono, non sono diffuse e incontrano una resistenza molto forte data dal fatto che le persone “comuni”, non avendo conoscenza di queste cose, si affidano agli strumenti che vengono fornito da Google e compagnia.

Quindi non si riesce mai a uscire da questo circolo vizioso, cosa che in realtà è più facile di quanto sembri. Basterebbe andare alla ricerca di programmi free software o delle persone che si occupano di queste cose, che si incontrano e mettono a disposizione le loro competenze e la loro sensibilità. La chiave di volta è capire che fin quando siamo individualità atomizzate dentro la produzione capitalista saremo sempre e comunque schiacciati da queste dinamiche; se facciamo comunità e socializziamo i nostri saperi allora possiamo produrre un reale cambiamento.