Sulla mia pelle - Il corpo politico e l'agonia di stato

3 / 9 / 2018

Ho visto Sulla mia Pelle alla Mostra del Cinema Venezia, l'ho visto assieme ad un compagno. Ho applaudito anche io, non so se per sette, cinque o otto minuti. Ho partecipato all'abbraccio collettivo tributato dagli oltre mille spettatori della Sala Darsena a Ilaria Cucchi e al cast. È un bene che il film circoli nei centri sociali e negli spazi, perché è un film da vedere assieme, anzi la sua potenza sta esattamente nella sensazione di aver finalmente "visto assieme" qualcosa che ci pare così chiaro, ma allo stesso tempo così socialmente invisibile; del resto non c'è da stupirsi se persino chi ci governa, oggi si schiera ideologicamente a favore dell'abuso di potere.

Sebbene la sceneggiatura sia basata su rigorosi elementi di inchiesta, non aspettatevi un tipico film-inchiesta. Si tratta della ricostruzione degli ultimi sette giorni di vita di Stefano, dal giorno che si concluderà con l'arresto serale, fino alla mattina della morte.

Sulla mia pelle è un film politico, certo, ma non nella maniera in cui ci aspetteremmo, non è un film sul coraggio della ricerca della verità, quel coraggio di cui pure Ilaria Cucchi è testimonianza vivente, non è un film che si richiama all'epica della battaglia per il rispetto dei diritti umani. 

Attinge invece laddove una compagna non se lo aspetterebbe, al Cristianesimo. 

È politico nella misura in cui l'incarnazione del Cristo, la sua spoliazione del divino e l'insistenza sul suo corpo sofferente non possono che rimandare ad una dimensione temporale, allo spazio della polis e del politico. È questo l'archetipo che riecheggia. 

Dunque la politicità del film la si ritrova tutta nella centralità del corpo, nei lividi sulla sua pelle. Non è un film-inchiesta perché non è in punta di diritto (nessuno ha invocato l'habeas-corpus per salvare Stefano) e perché alla normatività del logos si sostituisce la sofferenza del corpo. Una sofferenza che seguiamo lungo gli ultimi sette giorni di vita di Stefano, ora per ora. Coma sarebbe stato altrimenti possibile scrivere una sceneggiatura a partire dall'idea di raccontare una storia senza trama, la storia di un corpo coricato che infine muore? 

Non c'è trama, ma i fatti stanno lì e ci guardano in faccia. È stato un gruppo di Carabinieri a coricare Stefano, a forza di botte, è stato l'apparato statale, dal giudice fino all'ultimo secondino, a recitare banalmente se stesso verso il prevedibile finale. Quell'apparato che Cucchi stesso, nelle ore immediatamente seguenti al pestaggio, pare giudicare come un avversario fuori dalla propria portata. 

Tutto ciò è cristallino, perciò la sofferenza dell'involontario Cucchi-Cristo è ben situata, non c'è voyeurismo, non c'è misticismo. La rivalsa degli ultimi non sta nell'espiazione, tanto é vero che Stefano muore solo, il suo vicino di cella si è addormentato, o forse è stato trasferito e le ultime parole di Cucchi non troveranno risposta. Invece, ai piedi della croce stava un bel po' di gente. È lì che Gesù si rivolge a Maria dicendo: "Ecco tuo figlio" e poi discepolo "Ecco tua Madre". È' lì che egli sancisce i legami che fonderanno la comunità cristiana. Al capezzale di Stefano invece non c'era nessuno (ai famigliari venne sempre negato di vederlo, adducendo di volta in volta cavilli procedurali) e sebbene la forza del film risieda nella potenza dell'archetipo, la prassi cui il film con urgenza ci chiama non è certo quella dell'imitazione della sofferenza, o della costruzione di qualcosa di simile all'apparato ecclesiale. Se nell'incarnazione e nell'agonia del corpo stanno le radici politiche del Cristianesimo, nel film di Cremonini il corpo di Stefano non trova consolazione nel trascendente. È umano e comprensibile che Cucchi, negli ultimi giorni di vita, speri di essere sollevato dalla lettura della Bibbia e speri nell'esistenza di Dio, ma la regia di Cremonini di certo non indugia sulla fondatezza di tale speranza. 

Il regista si richiama al Cristo come potente dispositivo di immedesimazione (che funziona ovviamente anche con i non credenti), ma allo stesso tempo se ne distanzia. Poiché l'essere di Stefano è da intendersi, spinozianamente, tutto contenuto dal proprio corpo, in cui il conatus (lo sforzo del perseverare nell'essere) viene estirpato. La sua agonia descrive l'esaurirsi della gioia nella progressiva perdita della potenza di agire.  

Sulla mia pelle è un film sull'agonia, sull'agonia di Stato più precisamente, una ferocia che bisognerebbe cominciare a trattare alla stregua del terrorismo di Stato. E se il termine agonia ha nella propria etimologia la parola greca che significa lotta, allora il nostro agone si gioca tutto sul terreno della costruzione di una nuova potenza di agire per il corpo sociale, contro l'ottusità della norma e la violenza dell'apparato. I nostri nemici sono tutti coloro che sposano, perpetrano o  nascondono alla vista tali ottusità e violenze. Vederle assieme può risultare traumatico per molti, ma è un passaggio necessario. Sulla mia pelle è, da questo punto di vista, un film importante.