Stop colonialism! L'insorgere dei giovani palestinesi contro apartheid, discriminazioni e guerra

Il report del dibattito a Sherwood Festival.

16 / 7 / 2021

In tanti hanno scritto e raccontato di Palestina, soprattutto negli ultimi mesi in cui quella terra si è ritrovata nuovamente al centro dei dibattiti per i motivi che conosciamo bene, ma come ci dicono sempre i palestinesi fino a quando si continuerà a parlare di loro, di quel popolo perennemente in lotta, la Palestina esisterà. E così è stato fatto allo Sherwood Festival, nella serata dedicata al post colonialismo con quattro ospiti dalle origini palestinesi: Anwar (Progetto Palestina), Shaden Ghazal (Giovani Palestinesi d'Italia), Silvia Gharaba (Comunità Palestinese del Veneto).

Avere radici che partono da terre lontane, come ci hanno raccontato Shaden e Silvia, soprattutto se inserite in un contesto sociale razzista e stigmatizzante, spesso porta alla nascita di conflitti interiori che indirizzano verso un iniziale rifiuto dell'identità palestinese. Ma con la crescita e con un percorso progressivo di accettazione e consapevolezza politica identitaria, le cose si sono ribaltate e, anzi, queste radici tanto pesanti all'inizio, si sono rivelate un motivo di orgoglio e il pretesto per intraprendere percorsi di sensibilizzazione contro il razzismo.

Parlare di decolonizzazione è un processo molto articolato e durante il dibattito è stato affrontato secondo diversi aspetti, tra i quali quello che prevede la denuncia della manipolazione dei libri di testo proposti dalle scuole elementari in poi in Italia. Questa manipolazione può essere tradotta con un tentativo di sionizzazione della storia, della geografia e della toponomastica che fortunatamente molti studiosi ed insegnanti stanno cercando di contrastare.

Ma nell'ultimo periodo sono nate sempre maggiori forme di resistenza culturale e molte altre figure stanno cercando di contrastare questo processo, anche attraverso la creazione di film, cortometraggi o altro materiale video che racconta una realtà spesso nascosta, perché ritenuta scomoda. È questo il caso di Tarek Bakri o molti altri registi palestinesi.

Sono nati anche molti collettivi, come quello del Nazra Palestine Short Film Festival, un festival itinerante del cortometraggio palestinese e sulla Palestina che attraverso la proiezione dei corti vuole aprire a discussioni sulla cultura palestinese e sui diritti umani.

Durante e dopo il dibattito sono stati proiettati alcuni dei corti presenti in archivio, tra i quali “Break the siege”, di Giulia Giorgi, un documentario girato durante il progetto internazionale Hip Hop Smash the Wall, tenutosi a Ramallah nel settembre 2014 in cui artisti della cultura hip hop italiana e palestinese si sono incontrati per condividere musica e danza come forma di resistenza e mezzo di pace.

“Roof Knocking”, di Sina Salimi, in cui viene rappresentato il momento in cui viene bombardata una casa nella Striscia di Gaza.

“The Bus Driver (Woman)”, di Iyad Alasttal, un corto che segue la vita quotidiana e il lavoro di Salwa, che guida un pulmino per portare i bimbi all’asilo. Tra chiacchiere e risate, il tragitto si snoda tra le stradine di Gaza mentre Salwa sfata tutti i pregiudizi sulle donne arabe-musulmane svelando un’incredibile fiducia nel futuro.

“From beneath to the Earth”, di Sami Alalul, in cui si dimostra come tra i palestinesi il rap abbia trasformato questa forma di ribellione in un movimento politico e sociale.

“Tour de Gaza”, di Flavia Cappellini, un ritratto di Alaa al-Dali, campione di ciclismo qualificato per i Giochi asiatici del 2018 che, temendo di non ottenere il visto per parteciparvi, ha rivendicato i suoi diritti di atleta presentandosi in divisa e con la sua bicicletta alla Marcia del Ritorno del 30 marzo. Purtroppo questo gli è costato il ferimento da parte di un cecchino israeliano di una gamba che gli è stata amputata e lo ha fatto diventare il primo ciclista paraolimpico gazawo.

Dal 1948 in Palestina c'è un continuo processo di colonizzazione delle terre e dei corpi dei palestinesi, con i continui espropri e demolizioni dei villaggi. C'è stato negli anni un susseguirsi di provocazioni che hanno innescato reazioni più o meno efficaci, come la storia ci dimostra. L'ultima delle quali si è verificata ad aprile, iniziata con gli ennesimi tentativi di sgombero delle case nel quartiere palestinese di Sheik Jarrah, a Gerusalemme Est, e raggiungendo l'apice con la Marcia delle Bandiere, una manifestazione indetta dalla destra più radicale israeliana che mira al controllo dell'intera città di Gerusalemme, compresa la parte araba. Da qui c'è stata l'escalation di violenze di cui abbiamo sentito parlare, arrivata al culmine con l'offensiva e il bombardamento di Gaza.

Quello che di nuovo è avvenuto negli ultimi anni, è che i giovani e le giovani palestinesi, nonostante continuino a non avere spazio tra le grandi testate giornalistiche, hanno ora a disposizione nuovi mezzi per raccontare quello che succede quotidianamente, per sfatare quindi alcuni miti proposti dai canali di comunicazione mainstream.

Anche il lessico di conseguenza ha subito una mutazione. Si è iniziato da poco a parlare non più di conflitto tra Palestina ed Israele, ma di attacchi e repressione, perché non c'è nulla di simmetrico nel confronto bellico tra i due territori.

Cercare di contrastare la narrativa ad esempio per cui Gaza viene etichettata come covo di terroristi, non è sicuramente un passo semplice, ma le nuove generazioni di palestinesi, rispetto alla vecchia generazione fatta di accordi con l'occupante, riescono a distaccarsi rivolgendosi alla comunità internazionale. E per certi versi gli attivisti riescono ad ottenere buoni risultati, in quanto molte figure di spicco, soprattutto nell'ultimo periodo, si sono schierate ribaltando la narrativa attraverso l'utilizzo dei social.

Come portare quindi un supporto reale ed efficace alla causa?

Il suggerimento che ci arriva dalle ospiti è in primis quello di sostenere le campagne di boicottaggio accademico e contribuire alla diffusione di un tipo di narrazione corretta e reale.

Ma soprattutto non bisogna mai smettere di parlare di Palestina con i palestinesi. L'approccio postcoloniale dà voce a chi continua a vivere la nakba. Proseguire il racconto sulla Palestina è importante in quest'ottica e restituisce la voce ai soggetti marginalizzati.