Sovvertire il pianeta. Il report del dibattito

14 / 6 / 2018

Lunedì 11 giugno c’è stato il primo dei dibattiti dello Sherwood Festival, dal titolo: "Sovvertire il pianeta. Lotte e movimenti nell’antropocene". Sul palco si sono confrontati Jason W. Moore (Binghamton University - State University of New York - Suny), Raul Zibechi (giornalista e autore uruguaiano), Tommaso Cacciari (Comitato No Grandi Navi), Emanuele Leonardi (Università di Coimbra) e Maura Benegiamo (Università di Milano Bicocca). Salvo Torre ha tradotto Jason W. Moore.

Tanti aspetti della discussione hanno messo in luce la ricerca di  un terreno di continuità – teorico, politico e strategico – tra lavoro e natura, tra bios e zoe. Come ha detto Marco Baravalle nell’introduzione, citando proprio un passaggio dell’ultimo libro di Moore: «il pensiero marxista e quello ambientalista – così come i progetti politici a essi collegati – hanno troppo spesso fallito nella ricerca di un terreno comune perché hanno attributo quella che Marx chiama “forza creativa soprannaturale” all’uno o all’altro lato della diade Natura/Società. Due fondamentalismi uguali e contrari – del lavoro e della natura – hanno finito col prevalere nel dibattito. Dal punto di vista politico, questa situazione si manifesta nell’assurdo e falso conflitto tra posti di lavoro e ambiente».

La prima questione posta da Jason W. Moore è stata quella di ripensare il lavoro a partire da una rilettura della storia del capitalismo in senso ecologista e femminista. Collocare la nascita del capitalismo nel «lungo XVI secolo» e non a partire dall’Ottocento rompe una tradizione marxista “ortodossa” che ha sempre considerato la schiavitù, il razzismo, il sessismo elementi secondari dell’agire rivoluzionario.  In quest’ottica, emerge sempre più la convinzione che l'anticapitalismo o è ecologista e queer, oppure è destinato a fallire. La critica al Capitalocene è queer perchè il Capitalocene è strutturalmente patriarcale e sessista e costruisce accumulazione espropriando da secoli il lavoro femminile, spingendolo nell'ambito di ciò che Moore chiama «le nature a buon mercato».

L’altra questione su cui si è soffermato Moore è proprio sul concetto di Capitalocene, per dissipare l'equivoco rispetto alla più gettonata espressione “antropocene”. Se ci fermassimo a quest'ultima, parrebbe che la colpa delle modificazioni geologiche e dei danni climatici inflitti alla Terra, sia dell'umanità in quanto tale. Moore specifica che, invece, la responsabilità è del capitalismo, dalle sue radici coloniali fino al presente. Il capitalismo, secondo Moore, deve essere oggi letto come uno specifico modo dell'organizzazione del rapporto uomo-natura, dove uomo e natura sono entità inseparabili, facenti parte della medesima rete della vita.

Infine, partendo dalla divisione tripartita del lavoro nel capitalismo - la forza-lavoro, il lavoro umano non retribuito e il lavoro della natura nel suo complesso – Moore ritiene che sia necessario rielaborare il paradigma del lavoro nel capitalismo. «Una politica rivoluzionaria del lavoro che non può affrontare i problemi del lavoro di cura e della riproduzione sociale è destinata al fallimento; così come una politica del lavoro radicale è incapace di affrontare la crisi della biosfera». Allo stesso tempo «una politica rivoluzionaria della natura che non riesce ad affrontare le questioni del lavoro precario, dell’"umanità in eccedenza", della violenza razzializzata, di genere e sessualizzata sarà destinata al fallimento». Per questa ragione, secondo Moore, è giunto il momento di una discussione su come forgiare una visione radicale che assuma come premessa l'insieme organico della vita e della biosfera, della produzione e della riproduzione.

Raul Zibechi si è concentrato sulruolo politico e strategico che possono avere i movimenti nei percorsi di resistenza che si determinano all’interno della società estrattiva. Zibechi usa il concetto di “società estrattiva” e non semplicemente di  “estrattivismo”, perché quest’ultimo termine è  legato a una visione esclusivamente economica.  «Per cogliere la complessità del modello di accumulazione dell’espropriazione l’economia è solo una parte» afferma il giornalista uruguaiano.

Zibechi traccia una differenza netta tra il capitalismo “del benessere”, nel quale l’accumulazione si fondava sullo sfruttamento del lavoro, e il capitalismo estrattivo, dove l’accumulazione si fonda sullo sfruttamento della vita e della natura. Il primo modello tendeva a includere la popolazione all’interno dei dispositivi di circolazione della ricchezza e del “benessere”, mentre «per l’estrattivismo  la popolazione rappresenta un problema». Di conseguenza cambiano anche le forme di controllo sociale: «nel modello precedente il controllo della popolazione avveniva mediante la scuola, la famiglia, la fabbrica; ora il controllo avviene attraverso la violenza e lo Stato di polizia».

Con la crisi di questo modello riemerge una ricolonizzazione della società e ne è una dimostrazione il fatto che la violenza di genere non è più un fatto privato, ma avviene nello spazio pubblico. La ricolonizzazione si afferma nel controllare los de abajo attraverso una vera e propria guerra compiuta dal capitale: «quando Marcos parlava di quarta guerra mondiale, si riferiva proprio al fatto che nel capitalismo contemporaneo il nemico non è un altro Stato, ma i popoli».

Per tutte queste ragioni, nella società estrattiva i soggetti di lotta si formano e organizzano al di fuori del modello estrattivista. In America Latina i movimenti stanno costruendo una nuova strategia che, se da un lato recupera lo spirito universalista del vecchio movimiento obrero, dall’altro ha nella territorializzazione il suo carattere determinante. Nell’ultimo ventennio le comunità in lotta hanno costruito esperienze di autodifesa dall’estrattivismo ponendole direttamente sotto il proprio controllo. Le lotte degli zapatisti, dei mapuche, della Guardia Indigena,  delle ronde contadine in Perù sono i principali esempi in cui sono le resistenze stesse che hanno creato comunità autonome. Secondo Zibechi tutto questo parte dal presupposto che la comunità non ha un dato storico e tradizionale perché «come la classe è il prodotto della lotta, così i popoli che resistono producono forme di comunità». I movimenti trasformano lo spazio in territorio e così la difesa del territorio diventa difesa della vita.

Leggendo queste esperienze in un’ottica globale, Zibechi afferma che l’intreccio dei movimenti crea nuovi mondi, in cui la produzione, la distribuzione, l’istruzione, la sanità, ma anche la giustizia e la costruzione del potere si affermano in maniera autonoma. «L’autonomia non è una dichiarazione, ma una costruzione che copre tutti gli aspetti della società» dice Zibechi che conclude affrmando che, per far sì che queste esperienze diventino realmente globali, «bisogna uscire dall’eurocentrismo».

Per Tommaso Cacciari affrontare in profondità il tema del conflitto ambientale è elemento costitutivo del “fare movimento” nella fase attuale, perché «non è più possibile tenere la questione climatica come contraddizione secondaria, come orpello alla presunta “contraddizione” principale, che è quella tra capitale e lavoro». L’urgenza è determinata sia dalla violenza che sta assumendo la crisi climatica in atto, sia perché concepire questa crisi in termini di “catastrofe” sposta il problema nel futuro, considerando il fatto che la devastazione è già parte delle nostre vite, dei nostri ambienti. Cacciari afferma che la crisi climatica sta mettendo in discussione le condizioni stesse di riproduzione biologica della vita, ma il capitale si sta già attrezzando agli sconvolgimenti che la crisi climatica crea attraverso i dispositivi finanziari e produttivi del cosiddetto green capitalism.

Per questa ragione per i movimenti non è più pensabile l’esistenza di una sfera naturale priva dei rapporti di classe e sfruttamento e c’è la necessità di creare momenti di rottura, dichiarando dal basso la crisi ambientale. Questo si traduce nel fatto che i movimenti territoriali, oltre alla creazione continua di legami sociali, devono assumere sempre di più l’elemento anticapitalista nella loro azione. «L’esperienza del Comitato No Grandi Navi è paradigmatica in tal senso» continua Cacciari «proprio perché Venezia rappresenta uno degli esempi più visibili di quanto agisca sulla città il capitalismo estrattivo e parassitario».

L’ultima mobilitazione cittadina lanciata dal Comitato No Grandi Navi - la Marcia per la dignità di Venezia dello scorso 10 giugno  – ha mostrato con chiarezza che una lotta ambientale deve necessariamente legarsi a una lotta per un’altra idea di città o di territorio. «Solo tenendo intrecciati questi elementi» conclude Tommaso Cacciari «è possibile avere sempre i piedi per terra, ma gli occhi che guardano al globale».

Nella parte finale della discussione Maura Benegiamo ed Emanuele Leonardi hanno interagito con gli ospiti, partendo dal modo in cui l’ecologia politica – che originariamente ha indagato la maniera in cui il capitale ha utilizzato le categorie di razza e di genere all’interno dell’organizzazione della natura - ha arricchito il proprio bagaglio nel quadro dell’evoluzione delle lotte e delle contraddizioni globali. Gli studi sull’estrattivismo contemporaneo stanno evidenziano come questo non si leghi solamente ai luoghi in cui materialmente si concentra l’estrazione di risorse, ma stia diventando il modus operandi peculiare della crisi climatica. In tutto questo emerge un ruolo diverso assunto dalla finanza che, da mero elemento parassitario, si trasforma sempre di più in una componente che agisce a monte e a valle dei processi di accumulazione e trasformazione del valore.

Sul piano teorico – secondo Leonardi – assistiamo al tentativo di costruire un ponte tra le nuove prospettive dell’ecologia-mondo e quelle che hanno contrassegnato la tradizione operaista. Un ponte che serve non tanto al dibattito teorico in sé, ma è necessario per comprendere a pieno la crisi capitalistica che stiamo attraversando. Rimanendo esclusivamente dentro lo schema operaista la crisi viene letta solo come crisi di sviluppo; dentro i criteri dell’ecologia-mondo la crisi si pone come “catastrofe” quasi ineluttabile. Per questo è fondamentale sperimentare sempre di più il modo di tenere insieme i due momenti, puntando sia alla riduzione radicale dello sviluppo capitalistico, sia alla liberazione del lavoro produttivo e riproduttivo.