Solcare confini di sabbia

Deserto del Sahara, inizio anni Novanta: le peregrinazioni dei popoli tuareg sconvolte dall’arrivo dei coloni francesi prima e dai nuovi Stati nazionali poi.

30 / 9 / 2021

Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accumunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La ventiquattresima  puntata della rubrica "Suture, a cura di Valeria Andreolli.

Il tè comincia a fischiare nella teiera. Tu non ti muovi. Rimani seduto con gli occhi piantati in quelli del giovane uomo che siede di fronte a te in silenzio. Lasci che questo ronzio venga assorbito dai timpani e ti arrivi al cervello. Solo allora ti alzi e sposti la teiera dai tizzoni bollenti con le mani sudate. Poi torni a sederti e ad ascoltare il respiro dei cammelli che sonnecchiano oltre le pareti della tenda e il frusciare della sabbia mossa dal vento.

Porti la teiera ben in alto e guardi il getto di liquido verdastro che va a riempire i due bicchierini di vetro appositamente posizionati sotto di esso. Guardi le bolle di schiuma che vi si formano dentro. Il primo tè è servito. Amaro come la vita. Come una vita passata a calpestare la sabbia, ad abbeverare i cammelli, a trasportare sale e ceramiche fino agli angoli più estremi del deserto, a costruire e disfare tende con pelli di capra tinte di rosso, a bere latte e mangiare porridge di miglio nel sonno ostile ed indomabile del deserto. Una vita scandita dalle diverse gradazioni di giallo di un sole onnipresente e feroce, dalle mammelle degli animali e dai fischi della teiera sul fuoco.

Mentre ti porti il bicchiere di tè bollente alle labbra, alzi il velo che ti copre il volto quanto basta per far capire a tuo figlio che oramai lo consideri un uomo degno di rispetto. Ricordi perfettamente il giorno in cui, attorno ai vent’anni, tuo padre ti donò il tuo primo velo, ricordi il sangue della capra sacrificata per celebrare l’avvenimento e ricordi la sensazione di realizzazione che provasti: eri finalmente entrato a pieno titolo nel mondo degli adulti. Non te lo togliesti di dosso per una settimana, assaporando il nuovo senso di protezione soprannaturale che esso ti conferiva: da quel momento disponevi di uno scudo contro gli spiriti maligni che abitano la sabbia e possono entrarti nei polmoni e farti ammalare. Quando finalmente te ne spogliasti, scopristi che la tua pelle aveva cambiato colore, era diventata indaco, come i fiori fermentati che tingono il tuo velo. Era l’anno dello strangolamento del sole, poco prima che i francesi, giunti dal nulla mezzo secolo prima a reclamare diritti su una terra di cui non sapevano niente, se ne andassero e vi offrissero un nuovo nemico: lo Stato, un’entità astratta e sconosciuta di cui le tue genti avevano fatto a meno per secoli. Ma ora per qualche ragione lo Stato era diventato qualcosa che ti riguardava da vicino, perché pretendeva di esercitare il suo controllo anche su te. E così imparasti che i granelli di sabbia che scorrono nelle vene del Sahara non sono tutti uguali: esiste la sabbia maliana, la sabbia nigerina e la sabbia algerina, tutte ugualmente gialle e finissime. Imparasti che esistevano delle linee immaginarie che stabilivano dove avveniva il cambiamento di sabbia e lo imparasti perché un giorno te ne ritrovasti davanti una che ti intralciava il cammino, proprio sulla rotta che avevi sempre percorso per andare al mercato e scambiare sale per cibo. C’erano degli uomini con la tuta mimetica e delle armi minacciose in mano, volti che non avevi mai visto, volti estranei al calore secco del deserto. Ti dicevano che non potevi andare oltre, perché da quel punto in poi la sabbia aveva un altro nome. Sono passati tanti anni, ma ricordi ancora la tua fatica nell’apprendere che la distesa mutevole che avevi sempre calpestato in lungo e in largo avesse un padrone, anzi più d’uno. E questa fatica non era solo tua, ma di tutto un popolo avvolto nel blu che si scambiava occhiate interrogative l’un altro in cerca di spiegazioni e conforto.

Ma un popolo che ha vinto il deserto non si fa sottomettere facilmente. Questo te lo sta insegnando tuo figlio, che, con gli occhi neri puntati nei tuoi, ti racconta, mentre beve la sua prima sorsata di tè, che la vita in città è dura, caotica, rumorosa, che gli mancano le cavalcate sui dromedari, il ristoro dell’ombra delle palme e il fruscio della sabbia che cambia forma, che la città gli fa apprezzare ancora di più la pace del deserto e credere ancora di più nella necessità di affrancarsi dallo Stato, un mostro deforme e sempre più incomprensibile che si palesa nei vostri villaggi in abiti da guerra e vi arresta, vi tortura, vi uccide per la colpa di appartenere ad un popolo che osò sfidare l’ostilità di terre aride ed incontaminate, un’impresa in cui pochi altri esseri umani erano riusciti.

Scruti quegli occhi e ci leggi tutta la determinazione di un giovane che sogna un futuro per sé e per la propria gente, un futuro che assomiglia ad un passato in cui gli Stati, gli europei e le armi da fuoco non esistevano, in cui la sabbia e il vento ballavano indisturbati sulle note di un silenzio che solo gli uomini e le donne dalla pelle blu sapevano ascoltare.

Tuo figlio ti parla di tanti altri giovani e meno giovani che, come lui, hanno deciso di guardarlo in faccia, questo Stato isterico e violento, e tu hai un brivido di paterna apprensione, che sei costretto ad ingoiare di fronte all’alternativa di essere massacrato di notte nella tua tenda senza neppure aver mai visto il volto del tuo assassino.

Aggiungi dell’acqua alla teiera e la rimetti sul fuoco. È giunto il momento del secondo tè, più dolce, come l’amore.