Sguardi sulla Palestina: quando l'arte diventa resistenza

21 / 1 / 2018

Nella prefazione del libro di Hamid Dabashi, Dreams of a Nation. On palestinian cinema, Edward Said scriveva che il cinema palestinese doveva servire ai palestinesi sia come arma per uscire dall’invisibilità in cui erano intrappolati, sia come strumento attraverso cui resistere agli stereotipi creati dai mass media internazionali che finivano puntualmente con l’etichettare il palestinese come terrorista e violento.[1] La tradizione cinematografica palestinese pone le sue radici nel lontano 1935, quando Ibrahim Haddan Sirhan filmò un lungometraggio che documentava la visita del principe saudita a Gerusalemme e Jaffa accompagnato dal Mufti palestinese Haj Amin al Husseini. 

Nonostante la produzione cinematografica palestinese sia generalmente molto ricca, è soprattutto dagli anni Ottanta a oggi che essa vede un maggiore e importante sviluppo. Nel marzo 1980, Michel Khleifi, considerato il fondatore del moderno cinema palestinese, fece ritorno a Nazareth con l’interno di girare il suo primo documentario ispirato alla storia di sua zia materna e a quella di Sahar Khalifa, scrittrice da cui il regista era affascinato. Il film era finanziato dalla ZDF, canale televisivo tedesco, e da NOVIB e IKON, due network olandesi. Tuttavia, i finanziamenti restavano comunque limitati e il regista fu costretto a girare il suo documentario in condizioni non ottimali. Nell’episodio appena descritto si colloca la nascita del cinema palestinese moderno e ben presto Khleifi divenne un personaggio di spicco nel panorama cinematografico nazionale e internazionale. Dopo di lui, anche altri iniziarono a produrre diversi lungometraggi e cortometraggi. Nasceva così, negli anni che precedono lo scoppio della I Intifada, la generazione di registi del calibro di Rashid Mashrawi, Elia Suleiman, Nizar Hassan, May Madri, Najwa Najar, Subhi Zubeidi, Hani Abu-Assad, attualmente tra i più acclamati registi palestinesi e, più in generale, del mondo arabo. 

Il cinema palestinese ha dovuto fronteggiare, fin da subito, i problemi derivanti dalla censura culturale che il governo israeliano spesso metteva in atto, negando i permessi per rappresentazioni teatrali o eventi culturali di vario genere. Ciò accadeva anche nei paesi arabi confinanti, in cui le istituzioni locali avevano lo stesso tipo di atteggiamento nei confronti nel cinema palestinese a causa della sua impronta nazionalista. Non solo: i grandi nomi sopraccitati hanno dovuto lavorare in una società in cui non vi erano condizioni favorevoli allo sviluppo della produzione cinematografica locale e ciò era causato anche dall’assenza totale di aiuto istituzionale, in quanto l’Autorità palestinese, già in crisi da tempo, doveva far fronte ad anni particolarmente tumultuosi e lasciava fuori dall’agenda politica interna gli aspetti più culturali.

Nel 1992, il Jerusalem Film Institute organizzò il primo festival dedicato al cinema palestinese e vi parteciparono trentadue film. Le pellicole furono proiettate sia a Gerusalemme Est sia a Nazareth e fu un’ottima occasione per avvicinare il pubblico locale. Prima della seconda Intifada, festival simili furono organizzati anche a Gaza e nella West Bank. In quel periodo, la necessità di raccontare la Palestina attraverso i film era così radicata da mettere in moto dei tentativi volti all’istituzione di una struttura mobile in grado di portare le pellicole nei villaggi più lontani e nei campi profughi. Il primo “cinema mobile” fu realizzato dal già citato Jerusalem Film Institute e funzionò dal 1992 al 1995. Quando la seconda Intifada scoppiò, nel settembre 2000, i cinema furono chiusi ma nonostante il contesto drammatico la produzione cinematografica del periodo non diede alcun cenno di arresto. 

Sono gli anni in cui Juliano Mer Khamis, regista e fondatore del Freedom Theatre, filmava Arna’s Children, pellicola incentrata sulla vita di alcuni bambini del campo profughi di Jenin. 

Il Freedom Theatre di Jenin fu fondato durante la prima Intifada dalla madre di Juliano, Arna Mer, donna di famiglia ebrea-sraeliana, aderente al partito comunista e sposata con Saliba Khamis, attivista palestinese. Ben presto, il Teatro della Libertà fece breccia nei cuori di un’intera generazione che vedeva nell’esperienza teatrale una forma di terapia collettiva e un luogo di crescita individuale. 

Era lo stesso Mer Khamis a parlare del Freedom Theatre come «spazio dove le persone possono pensare liberamente e mettere alla prova i propri pensieri, i propri desideri e sogni. Un luogo dove le persone possono essere uguali, per genere, uguali nei diritti. Un luogo dove le persone possono collaborare». E parlando di resistenza culturale affermava: «Abbiamo perso l’Intifada, abbiamo perso il consenso pubblico, abbiamo fatto grandi errori, perché non eravamo abbastanza intelligenti. Eravamo arrabbiati, frustrati e non puoi creare resistenza dalla disperazione. Con la disperazione puoi creare attentatori suicidi ed è questo che abbiamo fatto perché eravamo feriti e distrutti. Ora, che abbiamo capito che questo creava l’opposto di quel che volevamo, dobbiamo iniziare una nuova forma di resistenza. Stiamo cercando, in questo piccolo spazio tra l’occupazione e l’Autorità palestinese, di creare una terza dimensione, una terza alternativa. Non è facile, ma è la strada giusta». [2]

La terza alternativa di cui parlava Juliano Mer Khamis prima di essere ucciso nell’aprile 2011 nel campo profughi di Jenin qualche giorno prima dell’attivista italiano Vittorio Arrigoni, fa riferimento alla scelta della resistenza culturale come forma di lotta all’occupazione israeliana. 

Quando sei costretto a fronteggiare quotidianamente le conseguenze portate avanti da una politica fascista e aggressiva come quella che il governo israeliano conosce bene da decenni, sperimentare nuove forme di resistenza diventa l’unico modo per sopravvivere a ciò che ti circonda, allontanandoti dall’accettazione passiva del contesto drammatico in cui ti trovi.

«We teach life, Sir», dice  Rafeef Ziadeh in una delle sue più belle poesie, sintetizzando in quattro parole la potenza e la ricchezza della resistenza popolare palestinese.

Proprio alla luce di quanto appena scritto, la resistenza culturale diventa un’arma politica potentissima in grado di far tremare la forza occupante tanto da spingere il governo israeliano a censurare puntualmente libri e poeti, registi e film. Non è un caso che la repressione israeliana si sia sempre scagliata contro gli intellettuali palestinesi, colpendoli duramente.

Nel maggio 1989, per esempio, a Nablus, un gruppo di soldati israeliani entrò nell’ufficio di Dar al Hadara, spazio culturale in cui era presente una collezione di circa 2350 libri. Essi confiscarono decine di titoli e altri furono buttati dalla finestra e bruciati. Oltre il danno la beffa: qualche giorno dopo, Rida Adnan Rashid Zurba, direttore di Dar Al Hadara, fu condannato a otto mesi di detenzione con l’accusa di aver aperto al pubblico una libreria contenete decine di libri e centinaia di pubblicazioni con significato politico. Le pubblicazioni furono vietate in base all’Emergency Defence Regulations del 1945 che prevedeva dure condanne ai danni di coloro i quali pubblicavano testi in contrapposizione a quanto esplicitato nel regolamento. Oggi la realtà non è poi così distante da questi episodi, considerati i continui tentativi messi in atto dalla politica israeliana di voler procedere - come direbbe lo storico israeliano Ilan Pappé- con la “pulizia etnica della Palestina”. Si pensi, per esempio, che l’unico cinema di Gerusalemme Est è stato riaperto solo nel 2012, dopo essere stato chiuso venticinque anni prima dai soldati israeliani.

La lotta palestinese di ieri e di oggi rivive nelle parole di Fadwa Tuqan, nei versi poetici di Mahmud Darwish, nei racconti di Ghassan Kanafani.

E non solo: a raccontarci la sofferenza, la rabbia, la passione, la determinazione e il coraggio di donne, uomini e bambini palestinesi sono i graffiti che colorano il grigio Muro della Vergogna o le vignette di Naji Al-Ali che con il suo Handala, il bambino profugo raffigurato di spalle mentre aspetta di ritornare a casa, ha dato voce a intere generazioni. E sono le corde pizzicate degli oud al tramonto, le canzoni di Marcel Khalifa, o il rap dei D.A.M - solo per citare alcuni nomi- a fare da colonna sonora a questa continua storia di resistenza.

Nel contesto appena descritto, la cinematografia palestinese, la quale si sviluppa sia in film che in documentari, ha un duplice ruolo: da una parte racconta e documenta la realtà non facendo cadere nell’oblio memoria collettiva palestinese, dall’altra porta il bagaglio culturale palestinese fuori dai propri già liquidi confini, raggiungendo e sensibilizzando il vasto pubblico internazionale.

Non è un caso che, anche sul territorio nazionale, alcune realtà si mobilitino affinché la produzione cinematografica Made in Palestine sia conosciuta e supportata.

A Venezia, presso la videoteca Pasinetti, è da poco iniziata la quarta edizione della rassegna “Cinema senza Diritti”, interamente realizzata da Pina Fioretti e Maria Grazia Gagliardi grazie alla collaborazione con Monica Maurer e Fawzi Ismail di Al Ard Doc Film Festival di Cagliari, uno dei più importanti festival dell’area mediterranea. Fino al 30 Gennaio, Venezia avrà la possibilità di ospitare otto preziose pellicole, con due appuntamenti settimanali il martedì e il giovedi, attraverso cui sarà possibile “ricucire” la Palestina con le lenti attente di registi del calibro di Mohammad Bakri, Ahmad Damen, Hany Abu Assad o della talentuosa Maryse Gargour.

In un momento in cui la situazione palestinese sta vivendo un periodo di alta tensione, soprattutto dopo le ultime dichiarazioni di Trump e l’ondata ancora più fascista che ha invaso la Knesset, risulta fondamentale dare maggiore visibilità a quelle realtà che si occupano di promuovere le resistenze palestinesi.

Lo dobbiamo a Ahed Tamimi e ai tanti minori palestinesi che continuano a restare nelle carceri israeliane senza motivo se non quelli di essere nati dall’altra parte del muro.

A Khalida Jarrar, Marwan Barghouti e tutti i prigionieri politici palestinesi.

A Vittorio Arrigoni, Rachel Corrie, Simone Camilli e alla loro infinita voglia di ricercare e raccontare.

A Juliano Mer Khamis e alla sua idea di libertà.

Alle donne e agli uomini di una terra che non trova pace.



[1]E.Said in H.Dabashi, Dreams of a Nation. On palestinian cinema, Verso, 2006

[2]Intervista realizzata da Cosimo Caridi, Andreas Mazzia e Davide Viveri nel dicembre 2010, consultabile : https://www.youtube.com/watch?v=PNWsyqftD9I