“Schwa o non schwa?”. Tra battaglia linguistica ed emancipazione di genere

Report del dibattito tenutosi a Testo [come si diventa un libro] tra Vera Gheno e Andrea De Benedetti.

20 / 3 / 2023

Sabato 25 febbraio 2023 a Testo [come si diventa un libro], evento culturale svolto nella Stazione Leopolda a Firenze, si è discusso su un tema delicato che crea una divergenza tra le linguiste e i linguisti: “schwa o non schwa?”. Così è stato nominato l’interessante dibattito tra Vera Gheno, sociolinguista, autrice di saggi come Femminili singolari: il femminismo è nelle parole edito da effequ e Le ragioni del dubbio pubblicato da Einaudi, e Andrea De Benedetti, linguista e giornalista, il quale ha pubblicato Così non Schwa edito da Einaudi. A moderare l’incontro è presente l’autore e editor Leonardo G. Luccone.

La tematica in questione riguarda la grande polarizzazione che negli ultimi anni è emersa nei confronti dello schwa (ə), simbolo proveniente dall’IPA – l’Alfabeto Fonetico Internazionale – che si rifà ad un suono che non è presente nella lingua italiana. È un «suono indistinto per un genere indistinto», dice Vera Gheno, poiché per pronunciarlo è necessario mettere la bocca a riposo. È nato per far fronte a quelle situazioni in cui l’italiano predilige l’assegnazione di un genere, maschile o femminile, anche per identità non binarie. I movimenti LGBTQ+ e i collettivi femministi hanno rivendicato la parità di genere anche attraverso la lingua e la parola: come riuscire ad affermare i propri diritti se in primis la comunicazione risulta discriminatoria? 

Tuttavia, secondo Andrea De Benedetti, lo schwa non sarebbe necessario poiché tutte le lingue sarebbero inclusive nel momento in cui soddisfano il loro bisogno primario, ovvero la comunicazione tra i parlanti. Di certo, però, egli ammette che queste possano essere utilizzate in maniera violenta ed escludente: ma come avverrebbe questa esclusione? «Non tanto tramite i significanti, ma attraverso una manipolazione più o meno dolosa dei significati». Alla luce di ciò, per lo studioso la manomissione del significante, quindi della forma della parola, sarebbe pressoché inutile, poiché alla base dell’esclusione rimane il significato, il concetto vero e proprio.

Un altro aspetto da considerare per comprendere al meglio il punto di vista di De Benedetti è il fatto che egli non creda nell’utilità di nuove grammatiche per far sentire tutti rappresentati. Il rischio sarebbe quello di allontanare la lingua dai parlanti e creare un altro motivo di esclusione.

Inoltre, ritiene che l’utilizzo dello schwa non avvenga in maniera libera e spontanea, poiché costringerebbe il parlante a forzare la sua “lingua madre” e reimpostarla nel momento in cui si decide di utilizzare il simbolo, ma la naturalezza della lingua verrebbe a meno.

Secondo il linguista, se si utilizza il simbolo per una piccola serie di circostanze, egli non avrebbe nessuna obiezione rispetto allo schwa. Ciò che lo spaventa sono coloro che lo rivendicano come diritto, poiché il diritto comporta il dovere di farlo rispettare: questa soluzione risulterebbe restrittiva, non aperta e nemmeno pronta alla convivenza con le disuguaglianze.

Conclude paragonando la lingua alla democrazia: «la lingua trae la sua forza e la sua autorevolezza perché è stata sottratta dalle accademie dal secondo Dopoguerra per darla in mano ai parlanti. È quindi sconsigliabile disorientarla».

D’altro canto, secondo la sociolinguista Vera Gheno, ogni lingua è figlia di uno spirito del tempo, di uno Zeitgeist - ovvero la tendenza culturale predominante in un determinato momento storico. Alla luce di ciò, tutte le lingue europee nascono in un contesto dapprima androcentrico, in cui la donna era uno «scarto genetico», e poi si evolvono nel riconoscimento del dimorfismo sessuale, ovvero l’esistenza di maschi, di femmine e di persone residuali che rientrano nella categoria dei malati: Vera Gheno, infatti, ricorda che solamente dal 1990 l’omosessualità venne tolta dal manuale delle malattie psichiatriche. Una qualsiasi lingua, pertanto, riflette la visione del conosciuto: se questa è nata in un contesto in cui il maschio era al centro e, successivamente, si è evoluta in un mondo in cui era presente questo sistema binario fermo e categorico, come poteva esserci la risposta dentro alla lingua all’esigenza di un qualcosa che fino a quindici anni fa era ignoto? L’italiano non poteva risolvere l’aspetto di fenomeni nuovi, mai presi in considerazione, perché erano considerati casi psichiatrici.

La seconda questione risponde al concetto citato da Andrea De Benedetti, ovvero l’abilità dei parlanti di poter creare la lingua, l’aspetto democratico di questa. Secondo Vera Gheno, è una caratteristica bellissima, ma quasi utopica: non tutte le persone sono in grado di cambiare la lingua, poiché bisogna prendere in considerazione anche la variabile del potere: «la lingua, oltre che essere uno strumento per i parlanti, è anche uno strumento attraverso il quale viene perpetuato il potere. Essa rispecchia una società che tende ad essere colonizzante, coloniale, bianca, etero cis normativa»; queste strutture sociali si possono rivedere nella lingua e nella sua grammatica.

È necessario, quindi, che la lingua sia messa sotto tensione, sotto tortura: la società vede lo schwa solamente come un simbolo, un qualcosa di artificiale. Ma allora, si chiede Vera Gheno, cos’è la naturalezza in campo linguistico? Se la lingua provenisse veramente dal basso, questo simbolo dovrebbe essere l’emblema.

Un esempio citato dalla sociolinguista che può aiutare a cogliere il punto della questione è la manomissione linguistica creata dalle storiche americane negli anni Settanta: queste hanno alterato la parola “history”, trasformandola in “Herstory”. Le donne avevano la necessità di raccontare la storia dal loro punto di vista, quello femminista, sottolineando il loro ruolo per non rimanere nel margine. Le protagoniste in questione erano perfettamente consapevoli che l’“his” di “history” non provenisse dal pronome maschile, ma hanno messo sotto tensione la lingua per farsi spazio in una storia prevalentemente maschiocentrica.

Tuttavia, l’autore di “Così non Schwa” sottoscrive il concetto del retaggio patriarcale della società, ma ritiene che non ci sia nessuna prova, almeno fino ad oggi, che la scelta del maschile non marcato sia riconducibile al progetto pensato per rendere la lingua “mascolina”.

In un dibattito tra due correnti di pensiero opposte, ci possono essere dei punti di vista in comune. Il non utilizzo dello schwa nei documenti formali e ufficiali è condiviso da entrambi i linguisti: infatti, Vera Gheno ritiene che questi abbiano un’altra finalità, ovvero la comprensione e la leggibilità del testo. Inoltre, entrambi pensano che l’italiano sia una lingua in grado di essere attenta alle diversità solo se ne si fa buon uso: diventa quindi una lingua transfobica e razzista non nella sua struttura, ma nel suo impiego.

In conclusione, la società deve percepire come lo schwa non sia la risposta, ma la domanda. Lo schwa è la punta dell’iceberg, il capro espiatorio della questione. L’importante è che se ne parli, che sia presente negli striscioni delle manifestazioni, che ci sia quest’attenzione verso l’inclusione – parola che utilizzo con tutte le limitazioni che questa ha. La sperimentazione non dovrebbe spaventare, la lingua può evolvere e può cambiare. Rimando alla frase in chiusura di Vera Gheno: «lo Schwa non è la risposta, lo schwa pone il problema. Ai posteri l’ardua sentenza».