“Deh, che signifiha, he un gatto 'un pole ahare adesso?!”.
Risolvevi così la questione dei gatti che arrivavano nel tuo ufficio da quella porticina gattesca ricavata nella porta che dà sul gioradino. Con quei tuoi occhi chiari, beffardi, indagatori e vivi di curiosità
È molto che non passo di là, in quell'angolo di giardino proprio sotto la vecchia specola, a occhieggiare dalle finestre dentro a quello che mi sembrava sempre un ufficio à la mago merlino. Ci passeggiavo a tutte le ore, in quel gran giardino segreto dell'osservatorio, insospettabile dall'esterno, popolato di ricci e legioni di gatti.
Con quel tuo ufficio, intoccabile, nel quale tu arrivavi, spesso in bicicletta, a ore che il mio orologio nemmeno contemplava, per andartene quando a malapena stavo facendo il log in, in un altro edificio. “Risuonavano le quiete stanze e le vie d'intorno” m'è venuto spesso da pensare. Ogni luogo lì era segnato da un qualche tuo aneddoto su di te.
Qui in questo spiazzo spesso Margherita giocava a pallavolo. Ma Margherita chi? La vecchia? Pensavo io, irriverente. Ma tanto te riverente non sei stata mai, quindi non mi pareva di far male.
Ma non c'era nessun'altra Margherita. Si parlava di te. Di te che giocavi a pallavolo con una rete di fortuna in quel tal spiazzo erboso. A me che la rete non ci fosse più sembrava un'ingiustizia. Non averci capito proprio un cazzo, mi sembrava.
Ma come, la vecchia giocava a pallavolo? Eh, e non solo. Hai capito che roba, ma allora è interessante sta vecchia.
Ma poi io che ne sapevo, ero arrivato tardi, dodici anni fa e tu eri già la vecchia e per parlarti toccava di arrivare così presto che tanto valeva fosse tardissimo dal giorno prima.
“Eh, si capisce”, mi dicesti la
prima volta che chiesi se potevo passare da te. Un dottorando appena
arrivato e tu professoressa emerita. Ti scrissi un'email a proposito
di non so cosa. So che non era scienza. Eravamo troppo distanti per
campi di interesse, e per attività. Io lavoravo coi supercomputers
alla struttura su larga scala dell'universo, lavoravo con gente
strafiga e giovane, che dovevo chiedere a una quasi ottantenne
stellare? Magari facevo male a pensarlo, ma per qualche motivo con te
mi interessava di più parlare di altre cose.
Comunque non era
scienza. Sarà stata Genova, vista l'epoca, sarà stata la guerra o
forse la tobin tax. Non importa. Comunque la risposta era “eh, si
capisce” che potevo venire da te.
E tu ottantenne, mi ascoltasti
a me ventiseienne, con quegli stessi occhi curiosi, indagatori,
beffardi, benevoli. Non nascondevano il tuo interesse genuino né
quella vivacità che non faceva sconti, fuori dai binari delle
convenzioni. “Deh, che signifia, he un gatto 'un pole ahare
adesso?!”.
Eh, si capisce che può, poi si
pulirà.
Del resto, nessun gatto ti ha mai cagato sul tappeto, che
sappia io. E si capisce.
E da allora un numero imprecisato di
occasioni, qualche volta all'anno, per cose un po' più grosse. Ti
scrivevo o ti chiamavo. E tu sempre “eh, si capisce”.
E quando
per difendermi dicesti che ero un valente ricercatore fra i più
brillanti, mi feci una gran risata in galera. Ah Margherì, pensai,
se non lo dicevi tu non ci credeva nessuno. Ma senza voler fare un
torto ai tanti amici colleghi che invece, anche se con toni molto meno
aulici, pensavano che un po' decente ero.
Ma in realtà volevo
dire che con te “si capisce”. Con te si capiva tutto, con
semplicità. Di te ci si fidava.
Non è che si era sempre
d'accordo, si capisce. Ma il punto è che anche tu non volevi mica
avere sempre tutta la ragione. C'era una questione buona e tanto
bastava.
Tanto, la realtà è complessa, fatta di milioni di persone. L'importante è che sia chiara la questione buona, poi i dettagli uno può anche imparare a curarseli. Ci sta così tanta confusione su questioni grosse, a 'sto mondo, mica sui dettagli.
Eri una scienziata, non ci sono
dubbi. Sempre con rigore, praticavi la scienza anche nel dare una tua
opinione, vedendola come un metodo per ragionare e per confrontarsi e
non come una religione.
Una fonte di domande giuste e ben poste,
di mine nel cuore delle certezze insensate. Risposte semplici e
logiche, più che definitive e clericali, con un punto di vista
partigiano sempre dichiarato e caparbiamente rivendicato. Semplice,
partigiana e caparbia.
Così, oltre al valore scientifico, eri
arrivata ad essere un simbolo del pensiero libero, sagace,
irriverente. Anche perché non ti adeguavi a ciò che sembrava
adeguato, né alla tua età né al tuo genere, non ti prestavi a
diventare una vecchia noiosa e prevedibile. Eri e rimanevi sempre una
toscanaccia, che non le mandava a dire.
Mi piaceva come tutti
sapevano benissimo che eri una donna, ma come la tua personalità
costringesse tutti a confrontarsi con ciò che dicevi e facevi senza
potersi permettere ambiguità di nessun tipo.
Senza poterti
relegare né al ruolo di scienziata valente ma pur sempre donna
quanto al resto, né di donna bizzarra e stravagante senza un perché,
e quindi in fondo innocua. Non era possibile.
Eri scienziata,
donna, soggettività travalicante, innegabile e ingestibile.
Ecco, guarda, stavo pensando di venire a intervistarti anche su questo, in libertà in quella casa traboccante di libri e odore di pensieri. Con calma, tanto chi pensava che te ne andavi.
Su queste onnipresenti “questioni di genere”, o come vogliamo chiamarle.
E quell'aneddoto, di una risposta durante un'intervista: “ha incontrato difficoltà nella carriera per essere donna?” - “eh, si capisce” - ”E come ha reagito?” “Con violenza”, m'ha fatto pensare eccola Margherita. Alla grande. Con violenza. Sempre dritta al punto, si capisce.
Così, come altre volte, t'avrei telefonato “Professoressa..” “oh bongiorno, sempre a piede libero?”.. limortacci, pensavo ma non dicevo.
E invece no. Pazienza.
Così quest'anno se ne sono
andate una Margareth e una Margherita. La prima diceva there is no
alternative, la seconda l'esatto contrario. Che l'alternativa c'è,
che la libertà è scegliere, che per scegliere bisogna sapere,
indagare, domandare, resistere.
Irriverenti, caparbi, ingestibili.
Partigiani.
Si capisce.