Reddito universale e reinvenzione della cura, come andare oltre il debito

8 / 6 / 2020

L'intervento di Miriam Tola, docente e ricercatrice dell’Università di Losanna e attivista femminista, al webinar "Reddito universale contro la crisi sistemica".

Vorrei partire dal titolo del settimanale l’Economist che i giorni scorsi ha titolato in copertina “Dopo la malattia, il debito.” Secondo l’Economist all’indomani dell’emergenza sanitaria i governi si ritroveranno sommersi da una montagna di debito pubblico. Il debito, pubblico e privato, e le politiche di austerità sembrano essere l’orizzonte che ci si apre davanti. Ma un’altra faccia del debito è il nostro passato e il nostro presente. Ed è dell’altra faccia del debito che oggi vorrei parlare perché ha molto a che fare con la riproduzione sociale e la richiesta di reddito. 

Che cosa è la riproduzione sociale? I movimenti femministi, non da oggi, usano questo termine per definire l’insieme di attività che rigenerano e sostengono la vita. Si tratta di attività che coinvolgono la cura dei corpi ma anche degli spazi, dei tempi e degli affetti. La riproduzione riguarda l’accudimento materiale delle persone più dipendenti, giovanissime e anziane, come anche le dimensioni del benessere e dell’intimità.

Storicamente, nel capitalismo industriale, la riproduzione è stata disconosciuta, svalutata e naturalizzata come vocazione delle donne e dunque non retribuita o sottopagata. Da un lato, c’era il lavoro produttivo, quello svolto all’esterno, per il mercato, quello che si incorporava nelle merci e produceva valore. Dall’altro, c’erano le attività riproduttive, viste come secondarie, svolte da donne, spesso razzializzate e migranti, nel contesto della famiglia eterosessuale.

Il merito del femminismo, già negli anni Settanta, è stato illuminare il lavoro domestico e di cura come centrale per l’intera società e per il capitalismo che ne ha fatto oggetto di appropriazione gratuita. I movimenti femministi hanno chiesto non solo la rivalutazione della riproduzione ma anche, elemento fondamentale, la sua ridistribuzione fuori dalla famiglia. 

Oltre al lavoro delle donne, il capitalismo dell’era industriale ha appropriato la biosfera come fonte di materia ed energia. Entrambe, attività riproduttive e biosfera, sono state ridotte a risorse gratuite per alimentare un modo di produzione guidato dall’imperativo del profitto e della crescita. Questo elemento fa della riproduzione una dimensione che è insieme sociale ed ecologica, i due ambiti non sono scindibili. 

Nell’Europa del ‘900 la creazione dei programmi di welfare, soprattutto la sanità e la scuola pubblica, frutto di pressioni dal basso dei movimenti, avevano, anche se in modo del tutto parziale, ridistribuito il carico della riproduzione. 

Ora, attraverso i processi di privatizzazione in atto negli ultimi decenni il capitalismo e lo stato si sono disfatti delle responsabilità della riproduzione. Di più, nelle cosiddette economie di servizi, il lavoro stesso si è femminilizzato, ovvero è diventato informale, intermittente, tendenzialmente gratuito, legato alla disponibilità continua. In una parola, precario. Ci ritroviamo dunque, seppur con forti ineguaglianze legate alle linee del genere, del colore e della provenienza geografica, a camminare sul filo, senza reti di protezione. La rigenerazione della vita, in questo contesta, diventa insostenibile.

La pandemia attuale ha reso evidente la crisi profonda della riproduzione insieme sociale ed ecologica. Ha reso evidente la fragilità delle infrastrutture della cura, prima tra tutte la sanità e l’enorme carico caduto sulle spalle di chi, ancora una volta soprattutto donne, ancora una volta spesso razzializzate e migranti, svolge il lavoro riproduttivo negli ospedali e nelle case trasformate in uffici e scuole. 

La pandemia, come sostengono da settimane i movimenti sociali, a partire dal movimento transfemminista Non Una di Meno come anche i movimenti ecologisti, ha reso evidente come oggi, al collasso delle infrastrutture della cura, corrisponde quello degli ecosistemi devastati dall’espansione urbanistica, dalle deforestazioni, dalle coltivazioni intensive e dagli allevamenti industriali di animali. Tutti fenomeni, questi, che hanno reso più frequenti i passaggi dei virus dai corpi animali a quelli umani. La pandemia, insomma, ci mette di fronte a una crisi che è frutto di storie di spossessamento di corpi e territori. 

Ma dalle macerie della pandemia emergono anche forme di cura diffusa, che vanno al di là delle parentele biologiche. Penso alle reti di mutualismo che organizzano spese solidali, ai centri-anti violenza femministi che continuano a operare a distanza in un contesto in cui la violenza domestica è in forte aumento. Penso alla campagna delle sex workers, che hanno avviato una campagna di crowdfunding per sostenere le lavoratrici più marginalizzate e precarie. Queste iniziative, insieme alle campagne per il reddito, prefigurano un altro genere di riproduzione, oltre il mercato e oltre lo stato. 

Per chiudere, vorrei tornare al debito: le storie di spossessamento a cui ho accennato raccontano di un’immane espropriazione di ricchezza. Le storie di chi in queste settimane non si è mai fermata per rendere possibile la quarantena del paese, raccontano di un insopportabile sfruttamento. Questa è l’altra faccia del debito: una ricchezza sottratta che va reclamata. A partire da qui si può rovesciare l’orizzonte dell’austerità con la richiesta di ridistribuzione della ricchezza che è stata sottratta. Le campagne che chiedono il rifinanziamento del welfare e insieme reddito vanno in questa direzione. 

La proposta di reddito di autodeterminazione che il movimento femminista Non Una di Meno avanza ormai da quattro anni, nasce da un’analisi dell’intreccio tra forme di violenza che colpiscono le donne e le persone lgbtqia+. L’intreccio tra violenza maschile e economica diventa più intenso per le donne razzializzate e migranti. Poiché per Non Una di Meno si tratta di forme di violenza strutturali, ovvero prodotte dalla stessa organizzazione della società, il contrasto può passare solo attraverso misure redistributive universali e incondizionate che creino spazi di autonomia per tutte le soggettività.  

Il reddito di cura, proposto dalla piattaforma Green New Deal Europe, propone di dare riconoscimento monetario all’enorme quantità di lavoro di cura non retribuito. Inoltre, estende il lavoro di cura dalla sfera domestica a quella ambientale. Su questo tema segnalo una serie di interventi di Stefania Barca che spiegano con grande chiarezza questa proposta.

Le proposte femministe di reddito di autodeterminazione e di cura sono distinte ma presentano affinità con le altre campagne per il reddito di base. Per dirlo con lo slogan delle femministe argentine, queste iniziative affermano che vogliamo reddito perché «siamo in credito e non in debito!».