Reddito oltre il lavoro. Il report del dibattito

20 / 6 / 2018

Lunedì 18 giugno sul second stage dello Sherwood Festival si è tenuto il dibattito “Reddito oltre il lavoro”. Ma perché tale titolo? Sicuramente non si tratta di affermare la ‘fine del lavoro’ tout court, anzi, l’obiettivo principale è stato quello di comprendere, sotto varie angolature, il rapporto tra forza-lavoro e ricchezza socialmente prodotta nella società contemporanea.

Tra gli ospiti intervenuti Anna Simone (Università Roma 3), Roberto Ciccarelli (Giornalista de “Il Manifesto”), Sergio Zulian, Gianni Boetto (ADL Cobas) e Augustin Breda (Operaio Electrolux), ad introdurre e moderare Antonio Pio Lancellotti di Global Project. Quel che è certo è che si è assistito ad un dibattito con molteplici voci e altrettante visioni, in un contesto di viva dialettica a 360 gradi.

Antonio Pio Lancellotti inserisce quale incipit, la constatazione che il reddito deve esser riletto necessariamente alla luce delle nuove contraddizioni sociali e politiche, provando ad oltrepassare il solco ideologico impiantatosi già a partire dagli anni ’70, sulla questione lavoro-non lavoro / reddito-salario.

In una sorta di continuazione ideale col dibattito del lunedì precedente, si cita Jason Moore che nelle conclusioni pronunciava: «Una politica rivoluzionaria del lavoro che non può affermare i problemi del lavoro di cura e della riproduzione sociale, è destinata al fallimento: così come una politica del lavoro radicale è incapace di affrontare la crisi della biosfera».

Appare lapalissiano che il tema del reddito sia tornato alla ribalta nel nostro Paese a seguito della proposta lanciata dal Movimento 5 Stelle. Un dibattito che evidenzia da un lato come sia urgente ritornare a parlare della questione redistributiva, ma che dall’altro presenta invece delle contraddizioni in sé: il reddito propugnato da tale forza politica più che una vera e propria liberazione, seppur parziale, dalla povertà, è una forma di workfare, un “controllo dei poveri”. La stessa misura che si baserebbe - tra l’altro - su una forte discriminante etnica, che prosegue nei processi di controllo sociale basati sulla guerra orizzontale dei subalterni.

Al di là delle diatribe semantiche, propriamente di linguaggio, la vera proposta di reddito si basa come forma incondizionata di remunerazione economica della vita messa a valore, di una forza-lavoro che eccede lo spazio e il tempo del lavoro tradizionalmente inteso. Reddito quale elemento di lotta politica contemporanea, c’è da chiedersi, come strumento di massificazione oltre le evocazioni, di soggettivazione e di alleanza tra subalterni, come lotta femminista, meticcia ed ecologista.

Roberto Ciccarelli viene a specificare la proposta politica del reddito universale che, in quanto tale, deve essere riconosciuto sia per italiani che stranieri, affinché non vi sia una differenziazione tra immigrati e autoctoni (intesi quali cittadini), amplificata a latere ancor più da una propaganda razzista.

Il reddito universalmente inteso è intersezionale: mette insieme ciò che viene diviso con la contrapposizione tra bianchi e neri, etero e omo, italiani e rom, non contrapponendosi nemmeno al giusto reddito da lavoro. In questa visione il facchino è accanto allo studente, il bracciante insieme al rider, l’occupato vicino il disoccupato.

Il reddito di base è fuori da ogni mero individualismo, non contrapponendo i diritti in base alle identità sessuali o alle condizioni lavorative, fuori dalla concezione del penultimo contro l’ultimo e dallo stratagemma propriamente identificato nella guerra tra poveri.

Il reddito deve essere ovviamente considerato all’interno del discorso della fiscalità che questo governo focalizza nella misura della flax tax: tale è una forma di spostamento di ricchezza inteso nella sua dimensione neoliberista, dal basso verso l’alto, in cui vi è un aumento trasversale delle diseguaglianze economiche, dovendosi alternativamente prospettare una politica radicale di spostamento dall’alto verso il basso, in un discorso volto alla ri-politicizzazione di un’Europa austera ed infelice.

Anna Simone, autrice con F. Chicchi de “La società della prestazione”, ha esaminato il dispositivo che riguarda la formazione del soggetto neoliberale contemporaneo, in un’antropologia che ha strutturato una piramide al cui vertice si inserisce il mercato, quale definitore delle linee politiche e delle riforme del lavoro. Si è dinanzi alla scomposizione compiuta della classe, dell’uno che resta uno, inserito in un management aziendale del sé.

Come nei Paesi anglofoni, dove il termine prestazione è assimilato a quello di performance, si assiste nel nostro Paese alla trasformazione del modulo “mansione”, sostituito dalla cosiddetta. “aspettativa di performance”. L’idea è di una vita come un atto performativo h24 che risponde sempre alla concorrenza, generando una variabile psichica: l’interiorizzazione che genera ansia, che produce depressione. La questione dell’agire performativo orientato al successo, ha fatto sì che il lavoratore interiorizzasse il principio di competitività, di andare oltre i propri sforzi, portando nei casi estremi anche al suicidio.

Dall’altro lato, se precedentemente si parlava di responsabilità etica e morale di impresa, nel capitalismo moderno esistono invece nuovi modelli di management, basati sull’inclusione delle differenze, avvalorando le stesse solo su un piano di strategia di marketing (si pensi al Gay Index).

In un orientamento femminista il nemico numero uno è sicuramente il soggetto scisso tra essere e dover essere, per tal motivo non bisogna scindere il lavoro di produzione dal lavoro di riproduzione. Il reddito incondizionato di base, inserito in questa analisi, è una forma di incentivo per ritornare a prendersi cura dell’altro e dell’altra, non inteso come servizio monetizzabile, ma come necessità di ricostruzione del contesto sociale. La rivendicazione di un reddito è certamente anche uno strumento per le donne per uscire da una spirale di violenza, facendole ottenere autonomia ed indipendenza, oltre che per riaccedere al diritto universale alla maternità.

Il reddito è una nuova misura del mondo che rilancia una politica del desiderio intesa quale mola vitale e relazionale.

Gianni Boetto dell’ADL Cobas, ricorda come sul finire degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, il boom economico acuì l’elemento del lavoro, ritenendolo pilastro fondamentale, quasi una religione, all’interno di una società capitalistica. La messa in discussione di questo sistema avvenne con le forme di conflittualità interne al modello produttivo: l’introduzione delle nuove tecnologie potevano presupporre già da allora la riduzione del lavoro umano, mentre invece l’attività lavorativa aumentava sempre più poiché i macchinari non erano che funzionali al profitto, piuttosto che alla facilitazione del lavoro propriamente inteso. È qui che si colloca la prima rivendicazione del reddito, aldilà del collegamento col lavoro, insieme alla proposta delle 40 ore.

Non si può pensare che la concessione del reddito possa essere frutto di una mera elargizione governativa, come se fosse una sorta di automatismo divino; l’elemento per ottenere il reddito è certamente la pratica del conflitto. Nell’ultimo trentennio, non a caso, non ci son state lotte così intese, come potevano esistere nel passato, con esperienze di riappropriazione di ricchezza o episodi di espropriazione, con la chiara pratica dell’obiettivo.

Il punto fondamentale sussiste nell’organizzazione di soggetti sociali veri che rivendichino tale proposta. Vi sono vari esempi, territoriali e nazionali, di come in contesti dinamici e conflittuali siano nate piattaforme volte a rivendicare il diritto al reddito che è indissolubilmente collegato al diritto al vivere. La frase finale dell’intervento di Boetto è riflessiva e paradigmatica: «Solo attraverso il conflitto si producono processi di reddito oltre il lavoro».

Augustin Breda, sindacalista della Fiom recentemente reintegrato a lavoro nella Electrolux, a seguito di un licenziamento dichiarato giudizialmente ritorsivo, ha invece prospettato un punto d’incontro tra le lotte lavorative e quelle sul reddito.

In un modello in cui le aziende cercano di ricavare utili fino all’estremo dai lavoratori, bisogna rimettere al centro la riduzione dell’orario di lavoro, che sia volto alla cura contro l’usura e alla creazione di opportunità occupazionali. Connettere il lavoro con il reddito permetterebbe proprio un aggancio al fine di riottenere tempo libero e la realizzazione dei desideri.

In un contesto lavorativo ancora suddiviso dalla catena di montaggio tradizionalmente intesa da un lato e dall’evoluzione tecnologica dall’altro, un ciclo espansivo verso politiche di giustizia sociale potrebbe ripresentarsi solo ripensando l’antagonismo tra la forza-lavoro e il capitale.

La conclusione è finanche oggettiva: «nonostante le idee che si insinuano nelle menti attraverso le attività populiste e razziste, c’è ancora un elemento materiale che collega tutti i lavoratori, e li fa solidarizzare tra loro: lo sfruttamento».

Sergio Zulian, ADL Cobas, si è soffermato sul desiderio di sottrarsi allo sfruttamento lavorativo, fuori da ogni ricatto, sottolineando come il lavoro sia solo una necessità per sopravvivere piuttosto che una volontà di affermarsi dell’uomo. «È ovvio che in un contesto iperprecario è molto difficile che i lavoratori si organizzino a livello sindacale o di conflitto, essendo una condizione in cui si è continuamente presi di mira e a rischio non rinnovo» dice Zulian. Allo stesso tempo è aumentato lo svilimento delle figure lavorative, con una svalutazione stipendiale e giuridica. Il reddito eviterebbe ogni ricatto. Ma il tema reddito, propriamente inteso, va oltre, dovrà essere collegato alle tante altre questioni vitali, come il diritto alla casa, alla sanità, alla formazione. Essere in balìa della situazione politica con inerzia non porta ad alcun cambiamento reale; per converso invece, le rivendicazioni anche attraverso le forme di cooperazioni sociali, dal basso, creano elementi concreti di emancipazione sociale e di commonfare.

La conclusione nelle more di Ciccarelli appare positiva e conflittuale: «a questo mondo basato sul capitalismo senza redini bisogna preparare, per l’autunno che arriva, una manifestazione condivisa con una piattaforma di rivendicazione del reddito di base, per il ritorno ad una vera e propria politica, capace di intersecare composizioni eterogenee, di creare nuove istituzioni, di sospendere la guerra tra identità, capace di sapersi riconoscere e dialogare».

Dopo anni di autismo, di incomunicabilità e di deculturalizzazione di massa, bisogna mobilitare dal profondo le coscienze affinché si approdi all’organizzazione, elemento che manca ma che attualmente serve, con una precisazione a carico di Anna Simone che cita Mark Fisher (Realismo Capitalista): «nessuna lotta è veramente pensabile in maniera continuativa se non ci rendiamo conto anche della fragilità umana».