Razzismo Naturale

“Volevo un corpo che riuscisse a comunicare odio e amore contemporaneamente”. Mirko Locatelli

22 / 4 / 2014

Bestemmia e prega Antonio, il protagonista de I corpi estranei, secondo lungometraggio di finzione di Mirko Locatelli. Bestemmia anche quando prega. Prega perché non si sa mai. Ma soprattutto tace, fatica a far uscire la voce, quando lo fa la stritola. Perché è un uomo solo, lontano da casa, con un bimbo di meno di un anno in braccio. Un bimbo malato. Di cancro. Intorno, in quell'ospedale livido grande come una città, “sono tutti arabi, fanno schifo”. La città vera, Milano, anonimato urbano dalla finestra, non esercita alcun potere di coinvolgimento. Sradicato dal suo contesto sociale, allontanato per una drammatica urgenza dagli affetti familiari, Antonio sembra ritrovare la parola solo al telefono con la moglie e gli altri due figli piccoli, che non vedremo mai.

Locatelli ha scritto il film insieme alla sua compagna Giuditta Tarantelli, dopo aver fondato con lei nel 2002 una casa di produzione che si occupa principalmente di documentari. L' abitudine al documentario riverbera nitidamente in questo lavoro. Assieme hanno letto, studiato, incontrato psicologi clinici e oncologi. Decidendo di raccontare la fragilità dell'uomo invece che il dolore della malattia. Organizzando la narrazione attorno e addosso a Filippo Timi, che se ne assume l'onere con una intensità e una capacità di aggiungere valore che lo confermano come uno degli attori più interessanti della sua generazione. Lo incontriamo in un'area di servizio autostradale, a notte fonda. Si lasciano intravedere il display dell'orologio dell'auto e le luci dell'autogrill. Quando l'uomo rientra in macchina ci accorgiamo che dentro c'è un bimbo assicurato al seggiolino. Ci domandiamo cautamente che razza di padre è questo che lascia il figlio incustodito nel cuore della notte.

Timi ci mette 98 minuti a spiegarcelo, caricandosi addosso tutto il film, anche se l'uomo dell'area di servizio è diverso dall'uomo che tornerà verso casa. Sempre al centro della scena mentre attorno a lui tutto è rarefatto, impersonale. Il bimbo che gli è accanto (nella realtà sono due fratellini) è una straordinaria spalla senza parole. Medici, infermieri, inservienti sono brevi apparizioni senza nome. Pochissime informazioni per commentare l'evoluzione di quella che sembra una delicata operazione al cervello, che forse sta subendo qualche complicazione. Sono gli “arabi” quelli che parlano. Che si interessano della malattia, che indirizzano Antonio al mercato notturno ad alzare cassette e qualche euro, che pensano a sostituire a basso prezzo la batteria della vecchia Opel. Soprattutto Jaber, adolescente tunisino, si ostina a cercarlo, a fargli sollevare lo sguardo, a rompere il muro.

La camera tallona costantemente Antonio, spesso da dietro, in questo rimandandoci alla cinematografia dei fratelli Dardenne, dei quali ritroviamo anche atmosfere e asperità di sguardo. Sospettoso, diffidente, razzista per nascita. Pronto a fare a cazzotti, capace di piangere di nascosto, Antonio subisce fisicamente l'estraneità dei corpi che lo circondano. Attraverso di lui ci avviciniamo alla malattia nella sua parte meno conosciuta: quella che riguarda gli “altri”, quelli che dalla malattia sono colpiti indirettamente, ma non per questo sono meno sofferenti. Antonio rappresenta la complessità della risposta al dolore, mettendo al centro la fragilità. Non solo la sua, bene camuffata da un atteggiamento spavaldo e ruvido, ma anche quella dell'epoca che viviamo.

Fragilità culturale di un mondo sempre meno disposto a praticare i terreni della convivenza, della solidarietà, della tolleranza. Locatelli paralizza qualsiasi retorica e non mette in scrittura un sentimentalismo che pure sarebbe a portata di mano, confezionando un piccolo grande film non catalogabile e purtroppo non facilmente frequentabile. L'estraneità dei corpi non attiene solo alle razze, alle culture, alle lingue: è spinta alla sua massima declinazione quando mette in cortocircuito il corpo dell'uomo strutturato delle certezze sedimentate, razzismo in testa, con la fragilità del ruolo sociale, primariamente connotato dalla paternità in cui, infine, anche Jaber si specchia. Nessun intento didascalico, nessun pietismo, molto pudore, molto rispetto per i personaggi. Attento a non cercare la commozione la lascia ritrovare in opzione, per chi vuole, allo scorrere dei titoli di coda.

I corpi estranei - Trailer