recensione del libro di Giuliano Santoro "Su Due Piedi"

Presuntuosi e Poeti

di Antonello Sotgia

26 / 6 / 2012

Alla mia generazione, il primo giorno di scuola alle elementari  veniva  consegnato un quaderno con una copertina nera, al cui interno in ultima pagina si trovava la cartina, l’Italia. Ho imparato a leggere anche ricopiando i nomi delle regioni e ho iniziato la lunga ed ininterrotta  pratica del disegno ricalcando con accanimento confini e linee di costa. Nel corso di questi esercizi mi sono imbattuto così, per la prima volta della mia vita, nella Calabria che, tra le tante partizioni colorate, attirava la mia attenzione per essere l’unica e bordata dal mare per tre lati. Quella macchia rossa circondata dal mare, ma non isola, rappresentava  la fine di un paese che non solo non sapevo cosa fosse e neppure riuscivo ad immaginare, ma che, grazie a quella cartina, sapevo finire di fronte al mare. Anch’io abitavo, allora, di fronte al mare, ma questa condizione  non bastava a farmi capire che era lo stesso. Quello della Calabria mi sembrava davvero immenso. Mi chiedevo, allora,  a cosa servisse “tanto mare” e solo molti anni dopo,  imbattendomi negli studi di Lucio Gambi su quella terra,  capii  che  proprio l’acqua era stato l’elemento capace di “creare una regione umana solidale”.

Leggendo “ Su due piedi” di Giuliano Santoro (Rubbettino, 168 pagine, 7,90 euro) ho pensato al lungo viaggio compiuto nel 2011 dall’autore: un cammino lungo trenta giorni per la Calabria.Giuliano ha voluto “compiere l’impresa” proprio per andare a vedere se fosse ancora possibile  trovare o ritrovare tracce di umana solidarietà. Per farlo ha scelto il camminare e l’interrogarsi camminando. Di queste sue prime domande Giuliano giorno dopo giorno ha lasciato traccia su articoli quotidiani puntualmente usciti sul Quotidiano della Calabria. Il libro non è solo questo.

Giuliano potrà entrare nel novero degli “Psicoatleti” (complimenti) avendo superato abbondantemente il limite fisico tarato su numero di  chilometri fatti e pesi trasportati in tre giorni che nel romanzo omonimo di Enrico Brizzi viene indicato per essere considerati della “casta”. Tuttavia, il libro non ci spinge ad imitarlo. L’autore, a differenza di molti camminatori e camminatori-scrittori che non si scordano mai di ricordarci (ed esaltare) le loro performance di marcia, solo in poche righe parla della fatica e degli sforzi che lo hanno accompagnato nel lungo mese. Tuttavia, questo libro ci pone due domande precise che poco parrebbero (ma non è cosi) avere a che fare con il camminare. La prima: ci siamo accorti di che cosa ci sia dietro e intorno a quel fenomeno, in cui la Calabria è da considerare terra d’eccellenza, della conurbazione? Attorno  alla pratica sommare case a case senza nessun principio e, aggiungo, nessuna utilità sociale né economica? La seconda, che ne è una diretta conseguenza: che cosa si può e si deve fare per fermare questo delirio? 

Giuliano ha scelto di chiederselo e chiedercelo “su due piedi”, perché ha capito che solo così sarebbe  riuscito ad “andare a vedere” lasciandosi dietro pregiudizi, luoghi comuni scegliendo non un itinerario che prevede per statuto una meta finale, ma un percorso che, nell’andare ci porti a riflettere sul dove stiamo andando. Solo così, forse, potremo rispondere alla seconda domanda accettando i contagi, le mutazioni che circondandoci ci attraversano. 

Il camminare ci aiuta se lo affrontiamo per quello che è. Non è utile se lo consideriamo in termini di spostamento temporale; né comodo se lo consideriamo in termini di fatica fisica. Camminare è  “un atto di presunzione – notava Goethe - Come il fare poesia”.  Solo al viandante, ricorda proprio nella prefazione al libro  Wu  Ming 2 citando il suo sodale Wu Ming 1 è concesso di provare “un conglomerato mobile di sensazioni, oggetti colori”. Non sono la stessa cosa i versi? Il ritmo delle parole non ci assicura come al camminatore la possibilità di – scrive sempre Wu Ming 2 nell’introduzione - di procedere per visoni eccedenti il concetto di gerarchia? E, ancora: non è proprio del camminatore essere “al pari dello scrittore l’oculista che cura il nostro modo di guardare al mondo”?

Certo occorrerebbero degli occhiali più che  robusti per capire come mai, tanto per fare un esempio, lo straordinario impianto del centro antico di Cosenza sia stato abbandonato per creare la melassa edilizia che ha trasformato la valle del Crati nell’odierna “Cos Angeles”. O per spiegare il perché al chilometro più bello d’Italia di Reggio Calabria (D’Annunzio, almeno in questo, non esagerava) si siano addizionate case su case fino a solidificare in cemento, per  i chilometri (tanti) successivi, la linea di costa.

Camminando proprio in questa densità (ogni calabrese in media possiede 800 metri quadrati di costruito!!!) Giuliano è riuscito a trovare le tante tracce del solidarismo umano. Spesso sono  tracce che in qualche modo l’acqua presuppone. A Riace, dove il paese abbandonato rinasce grazie all’accoglienza di richiedenti asilo,  rifugiati, migranti di passaggio che sembrano replicare quanto, al netto delle retorica,  il viaggio dei  due famosi  bronzi che da eroi locali sempre eterni sono tornati ad essere considerati naufraghi su quella costa di una nave di passaggio. Ad Africo e nel dimenticato sacrificio di Rocco Palamara  che sfidò la ‘ndrangheta  iniziando dal contravvenire alla forma dispotica del decidere chi fosse il maestro di ballo. Lui e i suoi ballarono da  soli in piazza: “chi balla in piazza comanda il paese”. A  Rosarno nel protagonismo sociale dei lavoratori migranti. Ma anche le tante forme resistenti di chi lascia il proprio lavoro di architetto per mettersi a fare vino, di chi crede che ancora sia possibile lavorare in agricoltura o di chi a dispetto di tante teorie urbanistiche in materia di ricostruzione post-terremoto dimostra nella pratica quotidiana che fondare “città nuove“ non è stato che il promo del film intrecciato su finanziarizzazione ed immobiliarismo che ha attanagliato il nostro paese .

In Calabria allora tutto è riconducibile al “ciclo del cemento”? Giuliano -  che ha deciso di non allegare al testo una necessaria cartina (i più non hanno fatto le elementari negli struggenti anni cinquanta) - fornisce una risposta consegnando, così come Lucio Gambi , la sua terra ad una poetica indicando che questa è la sua unica risorsa. Per farlo torna sui luoghi in cui “mio padre fin da quando sono in fasce mi porta in giro, a scoprire anfratti sconosciuti, chiese abbandonate e reperti misteriosi”. Non è forse un reperto misteriosissimo il Porto abbandonato di Gioia Tauro?

Di questo viaggio Giuliano scrive. Chiudendo il libro accanto al padre che lotta per la vita scopre che nella cura “verso il suo vecchio” ritrova quello che ha osservato passo dopo passo. Anche il territorio come ogni corpo va curato. Oltre curare lo sguardo come fanno gli oculisti, per restare alla metafora di Wu Ming 2, il camminare permette di fermarsi a prendere le misure per pensare ad un numero infinito di azioni che, come in una storia parallela, ci permettono di programmare altrettanti rammendi territoriali sia di natura materiale che immateriale. Accompagnandolo nell’ultima tappa il padre stanco si ferma un po’ invitandolo con un cenno a proseguire. Sa che potrà farlo, ora lui è pronto ad aspettare il suo ritorno. Suo figlio avrà cura e curiosità per quello che vedrà e scoprirà. Per questo camminiamo. Perché siamo “presuntuosi e poeti”.