"Populismi e rivoluzione nella crisi dell'Europa" a Sherwood 2017

5 / 7 / 2017

Lunedì 3 luglio si è svolto, presso il second stage dello Sherwood Festival, il dibattito “Il potere del popolo. Populismi e rivoluzione nella crisi dell’Europa”, che ha visto come ospiti Manuel Anselmi (sociologo e autore del libro “Populismi. Teorie e problemi”), Mario Pezzella (filosofo politico e autore di “Insorgenze) e Francesco Biagi (ricercatore, attivista e curatore di “Populismo, democrazia, insorgenze. Forme contemporanee del politico”).


Fabio Mengali, che ha da poco presentato allo Sherwood Festival il suo libro “Di cosa parliamo quando parliamo di Trump"), ha introdotto la discussione contestualizzandola all’interno della crisi della società occidentale, in particolare di quelle categorie che hanno strutturato l’Europa lungo la seconda metà del Novecento. Se la narrazione mainstream tende ad omogeneizzare il discorso facendo riferimento ad un generico “populismo”, se guardiamo più da vicino il fenomeno ci rendiamo conto che è più corretto parlare di “populismi”, con le loro diverse origini, i loro diversi orientamenti e ideologie politiche.


Secondo Manuel Anselmi è necessario innanzitutto un chiarimento concettuale del tema, che parta dall’esigenza di fare una comparazione tra le molte teorie sul populismo. Negli ultimi 10 anni, infatti, abbiamo assistito ad una proliferazione a livello globale del fenomeno populismo, connessa con un incremento quantitativo delle pubblicazioni sull’argomento.
Il populismo non è un fenomeno univoco: «come teniamo insieme Chavez e Salvini?» si chiede Anselmi che prosegue «ho provato a ripercorrere un dibattito decennale, che va dal sociologo italiano Gino Germani a numerose pubblicazioni inglesi degli anni ‘60. Il populismo, come tutti i concetti polisemici, ha bisogno di una definizione minima e di un approfondimento caso per caso». La definizione minima include tre elementi – l’esistenza di una comunità-popolo di riferimento, il manicheismo ed uno stile discorsivo molto semplificato - che insorgono dove ci sono forti processi di disintermediazione. Non si tratta solamente di una “crisi della rappresentanza”, ma di qualcosa di più profondo. Il populismo ha, infatti, altre forme di rappresentanza, diverse da quelle tradizionali, ma che non intendono mettere in discussione o superare questa formula politica. Per questa ragione il populismo si lega alla democrazia in modo indiretto, in particolare attraverso la rivendicazione ed una soggettivazione politica basata su un concetto “mitico” di sovranità popolare. Dal punto di vista sociale, l’unico tema che accomuna i vari populismi è quello del “basso contro alto”, mancando qualsiasi connotazione di classe. Un ulteriore elemento comune è rappresentato dalla temporalità in cui si presenta il fenomeno, che avviene a ridosso e contro le fasi di “modernizzazione”. Un esempio attuale è il cosiddetto “populismo digitale”, che è insorto nel momento in cui la società informatizzata  creava nuove comunità, sradicando completamente vecchie forme di vita.
Anselmi conclude la prima parte del suo intervento accennando al caso italiano, che molti studiosi internazionali considerano un importante “caso-studio”. Questo perché, in particolare a partire dagli anni ’60, la società italiana si è interamente basata sull’intermediazione politica. Gli anni ’90, con la fine della cosiddetta “prima Repubblica”, hanno portato ad una liquidazione veloce di quel mondo per una dimensione completamente nuova, che ha aperto ampi spazi di sperimentazione politica.

Di populismo se ne parla fin dagli inizi del ‘900 ed il fatto di presentarlo come fenomeno nuovo spesso la dice lunga sul livello di distorsione politica e narrativa che viene fatta del fenomeno. La fine del “patto sociale novecentesco” e la crisi delle identità su cui si è retta la comunità politica e sociale occidentale hanno rappresentato un trampolino di lancio per nuove forme di populismo. Mario Pezzella, proprio partendo dal collasso dell’ordine simbolico, politico e psichico precedente, ha provato a sintetizzare in maniera critica alcune interpretazioni fatte da Ernesto Laclau, il filosofo argentino che ha dato grande spazio al fenomeno nella sua produzione teorica, in particolare con il testo “La ragione populista” pubblicato in Italia nel 2008. Quattro sono gli elementi che contribuiscono alla definizione del fenomeno. Il primo è la mancanza totale di punti di riferimento che Laclau chiama “crisi della presenza”, in seguito al collasso dell’ordine democratico. Il secondo è l’identificazione delle masse con un capo carismatico (il cosiddetto “ io ideale”). Il terzo è la costruzione di un “altro” come nemico - vero o reale - esterno del popolo, occultando i conflitti di classe  di estrazione sociale insiti all’interno della stessa comunità. Il quarto ed ultimo è la vaghezza del discorso populista che mette in moto un apparato immaginario, spesso retorico, il cui effetto è accomunare malesseri apparentemente incompatibili, se non divergenti, riducendo ad unità ciò che è conflittuale.
Secondo Pezzella, la grande crisi economica iniziata nel 2008 è stata il colpo di grazia alla forma di vita della democrazia rappresentativa. Di seguito c’è stato un tentativo di sostituirla con un dominio, reale e simbolico, del capitale finanziario. Il fallimento di questa operazione, dovuto principalmente al fatto che questa contrapponeva la nuda forza economico-finanziaria alla moltitudine senza preservare alcuna fascinazione, ha reso evidente la necessità di uno “spettacolo” di tipo nuovo. È qui che emergono i nuovi populismi, che interiorizzano i criteri della “società dello spettacolo” in quanto nascono criticando i poteri bancari e finanziari, senza realmente intaccarli. Pezzella conclude con un ammonimento: «se la sofferenza sociale si esprime in questo modo va compresa ed ascoltata, non solamente criticata, perché significa che le forme politiche e simboliche precedenti non sono più in grado di rappresentarla».

Tra i tanti populismi emersi negli ultimi anni uno dei più ambivalenti è quello del neo-presidente francese Emanuel Macron. Nei suoi discorsi elettorali spesso Macron si è riferito agli “oppressi”, lasciando volontariamente il concetto nella vaghezza. Ma chi sono gli “oppressi”? Sono quelli che si sono impoveriti nella crisi economica o quelli che si sentono “oppressi” dalla paventata “invasione di immigrati”? Uno degli elementi che accomunano i populismi è quello del bisogno di stabilire una “frontiera interna”. Francesco Biagi ha tracciano 4 ritratti italiani di “populisti”, tutti basati su un manicheismo costruito ad hoc. Il primo è quello si Silvio Berlusconi, che nasce dalla crisi dei due blocchi politici precedenti – DC e PCI – e ridefinisce immediatamente i blocchi: «chi vuol stare dentro le logiche del mercato contro chi è asservito alle logiche stataliste, delle “toghe rosse”, dei “comunisti” e così via». Il secondo è quello di Renzi, espressione di un populismo che mira a costruire due blocchi nuovi: conservatori e progressisti. Quest’ultimo, come Macron, è spesso definito “populismo dall’alto”, nel quale figure istituzionali accettano il terreno del populismo e lo incarnano. Il terzo è quello dei Cinque Stelle, che ridisegnano i due blocchi attraverso la dicotomia tra “onesti” e “disonesti”. Il quarto ed ultimo è quello di  Salvini, che fonda il proprio manicheismo sulla contrapposizione tra autoctoni e “stranieri”, procedendo nel tempo ad una sostituzione della “frontiera” dal Nord all’Italia intera.

In Europa e anche in Italia esiste un filone di pensiero che vede nel populismo una forma di emancipazione a sinistra. Questo ha come punto di riferimento la storia, passata e soprattutto recente,  dell’America Latina. Manuel Anselmi, che ha riservato gran parte dei suoi studi a quest’area geografica, sostiene che nella fase del Left turn in America Latina si afferma un’ondata di neo-populismo. I fenomeni più evidenti, per quanto diversi tra loro, sono stati  Chavez in Venezuela e Moralez in Bolivia. Si tratta di situazioni che vanno analizzate nei loro contesti specifici e nelle loro evoluzioni, tanto che in Venezuela, sostiene Anselmi, «ci troviamo di fronte ad una fase di post-populismo che da un lato vede le classi neo-liberali organizzarsi in maniera eversiva, dall’altro fa emergere in maniera chiara la fine del ciclo chavista».
Nonostante le diversità, ci sono alcune tendenze che accomunano tra loro i neo-populismi latino-americani. In particolare riguardano i processi di costruzione di Welfare che nella prima fase sono molto inclusivi, ma che in seguito diventano di carattere clientelare; in questo modo la forma di vincolo tra governante e governato che non lascia spazi di crescita soggettiva.
Secondo Anselmi, «la sinistra più che pensare all’importazione esotica di questi modelli, dovrebbe puntare a conoscerne le dinamiche, partendo da una domanda fondamentale: quali sono i nuovi paradigmi che vogliamo pensare adeguati ad una fase di post-democrazia?». In Europa, il caso della Brexit ci conferma più di ogni altra cosa che il paradigma democratico è definitivamente saltato, proprio perché è avvenuto nel Paese dove questo paradigma era più forte e radicato in termini culturali e politici.

In generale, nel continente europeo i populismi si affermano nel momento in cui i ceti medi hanno perso sistemi di riferimento. Da un lato, quindi, non possono più aspirare alla mobilità sociale, dall’altro interpretano i flussi migratori come un’insidia per i propri privilegi. Secondo Francesco Biagi i populismi di stampo conservatore hanno facile terreno in un momento in cui alla crisi politica si associa la crisi economica: «si tratta della reazione per cui i “penultimi” – la classe media impoverita -  difendono quel poco che hanno nei confronti degli “ultimi”. La risposta populista, dal punto di vista politico, è estremamente interna alla “società dello spettacolo”, divenendo tra gli elementi fondativi della post-modernità. Secondo Biagi «non è nella fede nel dispositivo sovrano, ma è nel pensare a nuove istituzioni che la democrazia insorgente può realmente imporsi, risolvendo contemporaneamente il problema del populismo e quello della sovranità nazionale».

Per Mario Pezzella la differenza sostanziale tra democrazia e populismo consiste nel fatto che la prima nasce spersonalizzando il potere, mentre il secondo riporta in auge la corporeità del sovrano. Rispetto alle macro-tendenze in seno al fenomeno populista, Pezzella dice che «Laclau cerca di stabilire alcune differenza tra populismo di destra - dispotico e narcisista – ed uno di sinistra, fraterno ed egualitario, in cui il “capo” fa parte egli stesso della massa. In realtà è proprio la storia a dirci che i due elementi sono molto contigui». Ancora: «dietro questa cosa c’è un elemento intellettualmente sbagliato: la necessità della società di disporsi in forma gerarchica. Proprio nella questione decisionale il populismo dà valore ad un concetto di ordine sociale, ma per chi si ritiene di “sinistra” anche il disordine può essere un valore». Pezzella insiste sulla necessità di costruire nuove istituzioni “del politico”, oltre che della politica, per essere intellettualmente e culturalmente all’altezza della sfida imposta dalla fine dell’ordine democratico.

Nell’ultimo giro di interventi Manuel Anselmi ha insistito sull’importanza della comparazione ai fini di una corretta comprensione del fenomeno. L’Italia, ad esempio, è stata il primo caso in cui si sono stati più populismi in competizione nati tra la prima e la seconda repubblica: «Berlusconi, Grillo, Renzi hanno in comune il fatto che vengono dall’esterno della “società politica” intesa in termini tradizionali. Con loro lo società civile ha occupato la sovranità politica». La questione non va vista solamente in termini sincronici, ma anche diacronici, come dimostra il cosiddetto “populismo dall’alto” – quello di Renzi e Macron – che in apparenza sembra una contradictio in terminis. Alla base di tutto, secondo Anselmi, c’è la crisi dell’elitismo che consente alle forze che riescono a penetrare nelle dinamiche reali del consenso, anche al di là del mero populismo, di aprirsi spazi che sembravano impossibili, come dimostra il caso di Podemos in Spagna.

Mario Pezzella, nel finale, ha tentato di inquadrare alcune ipotetiche soluzioni: pensare che il puro assemblearismo possa rappresentare un’alternativa valida al sistema partitico o al populismo è sbagliato. La mancanza di “istituzioni del politico” fa emergere leaderismi». Citando Arendt Pezzella ricorda alcune esperienze storiche la cui forza è stata quella di creare, in una condizione rivoluzionaria, nuove istituzioni. Tra questa la Comune di Parigi, che aveva nel mandato imperativo e nel diritto di revoca i cardini della rappresentanza. Un altro elemento di forza era la base federale, perché in un’unità territoriale ristretta ci può essere maggior controllo tra rappresentanti e rappresentati. La Comune di Parigi, come altre esperienze simili, hanno funzionato in termini di efficacia politica ed istituzionale e sono state sconfitte sul piano militare proprio perché rappresentavano un pericolo per i poteri costituiti.

Il piano del conflitto reale è quello dove si può rompere il giogo del populismo, soprattutto quando questo riesce a praticare illegalità di massa per costruire nuova legalità. Il caso del referendum No Grandi Navi, indetto dal basso, è un esempio di come l’ambizione a costruire istituzioni del comune riesca a far diventare generale un interesse di parte, una presa di posizione che ha un significato specifico e che non deve essere annullato da un atto di nominazione, come invece vuole la teoria del populismo di Laclau. Per Francesco Biagi è necessario che gli esempi virtuosi delle comunità in lotta vengano utilizzati per ripensare in forme nuove l’organizzazione e rendere la produzione teorica organica ai movimenti reali. In questo modo si possono costruire strategie non populiste, ma popolari, recuperando linguaggi più semplici, ma mantenendo la complessità attraverso forme di educazione politica che rendono i soggetti in lotta incompatibili con la fiducia nella rappresentanza leaderistica. La nuova disposizione deve andare verso un popolo di parte che non rinuncia alla creazione del consenso attraverso il conflitto e, allo stesso tempo, inventa una nuova forma di organizzazione sociale.