Oltre la logica del valore: rinnovare le battaglie ambientali, intrecciare i movimenti.

Intervista a Emanuele Leonardi, autore di Lavoro natura valore. André Gorz tra marxismo e decrescita

5 / 4 / 2018


Lavoro natura valore. André Gorz tra marxismo e decrescita (Orthotes, 2017) di Emanuele Leonardi - di cui abbiamo pubblicato l'introduzione -  è un libro difficile da riassumere, per i numerosi nodi teorici che è capace di sollevare e connettere: il fallimento della green economy, l’importanza del movimento operaio nel sollevamento della questione ambientale, l’analisi precisa di una decrescita “non ingenua” e molti altri. Tuttavia, se è possibile individuare un merito su tutti, è senz’altro quello di evidenziare come la crisi ambientale sia il terreno d’azione politica che maggiormente apre a un superamento delle modalità di produzione capitalistica. Su come agire questo superamento, il libro di Leonardi fornisce alcuni suggerimenti che si concretizzano su un concetto importantissimo, che a più riprese è ritornato anche nell’assemblea dei centri sociali del nord est di domenica 25 marzo: l’intersezionalità delle lotte, già pensata dal movimento femminista. Solo connettendo lotte climatiche, lotte anticapitalistiche, di liberazione dal lavoro, di riappropriazione della sfera riproduttiva sarà possibile praticare un cambiamento radicale dell’esistente ed essere vincenti. Pubblichiamo qui l’intervista a Emanuele Leonardi che abbiamo avuto modo di fare a margine della presentazione del suo ultimo libro al centro sociale Django di Treviso.

Uno dei principali meriti del tuo libro è quello di smascherare, secondo me, un’interpretazione ingenua della crisi climatica, per la quale l’inquinamento o l’aumento dei fenomeni climatici eccezionali sono dovuti alla negligenza nei confronti dell’ambiente o a comportamenti privati troppo impattanti dal punto di vista ecologico. In realtà, come sostieni, la crisi climatica è dovuta all’organizzazione capitalistica del lavoro. Ci spieghi perché questo fattore è la causa della crisi climatica?

Credo sia evidente che la crisi ecologica non dipenda in prima istanza né da noncuranza politica né tantomeno da stili di vita individuali che si tratterebbe semplicemente di rimodellare (sempre individualmente, beninteso). In realtà, il cambiamento climatico è un problema strutturale – che ridimensiona il potere dei singoli – e del quale le élites sono ben consapevoli. Infatti, l'aumento vertiginoso delle diseguaglianze a partire dalla seconda metà degli anni Settanta va interpretato anche come una risposta profondamente classista a una nuova tipologia di instabilità: quella ambientale.

Dal mio punto di vista, non possono esserci dubbi sulla causalità diretta tra modo di produzione capitalistico e crisi ecologica. A questo proposito, credo valga la pena operare una distinzione tra degrado ambientale e, appunto, crisi ecologica. Laddove il primo esprime una disfunzionalità nel rapporto società-natura di cui si trovano esempi in ogni epoca, la seconda indica l'effetto diretto di una pressione economica sempre più marcata nel tempo in ragione del suo dipendere dall'esigenza di accumulazione infinita e crescita a ogni costo che caratterizza il ciclo di capitale.

Va tuttavia sottolineato che la crisi ecologica non si manifesta in maniera diretta, per così dire automatica, nel momento in cui determinate “soglie di sostenibilità” vengono attraversate. In quanto problema specificamente politico, l'ambiente viene imposto all'agenda dei governi e del mondo economico nel corso della cosiddetta “stagione dei movimenti” – nel libro circoscrivo il quadro al quinquennio 1968-1973, ma si tratta di una datazione “simbolica” che si presta a letture “elastiche”. Il punto chiave è che quando parliamo di crisi ecologica dobbiamo intendere una costellazione problematica che intreccia questione sociale e criticità ambientali. Meglio ancora: se c’è un filo rosso che percorre il volume dall’inizio alla fine, questo è l’esigenza di pensare la crisi ecologica in connessione costitutiva con le trasformazioni del lavoro e con lo sviluppo capitalistico.

 

Una delle strategie che il capitale adotta per affrontare i limiti della natura, preservando se stesso, è quella di trasformarla da ostacolo a opportunità. La natura, e qui sta il passaggio tra il nesso lavoro-natura-valore “classico” e quello odierno, diventa fattore attivo della valorizzazione (dell’accumulazione del plusvalore). Abbiamo così la nascita della green economy e dei carbon markets che, come mostrano i dati da te riportati, si sono rivelati un totale fallimento. Perché possiamo parlare di mancata riuscita di questi meccanismi di valorizzazione?

La mia ipotesi è che la logica del valore intrattenga con la natura un rapporto duplice, che è bene storicizzare. In un primo momento – rinvenibile con chiarezza nel pensiero degli economisti classici – la valorizzazione capitalistica assume l'ambiente come condizione – infinita e gratuita sia a monte (materie prime) sia a valle (smaltimento dei rifiuti) – del processo economico finalizzato alla produzione di plusvalore, e al contempo pone il lavoro sociale astratto (salariato) come fattore di quello stesso processo.

In un secondo momento, successivo alla crisi di questo modello imposta dai movimenti sociali in particolare nel periodo 1968-1973  il capitale si adopera per internalizzare il vincolo ambientale non più come impedimento alla valorizzazione, ma come suo vettore privilegiato. Non si tratta semplicemente di sostituire un “nuovo” nesso valore-natura a quello “classico”, bensì di affiancare due diverse modalità di “leggere” l'ambiente dal punto di vista del valore: come limite abilitante nel primo caso, come fonte immediata nel secondo. La green economy, cioè l'idea che si possa disaccoppiare la crescita economica dal throughput (cioè la quantità di materia ed energia che attraversa il sistema produttivo) esprime precisamente il tentativo di esplorare la natura come elemento diretto della valorizzazione. Penso che anche la nostra prospettiva debba mutare secondo queste linee: se la critica dell’economia politica classica intendeva demistificare il tentativo borghese di naturalizzare il capitalismo, la critica ecologica del valore deve oggi saper disarticolare anche il tentativo finanziario di capitalizzare la natura.

Torno alla green economy: si può dire che questa strategia abbia funzionato? La risposta è meno univoca di quanto si creda, perché ci troviamo di fronte a un curioso – e solo apparente – paradosso: dal punto di vista ambientale (quello cioè che ha dato origine al carbon trading2) si può tranquillamente affermare che i mercati delle emissioni di gas climalteranti sono inutili quando non dannosi. Essi, banalmente, o non raggiungono gli obiettivi prefissati, o addirittura rendono tale raggiungimento impossibile. Al contempo, dal punto di vista economico, tali mercati rappresentano una miniera d’oro per gli operatori finanziari. In altre parole: nella tensione tra (surrettizi) fini ecologici ed (effettivi) mezzi economici appare con sempre più chiarezza una significativa creazione di valore sotto (inedita) forma di rendita accanto a impatti ambientali nulli quando non deleteri.

Tuttavia, a prescindere dalle valutazioni sui risultati concreti delle politiche improntate alla green economy, vale la pena di notare come essa non sia né falsa né irrazionale: si presenta piuttosto come adeguata all'attuale regime di accumulazione e al contempo come manipolatoria rispetto alla tipologia di lavoro che all'interno di tale regime produce valore. Quasi tutti – in larga maggioranza le popolazioni espropriate dei propri territori, nel Sud come nel Nord globale – ci perdono; pochi – perlopiù gli operatori finanziari – ci guadagnano; nessuno pare interessato a domandarsi che fine abbia fatto il lavoro all'interno del nesso valore-natura che sostiene la green economy. Per riprendere una felice espressione di Toni Negri – applicandola però a un contesto diverso da quello in cui fu concepita – essa si pone come “ragionevole ideologia”3 della tendenza contemporanea dello sviluppo capitalistico, basata su tre elementi: nuova centralità della sfera della riproduzione sociale, crescente cognitivizzazione del lavoro, assunzione di un ruolo politico fondamentale dei mercati finanziari.

A mio avviso, comprendere le modalità attraverso le quali il lavoro riproduttivo/cognitivo viene assorbito nei e sfruttato dai mercati finanziari è la chiave per indagare la dimensione ecologica della nuova composizione di classe. Cioè: recuperare quel tanto di ragionevole che c'è nella green economy – vale a dire l'idea che la forza lavoro umana possa porsi come eco-fattore positivo e non solo come eco-fattore distruttivo – mostrando come siano precisamente i rapporti sociali capitalistici a rendere inaccessibile quella potenzialità.

 

La capacità del capitalismo di rinnovarsi e superare i limiti che via via gli si frappongono emerge, oltre che nei processi innescati della green economy, anche nel cosiddetto capitalismo delle piattaforme. Aziende del World Wide Web come Facebook, Google, Instagram estraggono valore attraverso lo sfruttamento dei dati degli utenti. Il capitalismo viene qui a risolvere il problema dell’esaurimento delle risorse naturali (i combustibili fossili, ad esempio), appunto perché riesce a creare valore a partire da elementi, quali i dati e le informazioni, praticamente infiniti. Ne consegue che la crisi climatica in sé non porta a contraddizioni tali da far fermare da sola la logica del valore che pure questa crisi genera. Si tratta, piuttosto, di ricercare nuove modalità di conflitto per andare davvero oltre la logica del valore. Può la decrescita rappresentare un quadro di ricerca e sperimentazione di nuove pratiche di cambiamento?

Non c'è dubbio che l'economia digitale rappresenti un terreno di ricerca essenziale per un'ecologia politica che non voglia ridursi a primitivismo (opzione legittima ma lontanissima dal mio approccio). Ho l'impressione che la net-economy capitalistica prometta di risolvere il problema dei limiti fisici alla crescita senza tuttavia riuscire a mantenere la parola. Bisognerebbe infatti non perdere di vista i suoi altissimi requisiti energetici: il sogno accelerazionista dell'automazione di massa pianificata potrebbe facilmente trasformarsi in un incubo ecologico di cui non si sente il bisogno.

Dobbiamo dedurne un conflitto insanabile tra lavoro cognitivo e dimensione ambientale? Non credo. Occorre piuttosto tenere insieme la necessità di ridurre l'impatto ecologico dannoso delle attività produttive e la desiderabilità di liberare dalla forma-merce le pratiche cognitivo-riproduttive che intrecciano società e natura in modalità poco o per nulla impattanti.

Provo a spiegarmi: il mio tentativo è quello di formulare i termini del rapporto tra le dimensioni sociale e ambientale della crisi capitalistica odierna in maniera diversa rispetto a come si diedero ai tempi del primo shock petrolifero (1973). Tale shock ha due possibili chiavi di lettura: da un lato si presta a essere interpretato come una crisi di materie prime, cioè una reazione piuttosto scomposta alla “scoperta” dei limiti fisici alla crescita che proprio l’anno precedente erano stati enfatizzati dal rapporto del Club di Roma. Dall’altro, esso può presentarsi come il tentativo di cavalcare una grave crisi capitalistica al fine sia di disarticolare la cosiddetta “rigidità operaia”, cioè il potere conquistato dal movimento dei lavoratori, sia di disintegrare la forza delle nuove soggettività rivoluzionarie emerse a partire dal '68.

In generale, le due linee interpretative non si sono affatto incrociate, rimanendo nella maggioranza dei casi indifferenti l’una all’altra. Tuttavia, anche nei casi più virtuosi – come quello di André Gorz che nel 1977 elaborò la teoria della doppia crisi (contemporaneamente di sovrapproduzione e di riproduzione) – si verificò una sorta di “divisione del lavoro politico” piuttosto rigida in cui, semplificando, la critica sociale si occupava dei limiti interni del capitalismo mentre la critica ambientale si focalizzava sui limiti esterni.

Questa strategia ottenne risultati significativi – specialmente per quanto riguarda le lotte contro le nocività industriali, dove la “compattezza” della divisione del lavoro politico fu assai più sfumata che in altri contesti – ma non resse alla controffensiva neoliberale. Dagli anni Ottanta in poi il dramma del ricatto occupazionale (“o la salute o il lavoro”, si pensi al dramma dell'ILVA di Taranto) ha progressivamente oscurato una realtà storica tanto incontrovertibile quanto contro-intuitiva: nel nostro paese la crisi ecologica diventa un problema politico grazie all'azione innovativa del movimento operaio (spronato da altri movimenti), non a dispetto della sua supposta monomaniacalità lavorista.

Ancora adesso quando si parla del rapporto tra crescita economica e suoi limiti fisici la contrapposizione tra critica sociale (nel libro mi occupo di alcuni marxismi) e critica ambientale (nel libro analizzo i movimenti per la decrescita) riemerge prepotentemente. Da un lato si insiste su una crescita alternativa rispetto a quella capitalistica, dall'altro si propone una stabilizzazione e/o contrazione della produzione. A mio avviso, questa contrapposizione non è adeguata allo scenario contemporaneo e non è neppure analiticamente precisa dal momento che non distingue tra tre diverse accezioni del termine crescita: crescita del PIL, crescita del throughput, crescita come sinonimo un po' vago di accumulazione del capitale.

Per scardinare l'opposizione rigida tra crescita altra e non-crescita credo sia utile rifarsi alla storicizzazione dei nessi valore-natura richiamata in precedenza – e soprattutto al ruolo che il lavoro riveste al loro interno. Schematizzo: nel nel nesso valore-natura “classico” la figura paradigmatica è quella del lavoro salariato che, a livello istituzionale, trova il suo massimo grado di riconoscimento nel patto fordista dei trent'anni gloriosi: la classe operaia ottiene integrazione e riconoscimento in cambio di pace sociale e passività rispetto alla composizione qualitativa della produzione (cosa, come, quanto, quando e per chi si produce).

In questo contesto occorre mettere in luce due condizioni fondamentali per la tenuta del patto fordista: la prima fu la crescita economica sostenuta – in termini quantitativi. Seguendo il principio secondo cui aumentando le dimensione della torta tutti i commensali possono mangiare di più, le politiche keynesiane hanno spinto il volume della produzione quanto più possibile verso l’alto, svincolandolo di fatto dai bisogni sociali – favorendone anzi la moltiplicazione non sempre autonoma (bisogni indotti) e la sostituibilità accelerata (obsolescenza programmata). Inoltre, tali politiche hanno differito nel tempo il conflitto distributivo primario, creando un terreno d'interesse comune tra capitale e lavoro.

La seconda condizione riguarda lo statuto della sfera riproduttiva all’interno del “patto fra produttori”; benché essa fosse certamente coinvolta nei meccanismi di protezione sociale previsti dal welfare state, essa vi entrava in condizione di subalternità: nella sua forma “classica”, infatti, il welfare aveva stabilito una particolare relazione con il sistema produttivo: quest’ultimo fungeva da elemento centrale (creazione diretta e distribuzione primaria di ricchezza) mentre il primo agiva da ente periferico (azione redistributiva finalizzata alla tutela individuale e collettiva in caso di fallimento del progetto economico). Se a tale subalternità viene affiancato l’assunto secondo il quale la natura sarebbe infinita e gratuita si comprende agevolmente il motivo per cui il patto fordista può essere considerato un dispositivo entropico: riconoscendo i soggetti della riproduzione come ancillari rispetto a quelli della produzione, e considerando inesauribile la natura-risorsa, ecco che l’obiettivo della crescita quantitativa a ogni costo diviene la premessa indiscutibile di qualsivoglia politica economica. È ciò che Claus Offe chiamava nesso produttivista tra crescita economica e piena occupazione. L’inclusione sociale della classe operaia nel Nord globale – un processo di enorme portata storica – avviene a costi alti: la rinuncia all’autonomia nella definizione dei propri bisogni e l’allocazione delle esternalità negative socio-ambientali nella sfera della riproduzione.

Diversamente, all'interno del “nuovo” nesso valore-natura – che, come detto, non si sostituisce ma si affianca a quello “classico” – la sfera della riproduzione acquisisce una centralità tale da travolgere il concetto stesso di lavoro salariato, con conseguenze ambivalenti. Il lato negativo – oggi purtroppo prevalente in modo quasi esclusivo – è il divenire gratuito e (tendenzialmente) infinito del lavoro un tempo garantito dallo statuto di dipendenza. Il lato positivo (solo in potenza, al momento) è che il lavoro cognitivo-riproduttivo possiede una dimensione neghentropica (cioè ecologicamente positiva) che tuttavia richiederebbe un processo di de-mercificazione per potersi pienamente esprimere. Fino a che resta ingabbiato nelle retoriche della green economy essa si trasforma in impresa e, dovendo sottostare al diktat del profitto a ogni costo, sfuma fino a perdere del tutto la sua potenzialità. 

Tornando alla tua domanda: le nuove modalità del conflitto dovrebbero rifiutare l'aut-aut tra crescita altra e non-crescita. Del resto uno dei teorici della via catalana alla decrescita, Giorgos Kallis, ha avanzato una provocazione secondo me molto convincente: se non si intende rimanere ancorati alla logica del valore, che bisogno c'è di parlare di “crescita”? Certo, ci vorrà più riproduzione e meno inquinamento, ma le relazioni affettive “si intensificano”, non “crescono”; le arti e i piaceri “fioriscono”, non “crescono”, e così via. Si tratta allora di costruire una strategia simultanea di riduzione del lavoro entropico e liberazione del lavoro neghentropico, cioè un'alleanza tra la necessità di lavorare meno e la desiderabilità di lavorare diversamente, cioè di definire in senso anti-capitalistico la composizione qualitativa della produzione. Mi pare evidente che la riflessione sul reddito di base trovi in questo ragionamento un'ulteriore fonte di legittimazione.

 

È chiaro che la crisi climatica si potrà superare solo attraverso la sostituzione della logica capitalistica del valore con quella plurale delle ricchezze. È da poco passato l’8 marzo e a ragione individui nelle lotte femministe un elemento chiave per attuare questo passaggio. Qual è il ruolo che esse hanno avuto e che tutt'oggi possono avere?

In effetti concordo con André Gorz quando sostiene che il capitalismo contemporaneo mostra con sempre maggiore chiarezza la propria incapacità di far corrispondere alla logica del valore (di scambio) il benessere sociale, cioè una logica delle ricchezze (basata sul valore d'uso). Con due avvertenze: da questa incapacità non discende una prospettiva di crollo imminente del capitalismo; la categoria di valore d'uso non è un dato originario, puro, bensì il frutto delle trasformazioni produttive e delle lotte per l'autonomia della cooperazione sociale.

Credo che questo scenario – il divorzio crescente tra logica del valore e logica delle ricchezze – sia contemporaneamente il frutto del protagonismo della riproduzione nella disarticolazione del patto fordista e il terreno politico di quello stesso protagonismo nella congiuntura presente.

Provo a spiegarmi: la rivoluzione femminista, le lotte decoloniali e i movimenti ecologisti hanno espresso, tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, il rifiuto della subordinazione cui il modo di produzione capitalistico (ma non solo) aveva costretto la sfera della riproduzione sociale. Mi limito qui a un riferimento: la campagna internazionale contro il lavoro domestico. C'è un passaggio bellissimo di Silvia Federici, in un articolo del 1975, che sostanzialmente dice: rivendicare salario per il lavoro domestico non significa chiedere di integrarsi nei rapporti capitalistici ma piuttosto lottare per distruggere il piano del capitale sulle donne.

Penso che quella campagna, come altre coeve, abbia subito nel lungo periodo una “peculiare sconfitta”: da un lato l'obiettivo centrale non è stato raggiunto, dall'altro però è cambiata radicalmente la base economica dell'accumulazione capitalistica. Bisogna essere ciechi, oggi, per non vedere che i circuiti della valorizzazione non pongono la sfera della riproduzione come “esterna”, bensì la inscrivono saldamente al centro dei processi produttivi – con le conseguenze ambivalenti ma per ora terribili che abbiamo visto.

In questo scenario le strategie di lotta che hanno qualche possibilità di risultare vincenti sono quelle inclusive e intersezionali. Non a caso, da questo punto di vista è Non una di meno a dettare la linea giusta con la sua capacità di tenere assieme sovversione del patriarcato, lotta di classe e rifiuto della violenza ambientale. Mi pare che dallo sciopero femminista dell'8 marzo emerga l'indicazione di de-mercificare la sfera riproduttiva pur rivendicandone la centralità nella creazione di valore. Questo almeno è quello che ho percepito io dal corteo di Parma, cui ho preso parte con tantissime altre e tantissimi altri.

 

Vorrei ora farti una domanda più legata al nostro territorio, il Veneto, una delle regioni più inquinate al mondo, sul quale insistono opere di devastazione ambientale quali la SPV veneta, il Mose, il passaggio delle navi crocieristiche nel Canale della Giudecca. Senza dimenticare l’inquinamento decennale da Pfas che ha contaminato le falde nel vicentino. Ne risulta un gigantesco scempio del territorio impossibile da negare. Eppure, le forze politiche che hanno da sempre sostenuto questi interventi, in particolare la Lega di Salvini, hanno fatto il pieno alle recenti elezioni politiche. Allora, delle due l’una: o il legame tra la logica dell’accumulazione e crisi climatica non è stato colto; o è in atto un potentissimo processo di interiorizzazione nelle persone per il quale la logica del valore e del produttivismo sono un bene-tabù intoccabile che può soprassedere alla tutela dell’ambiente. Cosa ne pensi?

Direi un mix delle due: da un lato i movimenti per la giustizia climatica hanno storicamente trovato difficoltà nel “concretizzare”, in momenti di lotta puntuali e riconoscibili, un'analisi critica per forza di cose piuttosto astratta; dall'altro è innegabile che la crisi permanente tenda a relegare le questioni ambientali all'ambito dell'accessorio, del “di più” di cui ci si occupa una volta che “i problemi importanti” sono stati risolti.

A questo proposito, mi sembra che i temi che richiami non siano un'esclusiva della situazione veneta ma tendano a generalizzarsi (in forme diverse, certamente, ma convergenti rispetto al dato essenziale). Questo significa che i movimenti si trovano di fronte all'urgenza di trovare il modo di “far toccare terra” al cambiamento climatico e di connettere il sociale e l'ambientale nelle pratiche di lotta. In altre parole: come si agisce, praticamente, l'anti-produttivismo? È una domanda complicata, non credo serva a molto cercare scorciatoie.

A livello teorico, e per quanto riguarda l'operaismo, mi sono servito del riferimento alla migliore decrescita che ho incontrato – quella della via catalana, i cui lavori sono perlopiù irreperibili in lingua italiana – per analizzare l'esaurimento del nesso lotte-sviluppo elaborato negli anni Sessanta e, di conseguenza, la necessità di rivedere la strategia del “dentro e contro”. Lo schema diceva, grosso modo: dato che il motore dello sviluppo sta nella lotta di classe operaia, l’attacco va portato al punto più alto perché solo da lì sarà possibile reindirizzare la finalità della cooperazione senza depotenziarla. L’esigenza della biforcazione non si poneva dunque alla radice, bensì – per restare nella metafora arborea – al livello del frutto. Nel libro cerco di mostrare quanto questo passaggio sia sfuggente e tutt'altro che lineare, perché è solo sulla base del “produttivismo” operaista che qualcosa come un “oltre” la logica del valore è diventato visibile (di nuovo, penso in particolare alle lotte sulle nocività industriali).

In ogni caso, nel contesto neo-operaista mi pare esserci consenso rispetto alla constatazione che, tra rifiuto del lavoro (agito) e frantumazione del lavoro (subita), il divenire sempre più eterogenee delle pratiche di valorizzazione renda impossibile stabilire oggi quale punto dello sviluppo sia effettivamente il più alto. La tendenza è l’eterogeneo. Saltata dunque l’immediatezza del nesso lotte-sviluppo – e con essa l’individuazione relativamente agevole del “soggetto rivoluzionario” incaricato della biforcazione – la logica del “dentro e contro” comincia a fare problema. Potrebbe non essere inutile interrogarsi da un lato sulle diverse modalità di stare “dentro” e dall’altro sul potenziale trasformativo del “fuori”. Mi pare che la strada verso un anticapitalismo ecologicamente desiderabile debba passare sia da una coalizione tra i segmenti eterogenei che partecipano alla produzione di valore (dagli operai del manifatturiero ai contadini, fino ai knowledge workers) sia da un’alleanza tra quei segmenti politicamente riuniti e le espressioni del “fuori” (cosmo-visioni indigene, comunità legate all’agricoltura di sussistenza, lavoratori dell’economia “informale”).

In altre parole, credo si debba considerare più attentamente la questione del rapporto tra quei soggetti che scrutano l’“oltre” il valore a partire da ciò che fu il punto più alto dello sviluppo capitalistico e quei soggetti che vedono l’“altro” dal valore da una posizione di (relativa, graduabile) esternità – poiché o non vi sono stati inclusi oppure hanno opposto un rifiuto. Insomma: i diritti della Pachamama e il reddito di base possono salire sulla stessa barca rivoluzionaria? È su questo piano, nella ricerca di una risposta adeguata a questa domanda, che diventa possibile sottrarsi al doppio rischio che mettevi giustamente in evidenza.