sull'ultimo libro di Cristina Morini

L'odore ribelle della differenza

di Anna Curcio

29 / 6 / 2010

Il libro di Cristina Morini costituisce un’analisi pienamente materialista dell’attuale condizione di vita e lavoro delle donne. É un confronto ad ampio raggio con il dibattito femminista nostrano e internazionale, e insieme un punto di vista femminista nel dibattito sul capitalismo cognitivo o biocapitalismo di cui senz’altro si sentiva il bisogno. Ma é anche una proposta di decostruzione della nozione di “patriarcato” per rintracciarne le determinanti nei rapporti di produzione. Una volta individuata l’imprescindibile eredità del sistema di dominio maschile occorre assumerne la capacità/necessità di trasformarsi, di rimodulare le proprie strategie alla luce delle sfide storicamente poste dalle donne e osservare dunque con attenzione i rapporti sociali nei quali oggi siamo tutte e tutti immersi. É questa la felice intuizione del testo. Così, la donna e il suo corpo-mente si fanno archetipo della valorizzazione capitalistica e dello sfruttamento che interessa il lavoro vivo contemporaneo.

Morini si spinge oltre: “il nuovo regime di accumulazione biocapitalistico scombina le carte dell’economia politica del patriarcato”. Le donne fanno ingresso in massa nel mercato del lavoro (benché in Italia in misura minore che altrove); nuove gerarchie tra le donne si stabiliscono lungo la linea del colore; la cura, attraverso i percorsi dell’economia globalizzata, diventa lavoro salariato e al contempo, come la finanza, “forma di assicurazione sociale privata”. Simultaneamente si assiste alla femminilizzazione del lavoro – tema centrale per l’autrice – ovvero il farsi paradigma delle forme di sfruttamento e di soggettivazione che hanno storicamente interessato le donne. Che cos’é il lavoro cognitivo, oggi flessibile, intermittente, precario, se non la riproposizione su larga scala e oltre la classica divisione sessuale del lavoro dell’economia politica della cura? Gli orari di lavoro si dilatano, tempo di vita e di lavoro si sovrappongono; attività qualitativamente diverse che fanno perno su affettività, relazione, linguaggio si combinano; saperi e competenze differenti diventano necessarie così come dedizione, attenzione, oblatività; anche lo spazio del lavoro travalica i suoi confini e invade quello domestico (dall’home office al telelavoro). Ma soprattutto, come efficacemente evidenziava la critica femminista degli anni Settanta, la cura o meglio il lavoro produttivo/riproduttivo e il lavoro cognitivo travalicano gli strumenti della misurazione del valore-lavoro. Quando tempi, spazi, attività, si fanno uno, quando perfino il desiderio tende a coincidere con l’attività produttiva – si pensi alla continua ricerca di sé del precario che non si da’ limiti di ruoli o di spazi relazionali inseguendo nuove e migliori opportunità di lavoro – a dover essere misurata é l’intera vita. Il lavoro si fa dunque dismisura. L’unica misura possibile é quella dello sfruttamento “direttamente proporzionale alla centralità delle soggettività nel processo produttivo”.

Le nuove soggettività del lavoro, cognitive, precarie, migranti sono pienamente assimilate alla produzione. A ciascuna é richiesto di contribuire con la propria specificità: sapere, genere, sessualità, colore, nazionalità. La differenza si fa strumento della valorizzazione capitalistica: le donne sono ricercate per ruoli di relazione con il pubblico, i migranti, soprattutto donne, per la cura degli anziani, i gay per taluni lavori creativi. Si tratta, precisa Morini spiazzando il campo alle critiche che vogliono l’ipotesi del capitalismo cognitivo marcatamente eurocentrica, di un processo che vede il convivere di forme di lavoro innovative e arcaiche, della “serva serve” e del knowledge worker, tra il Nord e il Sud del mondo. Ne é prova, tra altri, la delocalizzazione in India o Pakistan dei call center delle multinazionali alla luce delle presunte capacità di ascolto e immedesimazione degli abitanti del posto. E nello stesso tempo, é un processo che lungi dall’essere immateriale, accentua la corporeità del lavoro. Un corpo in salute, palestrato, ritoccato, addicted e sempre rispondente ai dettami dell’estetica dominate irrompe nello spazio della produzione cognitiva, superando la dimensione simbolica e discorsiva del corpo che ricorre in tante recenti riflessioni. Nel testo, dunque, le forme della produzione così come delle sfruttamento si danno attraverso il binomio mente-corpo assegnando alla differenza un ruolo di primo piano.

Tuttavia la differenza, ricorda Morini, emana il profumo della ribellione. Oltre l’ordine simbolico, la differenza si é fatta ordine sociale: produce gerarchie, ma insieme é sguardo critico che punta a eliminare le diseguaglianze. Non più rappresentazione statica dell’eterosessualità parla il linguaggio delle lotte dei nuovi femminismi ripensati alla luce dei processi di femminilizzazione e frammentazione della società. Tra differenza e precarietà emergono soggettività in transizione, complesse e stratificate, che aprono un nuovo campo d’esperienza in cui pensare la trasformazione sociale. Qui Morini, teorica militante, colloca la sfida del “soggetto precario-differente”: la lotta per nuove forme di welfare e per un reddito garantito. La moneta con cui remunerare il valore prodotto collettivamente e non distribuito. Una proposta politica che segna un altro punto di forza del testo nell’asfittico dibattito nostrano in tema di donne e lavoro.

Cristina Morini - "Per amore o per forza: femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo" - edizioni OmbreCorte, pp.160