Linguaggio e genere: appunti per una narrazione inclusiva

9 / 11 / 2016

“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” (Nanni Moretti, Palombella Rossa)

Ci si interroga spesso sull’uso delle parole, si sostituiscono termini considerati offensivi e se ne creano di nuovi. Tutto ciò succede in modo più o meno naturale, quando su indicazione delle istituzioni, quando nel normale evolversi della lingua parlata. Questi cambiamenti vengono per la maggior parte accettati e accolti all’interno della società di parlanti. Eppure molte volte alle richieste di usare degli accorgimenti per rendere la lingua italiana più inclusiva dal punto di vista del genere, vengono mosse rimostranze granitiche.

Dal ‘suona male’ a ‘la lingua italiana è così bella, perché cambiarla e deturparla?’ le ragioni apportate sono le più disparate.

Spesso ci si rapporta alla lingua come se questa fosse un qualcosa di statico, ignorando che fintanto che è viva, parlata, può cambiare, evolvere nel tempo, nello spazio e nelle relazioni sociali.

Il linguaggio che usiamo, le parole che scegliamo, costruiscono la nostra identità di parlanti, i concetti culturali che ci definiscono, ruoli e modelli inconsci che vengono superati con fatica. Di conseguenza un mutamento linguistico se accettato dall’intera comunità di parlanti provoca anche un mutamento d’identità.

Il problema dell’esclusione del femminile dalla lingua italiana è un problema reale. Il ‘maschile inclusivo’ nasconde le donne dalla narrazione comune ed è complice degli stereotipi di genere che relegano la donna e l’uomo a ruoli ben determinati. Allo stesso modo la confusione nell’attribuzione dell’identità di genere, scrivendo o parlando ad esempio di persone transessuali o transgender, concorre nella creazione di una cultura transfobica che non rispetta l’identità di genere scelta dal soggetto di cui si parla.

L’apprendimento della lingua avviene naturalmente e in maniera inconscia, per questo risulta importante fin dall’infanzia scardinare stereotipi e ruoli di genere prestabiliti usandola in modo corretto e inclusivo. Questo può essere fatto con semplici accorgimenti nel linguaggio quotidiano e prestando particolare attenzione agli stereotipi di genere in contesti neutrali dove potrebbero facilmente essere evitati: penso agli esercizi di matematica che parlano di un ‘padre lavoratore’ e di una ‘madre che cucina, che fa la spesa’ oppure della maestra e del sindaco, dell’infermiera e del ministro. Tutto ciò contribuisce a creare un immaginario in cui uomini e donne hanno ruoli prestabiliti, in cui le donne sono escluse da certe professioni e gli uomini da altre.

È necessario rendere manifesta la presenza delle donne, nominando ad esempio entrambi i sessi quando si parla di ‘essere umani’ in generale. Il cambiamento che ha portato al sovrapporsi del termine ‘uomo’ (latino: vir) con il significato di ‘essere umano’ (latino: homo) quando si parla in termini generali di umanità, ha eliminato totalmente il femminile dalle narrazioni complessive, dai documenti ufficiali, dai regolamenti, dai formulari. Rivolgersi a ‘bambini e bambine’, ‘ragazzi e ragazze’, ‘cittadini e cittadine’ è un modo semplice per sovvertire questo meccanismo. Il cambiamento di documenti ufficiali, formulari in questo senso è a costo zero, potrà essere un procedimento lento ma è del tutto possibile tant’è che ci sono già esempi di comuni (recentemente il comune di Quarto d’Altino) che hanno voluto impegnarsi per un’evoluzione di questo tipo.

L’assenza del femminile nei nomi di prestigio crea spesso strafalcioni soprattutto nel linguaggio giornalistico. Ci ritroviamo a leggere la ministro o l’avvocatessa proprio perché non si parla di una normativa comune nella resa al femminile di questi termini. In realtà alla maggior parte di loro basterebbe applicare la regola grammaticale già esistente: nomi quali sindaca, ministra o avvocata vengono percepiti come ‘strani’ anche se seguono la stessa regola di qualsiasi altro nome della prima classe che forma il femminile per mozione, così come assessora segue la regola del femminile dei nomi in –s(t)ore (impostore – impostora). Gli esempi a riguardo sono innumerevoli e provano la correttezza grammaticale della forma al femminile di nomi di professioni o di prestigio.

Allora perché ‘suona male’? Suona male perché contrasta con stereotipi culturali, inconsci e quindi difficili da riconoscere, così la nostra competenza culturale rifiuta queste parole.

L’esclusione del femminile è chiara e manifesta, ma non è che una parte del problema. La mancanza del genere neutro in italiano, che troviamo ad esempio nel tedesco, nell’inglese (they/them), nello svedese, produce una forzatura nella narrazione del presente, soprattutto per tutte quelle persone che non si riconoscono nel binarismo di genere. Quando parliamo di un gruppo misto usiamo sempre il ‘maschile neutro’ anche se la maggior parte delle persone del gruppo sono donne o non si riconoscono in un genere prestabilito. Per far fronte a questo problema si sono concretizzate svariate proposte, dall’asterisco, alla schwa (ə), al favorire l’uso di nomi epiceni (non marcati per genere, come insegnate/giornalista/studente). L’uso di questi espedienti moltiplica le possibilità, andando oltre il binarismo che una semplice sbarretta ‘i/e’ produce.

L’obiettivo dev’essere una lingua che rappresenti tutt*, che abbia la capacità reale di descrivere, raccontare e di relazionarsi con l’altro, che si adegui alla complessità del presente.

È necessario cominciare a cercare delle risposte condivise perché un cambiamento è possibile, rispettando la natura e la struttura interna della lingua, per una narrazione inclusiva e rispettosa, per l’abbattimento di ruoli statici e prestabiliti, per il superamento di barriere di genere e binarismi.