66a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica - Due documentari sull'impero mediatico in Italia

L'autonomia possibile delle immagini

Tra "Videocracy" e "Di me cosa ne sai"

Utente: beat
8 / 9 / 2009

Il paese in cui ci troviamo a vivere, l'italia, è classificato al 73° posto al mondo per la libertà d’informazione, dopo le Isole Salomone e il Benin, e proprio per questo c'è ancora molto da raccontare.
Si conclude così, con un’ottimistica strizzata d’occhio allo spettatore, il documentario di Valerio Jalongo intitolato “Di me cosa ne sai”, presentato nella sezione “Giornate degli autori- Venice Days” alla 66° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
La settima arte è declinata quest’anno più che mai nel linguaggio documentario, tecnica trasversale a tutte le sezioni ed evidentemente preferita ad altre per produrre quello che Jalongo definisce, senza titubanze, un “film politico”.
Questo docu-drama sconta il limite di non avere una produzione “esotica” come quella svedese di Videocracy, eppure questa “Inchiesta su un grande mistero italiano” attraversa tutta la storia della produzione cinematografica italiana fino al suo declino, la cui responsabilità diretta è accollata certo a normative protezionistiche che hanno soffocato qualsiasi spinta di respiro internazionale del nostro cinema, ma soprattutto all’avvento delle televisioni commerciali e del loro appiattimento linguistico.
Il progetto per la realizzazione di “Di me cosa ne sai” si sviluppa fin dal 2005, frutto di una discussione collettiva tra i registi del gruppo dei Centoautori, per giungere a delineare politicamente ed eticamente il declino dell’industria audiovisiva nostrana: con l’occasione, si racconta il lavoro certosino degli artigiani del nostro cinema, costretti chi a sopravvivere più o meno creativamente - come il protagonista che ci guida attraverso la disfatta delle sale d’essai, delle proiezioni di piazza, a favore delle multisala-centri commerciali, magistralmente descritte con il solo obiettivo di una piccola videocamera portatile - chi a realizzare un film ogni dieci anni, altri ad emigrare negli Stati Uniti. E quando questi “altri” sono produttori del calibro di Dino De Laurentis, che lucidamente ci spiega la miopia delle scelte governative sulla cultura dal dopoguerra a oggi, ecco ritrovarsi a sorridere a denti stretti ascoltando le battute così attuali di Federico Fellini, pronunciate ai tempi della sua battaglia contro le interruzioni pubblicitarie dei film trasmessi in televisione. Il regista, rivolgendosi alla telecamera, chiede con un’energia disperata volta a “resuscitare” il senso critico ormai annientato dei suoi spettatori televisivi, di “immaginarsi una funzione religiosa, o un intervento parlamentare, o una visita al museo, interrotta dal carosello”…
Contro l’industria culturale americanizzata, che riduce l’opera-film ad "hamburger della cultura", Jalongo porta le sue prove concrete e reali, non asetticamente ideologiche: sono da brividi le immagini girate in un paese fantasma della lucania, che da scheletro senz’anima ridiviene quinta teatrale e rivive per un momento grazie ai ricordi del vecchio proiezionista girovago, il quale traccia per noi la geografia della piazza com’era ad ogni festa del santo patrono, quando il suo proiettore regalava il sogno del cinema ai paesani che si radunavano, ognuno con la propria sedia, pronti per lo spettacolo.


Oggi archivi polverosi racchiudono alla bell'e meglio pellicole destinate al macero, film che registrarono, fotogramma dopo fotogramma, pur sempre i volti di Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Walter Chiari, Vittorio De Sica, quella che dovrebbe essere la “cultura italiana del Novecento” e che è stata invece rimossa al punto che il celebre Studio 5, in cui prendevano forma e anima le scenografie di Federico Fellini, ospita le puntate di Amici di Maria De Filippi. Fuori, davanti al muro grigio e scrostato di Cinecittà, frotte di adolescenti spingono per ottenere un posto tra il pubblico dello show, arrivano anche da lontano e rispondono volentieri alla domanda di Jalongo: “Qualcuno di voi sa chi era Federico Fellini?” Le risposte vanno dal no al più deciso “Certo, io ci andavo a scuola alle medie alla Federico Fellini, ma però non so chi sia”.
“Di me cosa ne sai” si conclude là dove Videocracy inizia, ma non avrà lo stesso successo mediatico, perché l'Istituto Luce lo distribuirà con timidezza, forse, oppure perché mostrare gli archivi polverosi dei cinema dimessi, degli scantinati delle piccole produzioni romane ormai fallite da decenni, non è poi così cool.
Di Videocracy si è già detto tutto, andrebbe certamente proiettato nelle scuole di ogni ordine e grado. Solo che Fabrizio Corona è molto più noto, oggi, di Federico Fellini, e il regista Erik Gandini, da esule privilegiato, non ricorda che qui, nel paese in cui non è la televisione a riflettere la realtà ma la realtà a diventare televisiva (così spiega Vincenzo Mollica, nel documentario di Jalongo), non è sufficiente mostrare come stanno le cose, ché tanto sappiamo già tutto, noi. Il nostro senso critico è atrofizzato: occorre, purtroppo, didattizzare, spiegare, approfondire, esplicitare.
E’ questa la nostra “educazione all’immagine”.
Ci scandalizziamo, certo, di fronte all’excursus storico-evolutivo del ruolo del corpo femminile nelle trasmissioni televisive che Gandini ci condensa in uno schiaffo bruciante. Ma quanti spettatori “italofoni” riusciranno in autonomia a trarre le sensate conclusioni che Gandini vuole indurre (ci siamo venduti senza colpo ferire al miglior - o peggior - offerente, il nostro potere politico è pre-determinato da un trentennio di dittatura dell’immagine “facile”, ecc ecc)?
E' vero, in questo paese c’è ancora tanto da raccontare, ma prima riprendiamoci, per favore, l'autonomia critica sulle immagini.

Beatrice Barzaghi