La produzione letteraria femminista nella “seconda ondata”. Intervista a Deborah Ardilli

2 / 4 / 2022

Intervista a Deborah Ardilli, storica del femminismo, che è intervenuta al Book Pride di Milano all’interno del panel Editoria femminista: l’importanza di mettersi in rete parlando del femminismo della seconda ondata attraverso alcune delle autrici simbolo del catalogo VandA, da lei tradotte.

I testi femministi che arrivano in Italia sono spesso traduzioni di altri testi, ad esempio dal francese. Succede questo perché in Italia manca una produzione di letteratura femminista "propria"?

Fermo restando che il femminismo ha sempre avuto una dimensione internazionale, fatta di scambi e contaminazioni reciproche, non direi che in Italia sia mancata una produzione originale, radicata nel contesto linguistico e nelle culture politiche attive nel nostro paese. Di conseguenza non direi nemmeno, almeno per quanto riguarda il mio lavoro, che la traduzione di testi femministi stranieri risponda alla pretesa esorbitante di colmare un vuoto genericamente determinato dalla mancanza di una letteratura femminista italiana. D’altronde, se dalle nostre parti il vuoto di coscienza e di cultura femminista fosse effettivamente così totale, così desolatamente assoluto, bisognerebbe rassegnarsi al fatto che nessuna traduzione potrebbe colmarlo. Questo (presunto) vuoto starebbe semplicemente a significare che, per qualche imperscrutabile ragione, l’Italia si è mantenuta immune dal contagio patriarcale e che, pertanto, il femminismo non ha avuto e non ha ragione di esistere e di comunicarsi in forma scritta, quale che sia la lingua madre in cui si esprime. Chiaramente le cose non stanno così.  

Negli anni Settanta del Novecento — per circoscrivere il ragionamento alla cosiddetta “seconda ondata” — il nostro paese è stato investito da uno dei movimenti femministi più importanti, per consistenza di massa e diffusione capillare, fra quelli che hanno agitato i paesi del Nord globale. Com’è logico, questo movimento ha dato corpo a una letteratura rilevante, per quantità e qualità. Penso al lavoro pionieristico di Daniela Pellegrini, che negli anni Sessanta ha in qualche modo anticipato l’esplosione del decennio successivo. Penso a Carla Lonzi, una lettura obbligata per generazioni di femministe italiane, per altro tradotta in diverse lingue straniere. Penso a Mariarosa Dalla Costa e Silvia Federici, che hanno animato il filone del “salario al/contro il lavoro domestico”, assicurando a quella proposta teorico-politica una proiezione internazionale. Penso a Simonetta Spinelli per il lesbofemminismo. A questi nomi più noti dovremmo poi aggiungere quelli di figure più periferiche rispetto ai grandi centri urbani, come Milano e Roma, dove si stabilisce, per dir così, la temperatura nazionale del femminismo in un dato momento storico. Si tratta di figure altrettanto importanti per chi ha avuto modo di entrare in contatto con loro e con le loro riflessioni: penso a Giuliana Pincelli a Modena, o a Emma Baeri a Catania. Si potrebbero moltiplicare gli esempi, il catalogo non è esaurito dai nomi che ho menzionato: nomi che, per altro, esemplificano approcci diversi al femminismo, difficilmente riducibili a un blocco omogeneo. Chiusa la stagione degli anni Settanta, si assiste nel nostro paese a un fenomeno di drastica contrazione dell’offerta teorica: il pensiero della differenza sessuale, che per altro deve moltissimo al contatto con alcuni settori del movimento delle donne francese, da Antoinette Fouque (la leader carismatica del gruppo Psychanalyse et Politique) a Luce Irigaray, diventa praticamente sinonimo di “femminismo italiano”, oscurando altre tradizioni che pure nel decennio precedente avevano avuto un seguito importante in Italia. Si tratta di un rovesciamento curioso, a maggior ragione se teniamo a mente che Fouque si dichiarava fieramente anti-femminista. Ma è un rovesciamento che deve renderci avvertite del fatto che non ogni «parola di donna» è necessariamente, in quanto tale, una parola femminista.

Ad ogni buon conto, il punto da sottolineare è che all’Italia non è mancata un’elaborazione “autoctona” della prospettiva femminista. Dal mio punto di vista ciò che è mancato, semmai, è una tradizione femminista materialista, ovvero una critica dell’economia politica del patriarcato, una visione dei rapporti sociali di sesso inquadrata in una prospettiva di classe. Le femministe italiane hanno avuto — e, in buona parte, continuano ad avere — molte riserve circa la possibilità di estendere il metodo del materialismo storico all’analisi del patriarcato per trarne indicazioni operative. Un conto però sono le resistenze, un altro le confutazioni. In effetti, in mezzo a un oceano di resistenze, trovo significativa la penuria di confutazioni capaci di garantire una giustificazione “razionale” al rigetto dell’approccio femminista materialista. È questo che mi ha spinta a tradurre il lavoro della francese Christine Delphy: a giugno uscirà per VandA il primo volume de Il nemico principale (il secondo volume è previsto per il 2023). Non è semplice stabilire per quale motivo la Francia abbia avuto un femminismo materialista e l’Italia no, forse per capirlo occorre fare riferimento alle tradizioni rivoluzionarie d’Oltralpe. In ogni caso — ed è bene sottolinearlo nel bel mezzo dell’ondata reazionaria di nazionalismi aggressivi in cui siamo precipitate — non è mai la connotazione nazionale a decidere del valore di verità di un pensiero: il punto è la qualità dell’impostazione teorica, la sua “tenuta” nel tempo, la prospettiva politica che essa ci aiuta a delineare, la sua finalizzazione pratica ai fini della crescita del movimento femminista. Chi traduce è ovviamente tenuta a misurarsi da vicino con la peculiarità di un contesto linguistico e culturale, a includere nel proprio lavoro la coscienza della storia materiale del farsi di un pensiero, pena la ricaduta in una dialettica astratta delle idee che le spingerebbe verso l’insignificanza. Ma guai a rimanere impigliate nel particolarismo, a innamorarsi dell’“intraducibile”, a rinunciare a una comunicazione larga dei concetti.

Per la prima volta in Italia, con la casa editrice VandA, è stata pubblicata Trilogia SCUM di Valerie Solanas. Perché avete deciso di pubblicarla e com'è stata l'esperienza di traduzione, nel riportare nella nostra lingua i concetti e i termini usati da Solanas?

La pubblicazione di Trilogia SCUMè stata una bellissima esperienza di lavoro comune che ha coinvolto Nicoleugenia Prezzavento, Stefania Arcara e la sottoscritta, salvo arricchirsi ulteriormente durante le presentazioni del volume, quando si è unita a noi l’artista femminista Chiara Pergola per aiutarci a parlare del modo in cui Solanas si è materializzata nel lavoro di Chiara Fumai. A motivarci è stata l’esigenza di fare qualcosa che nemmeno nel paese d’origine di Solanas, gli Stati Uniti, è stata fatta sinora, ovvero un’edizione filologicamente accurata dei suoi scritti: la commedia In culo a te e il racconto Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle, tradotti da Nicolaeugenia Prezzavento, e naturalmente Manifesto SCUM, ritradotto da Stefania Arcara e da me a partire dal testo approvato dalla stessa Solanas, che non coincide con quello trasmesso dalle precedenti traduzioni italiane. Ci siamo proposte di riservare a questa figura del margine il trattamento che generalmente viene riservato soltanto agli autori canonici e consacrati: prendere sul serio la scrittrice, rispettare l’integrità dell’opera, far conoscere le circostanze della sua produzione. Si tratta di una battaglia che Solanas ha combattuto invano in vita, pagando un prezzo altissimo. Ci sembrava doveroso restituirle la dignità che le è stata sottratta. Il lavoro che abbiamo fatto su Solanas mi ha dato, in qualche modo, un filo conduttore per portare avanti la collaborazione con VandA, anzitutto con la pubblicazione dell’antologia Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977): si tratta di riportare a galla tradizioni nascoste, disperse, deformate e ridotte a caricatura dalle interferenze della cultura patriarcale. Spetta alle femministe, in definitiva, prendersi cura della propria storia e, per quanto posso, cerco di dare il mio contributo a questa impresa collettiva.        

Qual è il ruolo dell'editoria e della traduzione nel diffondere femminismi "altri" e non appartenenti alla tradizione europea bianca?

Per provare a rispondere a questa domanda, è d’obbligo una premessa. Personalmente non sono così sicura che all’espressione “tradizione femminista europea bianca” corrisponda un contenuto politico determinato. Citavo in precedenza due figure agli antipodi tra loro come Antoinette Fouque e Christine Delphy: stessa area linguistica, stessa appartenenza al gruppo maggioritario bianco, stessa affiliazione al ceto medio intellettuale. Senonché, la prima è stata un’alfiera del differenzialismo, mentre la seconda ha contratto debiti importanti con l’universalismo rivoluzionario; per altro, Delphy ha alle spalle una storia di militanza antirazzista che precede il suo approdo al femminismo e che, in forme diverse, è proseguita anche negli anni successivi. In quale misura, dunque, si può affermare che queste due autrici appartengano alla stessa tradizione, che si inscrivano nello stesso orizzonte ideologico? È interessante per altro notare come una delle voci oggi più acclamate del femminismo decoloniale, Françoise Vergès, in passato abbia fatto parte del gruppo di Fouque, Psychanalyse et Politique, da cui ha mutuato una forte carica polemica anti-femminista, successivamente reinvestita in chiave anti-razzista. Il che mi suggerisce un’ulteriore considerazione. Se proviamo a dare un minimo di profondità storica alla questione, ci accorgiamo che gli aggettivi “bianco” e “borghese” hanno spesso funzionato, più che come descrittori sociologici o politico-ideologici, come uno strumento di delegittimazione del femminismo in quanto tale, indipendentemente dal fatto che questo venisse praticato da donne bianche o da donne razzializzate, e ancor più indipendentemente dall’elaborazione di un giudizio informato sui diversi orientamenti teorici che hanno preso forma all’interno dei movimenti femministi. Si tratta di una costante polemica del dibattito all’interno delle nuove sinistre europee e statunitensi degli anni Sessanta e Settanta, ma potremmo sicuramente risalire più indietro nel tempo. Ora, sarebbe opportuno chiedersi come mai le armi appartenenti a un arsenale polemico tipico dell’antifemminismo di sinistra a un certo punto si siano trasferite, assumendo i connotati di un tratto auto-definitorio positivo, nella coscienza di nuove generazioni di donne motivate dall’esigenza di caratterizzare il proprio femminismo in contrapposizione a quello di “seconda ondata”, spesso squalificato in blocco, appunto, come “bianco” e “borghese”. Siamo in presenza di una genuina preoccupazione per le questioni del razzismo, dello sfruttamento coloniale e capitalistico? Oppure si tratta della ricerca di un nobile salvacondotto per aggirare la questione dello sfruttamento specificamente patriarcale? In questo secondo caso, l’operazione è indubbiamente facilitata dalla riduzione capziosa della critica del patriarcato a un problema di portata puramente locale, rilevante soltanto per gli strati relativamente privilegiati della provincia europea e nordamericana. Per dirla in maniera più cruda e maliziosa: siamo in presenza di una coscienza più affinata delle molteplici direttrici di oppressione che strutturano le società contemporanee, da cui risulta una maggiore propensione ad allargare il ventaglio dei soggetti abilitati a scrivere e pubblicare, o abbiamo invece a che fare con uno “sfondamento” delle ragioni del dominante patriarcale nel campo femminista? Lascio aperta la domanda, perché sono convinta che queste due spinte contraddittorie convivano in maniera ambigua e che a decidere della prevalenza dell’una o dell’altra sarà, in definitiva, il grado di autonomia che il femminismo riuscirà a esprimere — anche, evidentemente, sul fronte culturale — una volta messo alla prova dei fatti. Non sono in grado di dare una risposta esaustiva alla questione del ruolo dell’editoria e della traduzione, tanto più che questo ruolo dipende da una variabile che in genere sfugge al controllo di chi traduce: le risorse economiche a disposizione, che per altro sono notoriamente magre per quanto riguarda l’editoria femminista. Ma penso che le domande che ho appena posto sorgano spontaneamente quando osserviamo il carattere selettivo delle traduzioni di “femministe altre” che raggiungono il mercato italiano. Ci si può chiedere, per esempio, come mai l’attenzione cada su figure consacrate dall’accademia come quelle di Angela Davis (che non militava nelle fila del femminismo al momento della stesura dei suoi scritti più famosi) e di bell hooks (di cui è nota l’inesausta polemica nei riguardi di tutto il femminismo degli anni Sessanta e Settanta, incluso quello nero) e non, per esempio, su quelle di Barbara Smith, Pat Parker o Awa Thiam. Certamente, abbiamo bisogno di un riequilibrio delle voci, di una conoscenza più accurata dei contesti e dei dibattiti e, in definitiva, di una passione politica che ci motivi a scavare più a fondo di quanto ci permettano di fare le etichettature un po’ sbrigative con cui viene catalogata la produzione teorica femminista.