La narrazione mancante: la cultura come pratica

di Luigi Emilio Pischedda

12 / 12 / 2013

Le riflessioni che, ormai da due settimane, hanno messo al centro la questione di un’assenza di narrazione, penso, abbiano colto quelli che sono i nodi centrali del discorso: crisi della cultura tout court, rivedere e ricomprendere il significato di produzione culturale, necessità di instaurare un discorso (e un rapporto) che coinvolga più soggettività possibili. Da parte mia, per quanto possibile, cercherò di sviluppare, brevemente e con alcune peculiarità, questi elementi partendo prima da un’esperienza personale.

Ormai da un anno, come Sherwood.it ed insieme ad alcuni spazi sociali del NordEst, abbiamo dato vita al progetto WiresTo. Lo scopo era di aprire le nostre realtà a chi, quotidianamente, produce e vive (o almeno ci prova) di musica in maniera indipendente. In questo caso le etichette discografiche che operano sul nostro territorio.  Ne è nato un percorso ricco di suggestioni e di elementi su cui lavorare ma che, allo stesso tempo, ha evidenziato alcuni punti problematici. Uno su tutti il fatto che la cultura (in qualsiasi declinazione) non paga le bollette. Non emerge tanto la figura del precario cognitivo, o del lavoratore dell’arte, quanto quella del precario a 360 gradi. Chi gestisce un’etichetta indipendente, per esempio, si ritrova a essere, nel medesimo momento: promoter, ufficio stampa, roadie, fonico, musicista e chi più ne ha, più ne metta. Tutto questo, ovviamente, tralasciando che, magari, durante la settimana, bisogna essere in ufficio o in magazzino al lavoro, quello “vero”. L’ambito culturale, colto nella sua materialità più immediata, non riproduce mai il riflesso di una divisione a compartimenti stagni; anzi, al contrario, fa emergere con tutte le problematiche del caso, una totalità indifferenziata.

Partire da questo dato, secondo me, è centrale per ancorare i piedi a terra ed evitare eccessive teorizzazioni.  Affrontare la questione con questo taglio, non pone, esclusivamente, la domanda sul perché all’interno dei nostri spazi non si sia in grado di costruire un nuovo immaginario in grado di porsi come solida alternativa; quanto anche quella di come attraverso il nostro bagaglio di lotte e di pratiche (evitando l’autosufficienza), siamo in grado di attraversare tutti quei luoghi e tutte quelle persone che provano a fare della cultura  una pratica di vita. Riprendere in mano, per esempio, strumenti del passato (non troppo remoto), come i ragionamenti sui Creative Commons o le teorie sul Copyleft, penso possano investire con nuove problematicità il campo tutto della cultura (si veda il caso degli ultimi mesi sulla SIAE).

La vera sfida non consiste solo nel provare, con nuova dinamicità, a mettere in gioco tutte le nostre realtà come contenitori e crocevia di maggiori esperienze possibili; ma anche e soprattutto, riuscire a creare quei presupposti che sviluppino un discorso capace di collocare la cultura come pratica effettiva del comune. Considerarla, infatti, materia per pochi specialisti del settore o, peggio ancora, come semplice abbellimento all’interno delle nostre serate, vuol dire non averne compreso la contradittoria (bio)politicità e la conseguente trama costituente che contiene.