Intervista ad Alessia Dulbecco, pedagogista, autrice di Arcani Filosofici e attivista nel contrasto alla discriminazione di genere

7 / 2 / 2022

Durante lo Sherbooks Winter Festival abbiamo avuto modo di conoscere Alessia Dulbecco come autrice del libro Arcani Filosofici, pubblicato per D Editore, che abbiamo presentato sabato 29 gennaio sul palco del CSO Pedro alla presenza del coautore Francesco d’Isa e in collegamento con Alessia, purtroppo impossibilitata ad essere presente di persona. Per questo motivo, non è stato possibile fare due chiacchiere con l’autrice anche sul suo lavoro oltre gli Arcani, e abbiamo deciso quindi di recuperare in separata sede.

Alessia Dulbecco è infatti pedagogista, counsellor e formatrice, specializzata nel contrasto alla violenza di genere e alla discriminazione in ottica intersezionale; collabora con numerosi centri antiviolenza e scrive su l'Indiscreto, il Tascabile e the Vision oltre ad essere molto attiva sui canali social nella diffusione di contenuti con taglio divulgativo.

Innanzitutto, benvenuta Alessia tra le pagine di Global Project.

Ciao Michele e ciao a tutti i lettori e le lettrici di Global Project, è un piacere per me poter parlare di questo progetto che è stato accolto così bene durante l’evento. Un peccato non esserci stata se non in forma “virtuale”.

Per questa chiacchierata, vorrei ripartire da dove ci eravamo lasciati, ovvero da Arcani Filosofici. Per chi non ha potuto seguire la presentazione al CSO Pedro, questo libro si propone come un progetto di reinterpretazione dei tarocchi, offrendone un uso che non ha nulla a che vedere con la divinazione, quanto piuttosto con la libera interpretazione di sé e l’autoanalisi. Quindi, l’interpretazione delle carte, dei simboli in esse rappresentati e del commento alle carte come mezzo di riflessione, totalmente slegato da qualsiasi contenuto “magico”. Quindi non tarocchi esoterici ma intuitivi: uno strumento di indagine e approfondimento che mira a più obiettivi: ad ottenere una maggiore consapevolezza di sé, ma anche alla risoluzione di conflitti o problemi.

Durante la presentazione, ho purtroppo dovuto tagliare l’ultima domanda che avevo pensato di porvi. Infatti, nel leggere le righe in cui parlate del fatto di trovare un momento della giornata riservato solamente a se stessi, alla propria interiorità e alle proprie emozioni, nel quale dedicarsi all’interpretazione dei tarocchi, ho preso la matita, ho fatto una freccia e ho scritto sopra “Cronofagia”. Mi è venuto infatti da mettere in relazione la vostra pubblicazione con un altro libro a me molto caro, sempre di D Editore e sempre della stessa collana, Nextopie, ovvero Cronofagia: come il Capitalismo depreda il nostro tempo, di Davide Mazzocco. Non so se hai avuto modo di conoscere questo libro, ma Mazzocco parla dei mezzi e degli strumenti attraverso i quali il Capitale cronofago, in breve, depreda le masse del tempo di inattività, ovvero del tempo non impiegato a produrre o a consumare. Parla della fusione tra i tempi di vita e di lavoro, dell’erosione del tempo di inattività, e quindi di non-redditività, e, per venire al collegamento con il vostro libro, della fine dei tempi morti, quelli destinati all’ozio, ma anche alla contemplazione, alla fantasia, all’autocoscienza e all’autoanalisi.

Possiamo dire quindi che il vostro libro sia rivoluzionario nel senso che spinge il lettore a riappropriarsi del proprio tempo e della propria intimità e interiorità e gli dà i mezzi, le armi, per farlo (anche proprio in senso letterale con le carte). Cosa ne pensi di questo collegamento e di questa interpretazione, di questa politicizzazione del vostro libro?

Questo collegamento mi piace moltissimo. Ho letto e apprezzato molto Cronofagia: la questione del tempo, di come viene impiegato o sottratto, è centrale anche nelle tematiche di genere che affronto quotidianamente. Se in generale il capitalismo fagocita il tempo di tutte le persone imbrigliate nel circuito produttivo, portandole a sentirsi in colpa per le ore passate nell’inattività, possiamo affermare che nei confronti delle donne fa anche di peggio. Costrette a “conciliare” il tempo “del lavoro” con quello “della vita”, ogni donna si ritrova il più delle volte stritolata da una pressione lavorativa, sociale e familiare che non lascia scampo. Ognuno di questi livelli si ripercuote su quello sottostante, finendo per erodere ogni possibilità di esistere, se non dentro un ruolo: di lavoratrice, di donna “moglie di, figlia di”, di madre. Il carico mentale è uno dei modi in cui ci viene sottratto tempo: obbligandoci a stare sempre in allerta, pronte a soddisfare le esigenze di tutto il nucleo familiare, ci dimentichiamo di prenderci cura anche di noi stesse. Non è un caso se le donne accedono ai servizi di salute mentale e psicologica con più frequenza rispetto agli uomini: la pressione porta inevitabilmente a star male, da qui la necessaria richiesta di aiuto.

Come accennavo durante la presentazione su palco di CSO Pedro, il progetto degli Arcani Filosofici si situa un po’ fuori rispetto al mio personale ambito di ricerca, tuttavia resta intriso delle convinzioni maturate attraverso lo studio e nel contatto diretto con le donne che la pressione patriarcale l’ha subita fin nelle sue estreme conseguenze. Nei percorsi di emersione della violenza di genere il tempo è fondamentale: senza non è possibile prendere le distanze da chi ha agito violenza, non è possibile ricentrarsi stabilendo nuove priorità. È molto difficile imparare questa lezione, ed è faticoso farlo quando cause di forza maggiore lo impongono. Per questo mi è sembrato importante, nel libro, fare un accenno a questo tema. Il tempo destinato al silenzio, alla contemplazione o all’ozio non solo  parte integrante del nostro benessere fisico e mentale ma diventano parentesi essenziali per avvicinarsi all’autoesplorazione personale, motivo per cui sono nati gli Arcani. Mi sembrava quindi importante ricordarlo nel libro che è pensato in particolare per chi si avvicina a questi elementi magari per la prima volta.

Tra le attività di cui ti occupi, vi sono anche laboratori, rivolti ad aziende e associazioni, sul tema della discriminazione di genere, ai quali si aggiunge il laboratorio che terrai a breve, se non sbaglio, più specificatamente incentrato sull’uso di un linguaggio inclusivo, soprattutto in ambito lavorativo. La mia domanda innanzitutto riguarda con quali categorie di aziende o associazioni ti capita di lavorare, e quale sia il feedback che ricevi quando ti trovi a discutere di tali argomenti in questi ambienti, nei quali spesso parità di genere, discriminazione e inclusività sono concetti trascurati se non completamente ignorati. Immagino che talvolta tu possa incontrare qualche resistenza o chiusura, oppure peggio ancora, una certa benevolenza. Come affrontare quindi situazioni di questo tipo?

Il mio lavoro è estremamente eterogeneo, così come le realtà che mi capita di incontrare.

Per quanto concerne le associazioni, mi rapporto spesso con soggetti che hanno già masticato certi concetti o che si muovono espressamente intorno alle tematiche di genere. Il loro obiettivo è quindi continuare a riflessione avviata portandola ad un livello più alto.

L’8 marzo o il 25 novembre costituiscono, per me, giornate “critiche” perché l’interesse nei confronti della violenza di genere si espande (ovviamente il giorno dopo i riflettori si sono già spenti, ecco perché le considero difficili) e spesso anche realtà che contengono all’interno i germi del sessismo più becero richiedono percorsi ad hoc per introdurre questi concetti all’interno dei loro uffici. Sarebbe anche bello se si trattasse di una richiesta autentica, frutto di un vero interesse, ma in molti casi non è così. Per fortuna non capita spesso, ma quando accade è molto frustrante. La resistenza è comprensibile, non è mai facile mettere in discussione il proprio privilegio. Purtroppo però è ancora più fastidioso il “sessismo benevolo” - quello che ad esempio porta a difendere le donne dalla violenza di genere usando slogan o frasi fatte, come “le donne non si toccano nemmeno con un fiore” e via dicendo. Si tratta di una modalità impiegata sia da uomini che da donne, ed è molto difficile da scalfire perché fa credere alla persona che l’agisce di essere dalla parte giusta… quando in realtà non lo è affatto.

Una riflessione che mi ha colpito guardando i tuoi profili social è efficacemente riassunta nella frase “niente è innocuo”. Ti riferivi, in quel caso, ai film romantici di Natale, colpevoli di veicolare una visione stereotipata dell’amore, che va dall’uomo stronzo che non lascia trasparire emozioni, alla donna “sfigata”, perché brutta o single. Dicevi, niente è innocuo, perché questo tipo di comunicazione (che riguarda film, come libri o musica) va a forgiare il nostro immaginario e quindi a ricercare questo tipo di relazioni. Ed è un argomento spinoso, con il quale ci siamo trovati anche noi a dover fare i conti, per esempio in ambito musicale, quando ci si ritrova di fronte a testi apertamente (o magari inconsapevolmente) misogini o omofobi: vedasi tutto un certo filone del hard rock o del rap. A questo punto la mia domanda è: come affrontare questi contenuti? Censurarli rischiando di essere tacciati di “cancel culture”, contestualizzarli all’interno del percorso artistico, interpretarli evidenziandone il carattere discriminatorio, altro?

È una domanda molto interessante che per tanto tempo - parafrasando Zerocalcalcare - mi ha devastato, e non lo dico a cuor leggero. Avvicinandomi al femminismo mi sono resa conto che gran parte del mio immaginario era plasmato da film, musica, arte profondamente misogina e sessista.

Amo registi del calibro di Allen o Polanski, ma come porsi davanti alle loro produzioni sapendo di cosa sono stati accusati? Sono cresciuta ascoltando Guns n’ roses e Ozzy Osburne; bella musica ma certamente non inclusiva. Per tanto tempo mi sono chiesta come potessi definirmi femminista considerando questi aspetti della mia formazione. Ci ho riflettuto a lungo e quello che sono certa di non volere è una “cancel culture” al contrario. Mi spiego meglio. Le forze reazionarie e conservatrici urlano sempre al “non si può più dire nulla”, accusando la fantomatica "lobby Lgbt” (!) di essere responsabile dei più feroci crimini contro la cultura. È colpa loro e dei fanatici del “gender”  - dicono - se non si studia più Omero o se un film come “Via col vento” viene ritirato. In realtà si tratta di notizie false e mistificazioni: la società è cambiata e con essa la sua sensibilità; quello che si richiede è di contestualizzare ciò che è stato fatto in epoche precedenti spiegando perché oggi quel contenuto può risultare problematico per alcune soggettività. Non si tratta di cancellare, ma di comprendere che cosa nel frattempo è cambiato.

Credo sia possibile fruire di tutto, a patto di essere consapevoli di ciò con cui stiamo nutrendo la nostra formazione. Aggiungo un’ultima cosa: dovremmo usare questo senso critico sempre, mettendo in discussione soprattutto quegli elementi che non sono neppure percepiti come problematici. Faccio un esempio in clima-Sanremo: spesso consideriamo problematico l’heavy metal o il rap per via degli slur sessisti o omofobi che caratterizzano le liriche. Eppure, di rado ci si concentra su canzoni che consideriamo innocenti. Quello che le donne non dicono - celebre pezzo portato al successo da Mannoia - è l’emblema del sessismo benevolo che ha instillato false credenze in tutti, uomini e donne, informandoci a nostra insaputa rispetto a come ci si dovrebbe comportare in una relazione. Ho scritto proprio di questo in un articolo per la rivista online L’Indiscreto, l’anno scorso, e dai feedback sconcertati ricevuti ho capito quanto poco si parli di tutto ciò.

In Arcani Filosofici, quando parli dell’introduzione al metodo, affermi di sfuggita che in anni di lavoro come consulente pedagogica non hai mai incontrato clienti uomini, se non nel ruolo di genitori, coinvolti dalla partner. Innanzitutto, volevo chiederti se puoi spiegare brevemente a noi neofiti di cosa ti occupi nel tuo ruolo di consulente pedagogica e poi per quale motivo secondo te ci sono meno uomini che si rivolgono a questo tipo di specialista?

Come consulente pedagogica mi occupo prevalentemente di adulti, lavorando in particolare sull’orientamento formativo e professionale. In sostanza, aiuto colleghi/e o giovani/e professionisti/e a trovare il modo di esprimere la propria professionalità al di fuori dei consueti stereotipi. In seguito al lockdown ho trasferito la mia attività online e questo mi permette di incontrare persone da tutta Italia. Ciò nonostante, ad oggi solo un uomo ha richiesto una delle mie consulenze. Interpreto questo dato alla luce degli studi di genere: sicuramente gli uomini che escono da studi umanistici o pedagogici sono pochi; inoltre credo che abbiano le idee più chiare perché meno esposti alla cosiddetta “sindrome dell’impostore” che colpisce in particolare le donne e che ci fa credere di essere sempre un passo indietro rispetto agli altri, meno competenti, meno affidabili.

Prendo spunto da una discussione nata di recente attorno al libro di Lorenzo Gasparrini, Perché il femminismo serve anche agli uomini, che sicuramente conoscerai. Possiamo dire che la mia domanda impatta anche la chiacchierata che stiamo facendo, in quanto come maschio bianco cisgender mi trovo a parlare di femminismo, con il rischio di scadere nel mansplaining. Per cui, volevo chiederti, innanzitutto, se vuoi rispondere dal tuo punto di vista alla domanda di Gasparrini, ovvero “perché il femminismo serve anche agli uomini” e poi come si può, sempre che sia possibile secondo te, parlare di alcuni temi, quali appunto il femminismo, partendo da “limiti naturali” che possono impedire una comprensione complessiva del problema, che si tratti di essere uomo cis e parlare di transfemminismo o persona bianca a parlare di razzismo.

Il libro di Gasparrini è chiarissimo: parla agli uomini e dice loro che i privilegi erogati dal sistema patriarcale in realtà non sono gratis. Anche a loro chiede molto, in particolare di sacrificare tutti quegli aspetti - come la capacità di stare in ascolto delle proprie emozioni - che potrebbero declassarli nella sfera del femminile. Decostruire questo sistema oppressivo, quindi, va a vantaggio di tutte le soggettività, in particolare di quelle impossibilitate a star dentro una rigida gabbia binaria.

I maschi hanno, secondo me, il dovere e il diritto di porsi e porre domande, prendendo spunto da chi li ha preceduti in questa lotta, e adottare insieme alle altre soggettività in una prospettiva intersezionale e transfemminista. Stare in ascolto è parte di questa prospettiva ed è proprio ciò che ci mette al riparo dal fare mansplaining.

Proprio in questi giorni, si è fatto un gran parlare del ruolo della donna nella politica istituzionale, in relazione all’ipotesi ventilata da alcuni partiti politici di eleggere Belloni o Casellati alla Presidenza della Repubblica. La domanda è se ritieni che la presenza di una donna all’interno di un sistema di potere di stampo patriarcale, in ruoli fin ora occupati da uomini, possa in qualche modo giovare, che sia utile “occupare quei posti” ed abituare la mentalità comune a che quei posti possano essere occupati anche da donne, a prescindere che la persona in questione sia conservatrice e di destra? Per dire: va bene anche Thatcher per iniziare a cambiare il modo di pensare comune… Penso che questo possa essere un argomento piuttosto divisivo, al di fuori degli ambienti più militanti, all’interno dei quali la risposta a questa domanda è più che ovvia. Cosa ne pensi a riguardo?

Si, è molto divisivo! Lo posso dire a ragion veduta perché pochi giorni fa in un post su Instagram ho chiarito il mio punto di vista attirando più di una polemica. Per me, “una donna” non significa nulla in termini di raggiungimento dell’equità di genere. Le donne in posizioni apicali (soprattutto nel mondo politico o economico) sono poche, è vero, però se proviamo a estendere lo sguardo scopriamo che sono molte quelle che si sono distinte per aver portato un’innovazione nel proprio settore. Ci sono tantissimi libri dedicati all’infanzia che raccontano la vita di queste grandi donne; questo per dire che abbiamo molti esempi per educare le nuove generazioni. Sicuramente per la rappresentazione, per formare il nostro immaginario, sarebbe importante che ci fossero donne di valore anche in politica, in cui far rispecchiare le bambine di oggi. Però la politica non ha un compito esclusivamente educativo: prima di tutto deve contribuire a gettare quelle condizioni affinché l’equità possa realmente esprimersi. Per questo una donna di destra, conservatrice, non fa del bene alla causa femminista. L’idea che una donna sia a capo di qualcosa (un partito, un’istituzione) non è di per sé foriera di qualcosa di positivo, perché ella può perpetrare le stesse logiche conservatrici che porterebbero avanti i suoi colleghi maschi.

Vorrei passare a parlare di femminismo e pinkwashing, ovvero di come talvolta singole persone, come certi influencer sui social, o aziende prendano possesso di contenuti e rivendicazioni di genere e femministi privandoli della cornice del conflitto di classe, per utilizzarli a scopi di profitto personale o, più in generale, di marketing. La stessa cosa che può accadere con argomenti di carattere ecologista o queer… Qual è la tua posizione a proposito? Intendo dire, ritieni che il fatto che sempre più personalità o marchi parlino di determinati argomenti sia comunque positivo alla causa, fintanto che se ne parli e se ne discuta, e quindi si mettano in luce determinate problematiche, oppure lo ritieni una appropriazione a scopo di lucro da condannare in toto? Spesso si dice che l’ecologia senza socialismo sia giardinaggio e che il femminismo senza lotta di classe sia in un certo senso “miope”. Sei d’accordo? Sto ricadendo nel mansplaining?

Credo che i social abbiano aiutato molto la causa femminista (ma anche le altre, penso ad esempio alla lotta antispecista, di cui io per prima avrei saputo poco e niente se non mi avessero raggiunto alcuni contenuti). Internet ha aiutato a far conoscere queste istanze anche a quelle persone che, diversamente, non avrebbero potuto accedere a determinati contenuti. Non tutti/e possono comprare libri o fare corsi a pagamento per conoscere queste tematiche. Inoltre, hanno permesso alle categorie più marginalizzate di avere una voce, di costituirsi come soggetto in grado di prendere posizione.

Tuttavia, sono d’accordo quando dici che se si esclude la lotta di classe il femminismo sia un movimento fine a se stesso. Come ha spiegato chiaramente Elisa Cuter in Ripartire dal desiderio, la logica capitalistica è quella che muove i social e pertanto ci si può espandere fintanto che ci si adegua a determinate richieste. Non a caso, il femminismo di cui molti account o aziende parlano è quello liberal, che decontestualizza la lotta e spesso riporta tutto sul piano della singola individualità. È un femminismo performante e problematico, perché impone un ideale che necessariamente esclude chi non vi aderisce. L’unica soluzione credo sia provare a forzare il sistema cercando, quando possibile, di uscire dalle logiche che ci impone. Provo a fare un esempio: nel libro Cuter afferma che per tanto tempo i social si sono concentrati attorno ad alcune questioni inerenti la rappresentazione del corpo femminile nelle pubblicità. La questione però non è vedere più donne coi peli o più assorbenti rappresentati in modo realistico: la questione è vedere meno pubblicità. Il femminismo resta un movimento politico, i social tendono spesso a escludere questa dimensione ma credo sia importante riappropriarcene, prima possibile.