Il Paradiso degli Orsi

“Almeno una volta desideravo fare un film che mi divertisse da spettatore”. Carlo Mazzacurati

4 / 5 / 2014


Sul set de La sedia della felicità c'era la famiglia di Carlo Mazzacurati. Quella anagrafica, quella artistica, quella del cast tecnico. L'importanza di cercare di costruire ogni volta una famiglia perché così si crea un'atmosfera da cui scaturiscono le emozioni è un ricordo nitido (so di ripetermi) da una lunga conversazione intervista di quasi vent'anni fa, dopo che Il toro fu premiato a Venezia. Con noi c'era Bobo Citran, premiato anche lui. Eravamo nella storica osteria del Ghetto gestita da Alberto, apparizione in più d'uno dei suoi film. Le ombre ce le versava Noki, anche lui con la troupe nell'Est europeo, che allora serviva ai tavoli e in quest'ultimo lavoro è l'aggressivo assistente del “Mago Kasimir”. Se a noi padovani che abbiamo conosciuto Carlo risulta facile identificare sua moglie all'assistenza alla regia, suo nipote tra gli sceneggiatori o sua sorella con la figlia nella scena in pescheria (riconosciamo anche la pescheria) a nessuno del grande pubblico è sfuggito il folto gruppo delle brevi apparizioni amichevoli, magari per solo una o due pose, di quanti degli attori che hanno fatto parte del suo cinema in tutti questi anni. Da Citran a Bentivoglio, Albanese, Orlando, Balasso.

Si sono divertiti tutti. Si vede e si sente. L'apporto del nuovo entrato Valerio Mastandrea non deve essere stato in questo senso indifferente: “una delle persone che più mi fa simpatia”. In un film in cui ha cercato di “riuscire a mettere insieme il senso di catastrofe nella quale sembra stiamo precipitando e l'energia che malgrado tutto si sente nell'aria” si sono divertiti tutti nonostante la malattia che se lo stava portando via e che a tutti era nota. E' difficile eludere questo argomento riflettendo sul suo ultimo lavoro, così come è difficile non trovarvi tracce delle sue scelte di vita. Delle quali la più significativa è forse il ritorno nella sua città dopo un lungo soggiorno romano (“il nordest è nel mio destino”) per poi andare a scegliere un attore che della sua romanità ha fatto una cifra stilistica e che in questo caso lo ha “aiutato a trovare il baricentro del personaggio”, correggendone il linguaggio. Mettendogli accanto la palermitana Isabella Ragonese, grazia sorprendente e determinazione mediterranea, per un racconto scritto prima di ammalarsi, realizzato in una cornice di leggerezza e serenità. Da cui è uscito un film che ha il coraggio e la forza di mettere la felicità nel titolo.

Attorno a un tatuatore e un'estetista che il destino ha portato chissà come a essere dirimpettai in una galleria commerciale di Jesolo (ma potrebbe essere un qualsiasi altro luogo del nordest) Carlo ha costruito la sua poetica di una felicità difficile ma possibile. Bisogna cercarla, volerla. Superando gli ostacoli, sfidando la fortuna, per trovarla magari nascosta sotto la seduta di una sedia in orrendo stile finto-indiano. Una caccia al tesoro. Un gioco. Con il prete-quasi-pope Giuseppe Battiston a dare (grosso) corpo al ruolo della variabile impazzita. Un pretesto per circondarsi dei familiari, degli amici. Per godere del loro affetto. Per parlare di una terra che il tempo ha trasformato: capannoni artigianali divenuti enormi ristoranti cinesi, antiche dimore di campagna in cui scorrazzano i cinghiali tra l'erba alta, negozianti indebitati consegnati al culto del corpo, convention di gelatai attratti dal bisogno di apparenza. Senza che traspaiano critica, giudizio o severità. Al contrario lo sguardo è indulgente, leggero, benevolo. E' più difficile del solito trovare tracce nitide della malinconia cui il suo cinema ci ha in filigrana abituato. Il clima un po' stralunato che si poteva cogliere nel suo ultimo La passione è ancora percepibile, ma stemperato in quell'equilibrio magico che solo le favole sanno trovare. Consegnando ai suoi protagonisti la missione di suggerire che la speranza può essere a portata di mano per chi ha ancora voglia di provarci, di mettersi in gioco.

E' un film lieve La sedia della felicità. Potremmo parafrasare una battuta di Ilvo Diamanti e collocarlo tra Tarantino e Goldoni: non è il film testamento e tantomeno il film postumo di Carlo Mazzacurati. E’ un piccolo compendio sul suo modo di intendere il Cinema, di interpretare il suo mestiere: che genera prodotti magari imperfetti ma mai omologati, certamente non omologabili. E’ un’occasione per riflettere su tutta la sua cinematografia, su quanto ci riguarda da vicino. E’ lo sguardo che a 57 anni e dopo 14 lungometraggi rivolge con tenerezza al suo mondo, a personaggi che danno continuità alla sua vena più solare e ottimista, a un territorio che, nascosta nel coacervo delle proprie contraddizioni, coltiva pur sempre una volontà di riscatto. O almeno così vorremmo tutti. Perché la felicità forse non si nasconde in uno scrigno colmo di gioielli: più probabilmente sta negli affetti, nella solidarietà, nell’amicizia, nell’amore. Possiamo passare dai capodogli dell'Oceano agli orsi delle Dolomiti e trovarla improvvisamente nel silenzio più vicino al cielo. In un tempo confuso e rallentato, mentre i valori propri di questa sua terra sembrano sempre più appannati, ci ricorda le proprietà terapeutiche che vengono dal sognare e dall’avere fiducia nella vita proprio mentre la sua se ne sta andando. Radici russe per una fiaba veneta che mette a valore la sua ironia, la sua voglia di allegria, il suo colto umorismo. Restituendoci l’aria più pulita del nordest ci suggerisce che se esiste un Paradiso degli Orsi è lì che, se vorremo, potremo andare a trovarlo.

La sedia della felicità