Il film impossibile: recensione a La mia classe di D. Gaglianone

17 / 2 / 2014

“Quello che facciamo noi non serve a un cazzo”

La mia classe di Gaglianone è tante cose: è un modo di prendere parola, è un mezzo attorno a cui si annodano dibattiti sulla cittadinanza, sulla migrazione, sul tema dei confini, è una scelta di campo sul tema della produzione e della distribuzione.
Ma, soprattutto e innanzitutto, è un film. Un film decisivo.
Fare un film sui migranti, con i migranti, senza attori professionisti, usando come attori gli alunni di una scuola d’italiano per fare un film su una scuola d’italiano era un rischio enorme: il registro patetico era dietro l’angolo. Il rischio di ammaestrare per la telecamera degli attori improvvisati e commuovere, intenerire il pubblico pagante (“guarda come sono bravi, i nostri amici un po’ speciali”). Raccontare un paio di storie – sceglierle bene – e appagare l’emotività del pubblico con una bella iniezione di indignazione pacificante, di quelle che in fondo ammiccano agli spettatori perché li convincono di possedere una sensibilità unica e diversa (“gli altri, quelli che non sono in sala vedersi questo film, non sanno nemmeno di che parliamo, se stiamo così rovinati è per colpa loro, se tutti loro facessero il loro dovere come faccio io..”).
Per evitare questo rischio Gaglianone sceglie di esibire tutto, continuamente, al limite preferendo la didascalia all’ermetismo.
La prima scena è un lungo avvicendarsi di tecnici del suono che sistemano i microfoni agli alunni, aggiustano le luci di scena, commentano la routine del lavoro sul set.
I momenti che dovrebbero sviluppare forme più immediate di partecipazione emotiva sono tutti ripresi di sbieco, nell’atto del loro montaggio: la lettera che cade casualmente al maestro cade due volte (“così è caduta proprio spontaneamente, ma dovremmo farla cadere spontaneamente un po’ più avanti”), la giovane iraniana che la trova e gliela porta deve ripetere la scena perché la battuta è troppo patetica, invece di assistere al suicidio del ragazzo fermato dalle forze dell’ordine, assistiamo alla scena in cui l’operatore spiega come costruire un cappio in modo sicuro e a favore di camera, con tanto di riferimento all’imbracatura che proteggerà l’attore durante la ripresa (“qui non muore nessuno, è tutto finto”).
Si potrebbe continuare a lungo.
La mia classe ti sbatte in faccia continuamente la sua natura finzionale, senza mai concederti un momento per appassionarti ad una storia, per credere ad un personaggio.
E così anche la scena più citata del film, quella in cui arriva la notizia che uno degli alunni deve essere rimpatriato inderogabilmente, rimane in una zona grigia: è la verità che irrompe sul set e mette fine alle buone intenzioni del regista engagé? O non è forse un trucco per continuare a far inceppare qualunque meccanismo di credibilità, di patto narrativo?
Nel fare questo, il film interroga – per dirla con Foucault – le condizioni di esistenza stesse di quel cinema cui continuamente allude senza mai aderirvi: il cinema civile, impegnato (come si dice).
Perché in realtà, questa società civile, cui il cinema impegnato dovrebbe parlare, che poi prende coscienza delle ingiustizie del mondo e il giorno dopo – forte di un’ora e mezza di lungometraggio – si mobilita per un altro mondo possibile, non esiste.
La società civile è quel club esclusivo, lastricato di bei discorsi sui diritti umani, che di fronte alla brutale materialità della violenza statale (“il permesso di soggiorno è scaduto, gli avvocati non possono fare nulla, a casa e basta”) alza le mani senza troppo impensierirsi: ubi maior, ma poi il film lo facciamo lo stesso vero?
Vediamo questo film perché il film di cui si parla nel film (si perdoni il bisticcio) non è possibile girarlo, non perché viene meno uno studente, ma perché manca un ordine del discorso adeguato a quel progetto. Un ordine del discorso che chiama in causa le condizioni materiali su cui determinati percorsi di senso fanno presa, i rapporti di forza storicamente dati all’interno di un corpo sociale.
L’arte arriva fin lì: fino all’esibizione di questo limite che – nella sua natura posticcia, costruita ad arte – diventa l’atto di sincerità più estrema cui un film del genere poteva accedere.
Il passo successivo è tutto sbilanciato su quel fuori che resta l’impensato de La mia classe, non come faccenda esterna cui la telecamera dovrebbe concedere spazio, ma come faccenda che s’insedia nel cuore stesso del film, poiché da esso è perimetrata, da esso è lambita e quindi prodotta.
Altro non è concesso se non essere tangenziali a questo elemento paradossale, che manca in modo presente ed assillante.
Nel suo non chiudere e non concludere, in questa forza centrifuga, Gaglianone recupera una possibilità estrema d’impegno: “io posso arrivare fino e qui, e fino a qui è la solita merda della borghesia e dei modi in cui prova ad adone stare la sua attività di sfruttamento febbrile, il resto non spetta a me”.
Bisognerà riempire i vuoti, farci i conti tutti: artisti ed attivisti. E questo, probabilmente, rende La mia classe un film di cui avevamo tremendamente bisogno.