Fughe digitali dal controllo

9 / 5 / 2014

Abbiamo seguito costantemente la situazione in Turchia per la libertà d'accesso alla rete. Proponiamo un pezzo da Il manifesto che, intervistando un attivista ed altri ricercatori, propone delle riflessioni inquadrando la situazione turca nel contesto globale.

«Pensi dav­vero che il blac­kout impo­sto a Twit­ter da Tayyip ci abbia messo fuori gioco?» K. quasi si fa scherno di me quando gli domando quali siano state le con­se­guenze del blocco di Twit­ter e You­Tube voluto da Erdo­gan nei giorni che hanno pre­ce­duto le ele­zioni ammi­ni­stra­tive del 30 marzo in Tur­chia. Una mossa che secondo molti aveva l’obiettivo di impe­dire la dif­fu­sione di alcune inter­cet­ta­zioni cir­co­late sui social media, che met­te­vano in luce il diretto coin­vol­gi­mento del primo mini­stro in diversi epi­sodi di cor­ru­zione gover­na­tiva. «Stron­zate» è il suo com­mento lapi­da­rio: «chiun­que in Tur­chia era a cono­scenza di quei leak al momento del blocco».

K. ha poco più di trent’anni e dopo aver giro­va­gato a lungo per l’Europa è tor­nato ad Istan­bul quando Gezi Park è esplosa lo scorso giu­gno. Scam­bio alcune bat­tute con lui davanti alla web­cam e mi rendo subito conto di non avere a che fare con un hac­ker né con un techie (cioè una per­sona par­ti­co­lar­mente incline all’uso delle tec­no­lo­gie digi­tali). Eppure, spiega K., per lui uti­liz­zare un proxy o altri sistemi per aggi­rare la cen­sura in rete «è come met­tere i cal­zini quando mi sve­glio la mat­tina. Ogni set­ti­mana un nuovo sito viene reso inac­ces­si­bile. E ogni set­ti­mana cam­bio la con­fi­gu­ra­zione del mio com­pu­ter, navigo senza troppi pro­blemi e mi fac­cio una bella risata alla fac­cia dell’Akp (il Par­tito per la Giu­sti­zia e lo Svi­luppo che guida la Tur­chia da 12 anni, n.d.a.)».

I luc­chetti a Twitter

Un fatto che, a ben vedere, non dovrebbe destare troppo stu­pore. I rei­te­rati ten­ta­tivi delle auto­rità di Ankara di met­tere il luc­chetto al web non sono certo una novità per il popolo turco. I primi risal­gono al 2007 quando il par­la­mento approvò la legge 5651, impo­nendo alle aziende locali che for­ni­scono con­net­ti­vità di fil­trare i siti web rite­nuti «inop­por­tuni» dalla Btk, l’autorità ammi­ni­stra­tiva delle tec­no­lo­gie d’informazione e comu­ni­ca­zione. Un qua­dro aggra­va­tosi a feb­braio con il varo di un emen­da­mento alla diret­tiva in que­stione, teso ad ampliare a dismi­sura il potere san­zio­na­to­rio dell’authority.

Tut­ta­via, come sovente accade, più la cen­sura stringe il pugno più la sab­bia le sci­vola tra le dita. «Vedere costan­te­mente messa sotto attacco la mia libertà d’informazione — con­ti­nua dice K — è stato ciò che mi ha spinto ad alfa­be­tiz­zarmi da un punto di vista infor­ma­tico. Mi tol­gono un diritto? Io provo a ripren­der­melo». Detta in altre parole, lo stato di cen­sura in cui versa da anni l’infosfera turca ha pro­vo­cato l’emersione di un sapere social­mente dif­fuso che reca in sé gli anti­corpi per bypas­sarla. La riprova si è avuta il 20 marzo: men­tre Erdo­gan in tele­vi­sione minac­ciava di voler «sra­di­care Twit­ter», i muri di Istan­bul e i mani­fe­sti elet­to­rali dell’Akp veni­vano tap­pez­zati di scritte che spie­ga­vano ai cit­ta­dini come con­ti­nuare age­vol­mente a comu­ni­care in 140 carat­teri. Nel frat­tempo cen­ti­naia di migliaia di per­sone sca­ri­ca­vano sui loro com­pu­ter appli­ca­zioni come Hotspot ShieldTor per sca­val­care il muro della cen­sura con pochi click.

«Col tempo, e in par­ti­co­lar modo in seguito ai fatti di piazza Tak­sim, è matu­rata una presa di coscienza col­let­tiva che ha por­tato ad indi­vi­duare la Rete come un campo di bat­ta­glia. Credo sia que­sto — con­clude K. prima di chiu­dere la ses­sione di chat — il vero motivo per cui Tayyip sta cer­cando di ricon­durla sotto il suo con­trollo. Anche se per ora le sue mosse hanno avuto come unico effetto quello di tenere lon­tano da Twit­ter solo i soste­ni­tori dell’Akp».

Stra­te­gie poliziesche

Il «sul­tano» di Ankara quindi ha fatto un buco nell’acqua? La sua vit­to­ria alle ammi­ni­stra­tive sug­ge­ri­rebbe al con­tra­rio che abbia con­se­guito un risul­tato atten­ta­mente pon­de­rato. Seb­bene sia uno sta­ti­sta dispo­tico e san­gui­na­rio, Erdo­gan non è affatto uno stu­pido. Zey­nep Tufec­kci, socio­loga della tec­no­lo­gia di stanza ad Har­ward, ha soste­nuto che il governo turco è sem­pre stato con­sa­pe­vole dell’impossibilità di oscu­rare com­ple­ta­mente le infor­ma­zioni scot­tanti che lo riguar­da­vano. Una tesi con­di­visa anche da Paolo Ger­baudo, ricer­ca­tore presso il King’s Col­lege di Lon­dra ed autore di Tweets And The Streets, libro che ana­lizza le forme odierne dell’attivismo digi­tale. «È impro­ba­bile che gli ultimi attac­chi con­tro i social in Tur­chia aves­sero l’ambizione di pro­durre rica­dute pra­ti­che. Mi pare sia stata piut­to­sto un’operazione di repu­ta­tio­nal damage: un ten­ta­tivo di dipin­gere le reti sociali come spazi in mano a cri­mi­nali ed esa­gi­tati ete­ro­di­retti da potenze stra­niere». Dun­que fango con­tro fango. Una vera e pro­pria cam­pa­gna di dele­git­ti­ma­zione posta in essere con nume­rosi obiet­tivi: scre­di­tare i movi­menti sociali per farli appa­rire come pupazzi mano­vrati da inte­ressi più grandi di loro, deni­grare un sistema di comu­ni­ca­zione che il governo non rie­sce a con­trol­lare, man­te­nere il con­senso nel pro­prio elet­to­rato pro­iet­tando un’immagine di forza e gio­cando la carta anti-imperialista.

Insomma, che la Rete sia un ter­reno di lotta non è una con­sa­pe­vo­lezza esclu­siva dei ragazzi di piazza Tak­sim e la stra­te­gia ela­bo­rata dall’establishment sem­bra con­fer­marlo in pieno. Cen­sura e sor­ve­glianza del resto sono solo alcuni dei tas­selli che la com­pon­gono. L’esecutivo per esem­pio man­tiene un atteg­gia­mento ambi­va­lente verso i social: tol­le­rante con quelli più gene­ra­li­sti e pro­pensi a col­la­bo­rare col governo (come Face­book, lar­ga­mente uti­liz­zato da set­tori della classe media vicini all’Akp), inti­mi­da­to­rio con quelli pre­si­diati dal movi­mento. È il caso di Twit­ter, accu­sata da Erdo­gan – pro­ba­bil­mente non a torto – di eva­sione fiscale e minac­ciata per que­sto motivo di ritor­sioni eco­no­mi­che. Per evi­tare che in futuro possa ripe­tersi un altro blac­kout pro­lun­gato, l’azienda cali­for­niana ha inviato in mis­sione diplo­ma­tica nel paese il vice­pre­si­dente Colin Cro­well con la pro­messa di rispon­dere in modo più sol­le­cito alle richie­ste cen­so­rie avan­zate dalle auto­rità. E in vista di un mag­gio ad alta ten­sione (i sin­da­cati hanno chia­mato una piazza di con­flitto per la festa del lavo­ra­tori, men­tre il 31 sarà l’anniversario di Piazza Tak­sim) l’Akp si pre­para ad intos­si­care la sfera pub­blica di Inter­net con flussi di noti­zie filo-governative: sono 6000 le per­sone assunte nel set­tem­bre 2013 per infil­trare i social media, «con­tra­stare Gezi» e rileg­gere posi­ti­va­mente il con­flitto in Siria. «Di fronte al potere pre­da­to­rio di mul­ti­na­zio­nali e agen­zie di sicu­rezza sta­tu­ni­tensi — afferma Ger­baudo - alcuni paesi stanno cer­cando di con­trol­lare mag­gior­mente la pro­pria eco­no­mia e il pro­prio flusso dati per riac­qui­sire una sorta di sovra­nità digi­tale». Eaggiunge: «Que­sta ten­denza indica una crisi di con­senso della glo­ba­liz­za­zione ed è segno, ad Ankara come in altri stati, di un ritorno dello stato forte che assume dimen­sioni inquietanti».

In Tur­chia la lotta per l’egemonia in Rete si lega a dop­pio filo anche col pos­si­bile svi­luppo del mer­cato delle tele­co­mu­ni­ca­zioni. L’emendamento alla legge 5651 pre­vede l’obbligo per gli Isp locali di tenere trac­cia per due anni delle atti­vità degli utenti, in modo da con­sen­tirne il moni­to­rag­gio al governo. Una misura la cui imple­men­ta­zione non sarà certo indo­lore per molte aziende di media dimen­sione che, costrette a sob­bar­carsi il costo di dispen­diose stru­men­ta­zioni di sor­ve­glianza, rischie­ranno di fal­lire e vedere occu­pato il loro posto da un esi­guo numero di major. All’orizzonte si pro­fila una situa­zione di oli­go­po­lio che non potrà che faci­li­tare l’opera di con­trollo della Btk. Uno sce­na­rio che ricorda su scala ridotta la con­di­zione in cui versa il mer­cato glo­bale dell’Ict (Infor­ma­tion Com­mu­ni­ca­tion Tech­no­logy): a dispetto delle fre­quenti pero­ra­zioni a favore della «libera con­cor­renza», gli attori in grado di fare il bello e il cat­tivo tempo si con­tano ormai sulle dita di una mano. Quello che un tempo era «il net­work dei net­work» è stato tra­sfor­mato in un aggre­gato di pochi super­nodi cen­tra­liz­zati, dotati di enormi poteri e sem­pre pronti a col­la­bo­rare con isti­tu­zioni poli­ti­che e militari.

Prove tec­ni­che di egemonia

Basta la tec­no­lo­gia digi­tale per trac­ciare pos­si­bili vie di fuga da que­sto con­te­sto? «È uno degli ele­menti del cock­tail — sostiene Arturo Fila­stò, gio­vane svi­lup­pa­tore ita­liano di Tor (soft­ware che rap­pre­senta lo stan­dard per l’anonimato on-line) - per­ché può essere uti­liz­zata come stru­mento poli­tico per ridurre l’ingerenza degli stati sulla rete. Non credo però sia la solu­zione ultima: tutt’oggi per­mane infatti una forte dispa­rità sociale tra i cit­ta­dini che hanno le com­pe­tenze tec­ni­che per aggi­rare i sistemi di cen­sura e quelli che invece ne sono sprov­vi­sti». La pensa allo stesso modo Leo­nardo Mac­cari, hac­ker di Ninux​.org, pro­getto dif­fuso in tutta Europa e nato con l’intento di creare dal basso reti comu­ni­ta­rie, auto­ge­stite e neu­trali: «Pen­sare che la tec­no­lo­gia si sosti­tui­sca alle dina­mi­che sociali signi­fica ragio­nare in maniera mino­ri­ta­ria. Crit­to­gra­fia ed ano­ni­mato sono oggi più neces­sari che mai, ma è illu­so­rio rite­nere che siano suf­fi­cienti per elu­dere la sor­ve­glianza glo­bale. L’obiettivo vero– con­clude non è pro­durre uno stru­mento che fun­ziona per l’1% della popo­la­zione di Inter­net, ma ren­derne più demo­cra­ti­che le logi­che che la governano».