"E allora le foibe?", una chiacchierata con Eric Gobetti

7 / 6 / 2021

«E allora le foibe?» è diventato il refrain tipico di chi sostiene il risorgente nazionalismo italico e vuole zittire l’avversario. Mi di cosa parliamo quando parliamo di foibe? Cosa è successo realmente? Ne parliamo con Eric Gobetti, storico italiano, studioso del fascismo, della seconda guerra mondiale, della Resistenza e della storia della Jugoslavia nel Novecento, che mercoledì 9 giugno sarà presente a Schio al Centro Sociale Arcadia.

Arcadia. Il 23 febbraio il Consiglio regionale del Veneto ha approvato la mozione n. 29, “La Giunta regionale sospenda ogni tipo di contributo a favore di tutte quelle associazioni che si macchiano di riduzionismo e/o di negazionismo nei confronti delle foibe e dell’esodo istriano, giuliano e dalmata”, su iniziativa del gruppo di Fratelli d’Italia. Su tale mozione è stato lanciato un appello da parte di numerosi accademici ed istituti storici purtroppo rimasto inascoltato. Oggi sempre Fratelli d'Italia, attraverso il DDL Ciriani che punta alla modifica dell'articolo 604-bis del codice penale, propone una legge volta a sanzionare chi nega il “dramma delle foibe”. Hai segnalato come siamo in presenza di un pericolo per libertà di ricerca e divulgazione storica, perché?

Eric Gobetti. Personalmente sono contrario a qualunque reato d'opinione, e dunque anche all'articolo 604-bis che considera reato il negazionismo della Shoah. Si tratta di fenomeni minoritari, che vanno combattuti con le armi della cultura e della conoscenza, accettando come strutturale che possa rimanere una minuscola fetta di popolazione che non accetta la realtà dei fatti. Punire le opinioni per legge, stabilire una “verità di stato” su qualunque tema è sempre pericoloso: imbriglia la ricerca e limita le libertà individuali. Inoltre c'è sempre il rischio che si voglia imporre per legge una versione dei fatti  puramente politica, che potrebbe non coincidere con i risultati della ricerca storia. È proprio questo il caso. Come dimostra il fatto che io, come la maggior parte dei colleghi che si occupano di questo tema, sono considerato dai promotori di questa modifica di legge un “negazionista delle foibe”.

Non è solo dunque inaccettabile, storicamente e moralmente, assimilare un evento unico nella storia come il tentativo di genocidio degli ebrei europei con un episodio di violenza politica tutto sommato marginale nel contesto della seconda guerra mondiale. Qui siamo di fronte ad un vero e proprio capovolgimento orwelliano della realtà. Viene presentata come “verità ufficiale” una narrazione che non ha quasi niente a che vedere con i fatti reali, basata su pregiudizi (razziali e ideologici), su cifre gonfiate (nel caso della mozione n. 29 della regione Veneto fino al triplo del reale) e sulla rimozione di tutto il contesto storico e geografico in cui i fatti avvengono (e in particolare dei crimini commessi negli stessi luoghi e negli stessi mesi da fascisti e nazisti). Chiunque metta anche solo lievemente in discussione questa “verità” molto parziale viene considerato negazionista. Siamo arrivati al paradosso che lo stesso ideatore del termine “negazionista delle foibe”, lo storico triestino Raoul Pupo, è stato recentemente accusato dello stesso “reato”. 

Ma chi stabilirà per legge chi è negazionista e chi no? I leader e i giornali neofascisti, come avviene adesso? Verrà creata una commissione? E composta da chi, visto che gli storici sono tutti “negazionisti”?  A me pare evidente che gli unici veri negazionisti, in questa vicenda, sono proprio coloro che negano tutto ciò che spiega le foibe stesse, ovvero i promotori della modifica di legge. Se la modifica venisse approvata, la legge dovrebbe allora punire chi “nega” o “riduce” la complessità della vicenda storica delle foibe, non chi la racconta e la spiega correttamente. In galera dunque dovrebbero finire i politici neofascisti, non gli studiosi, come peraltro dovrebbe accadere se venissero applicate le leggi già esistenti contro l'apologia di fascismo.  

A. In un articolo datato 30 maggio de “Il Secolo d’Italia” vieni definito “non uno storico ma un esponente dell’antifascismo militante, ammiratore di Tito, per il quale l’esodo dei giuliani e dalmati fu frutto di una psicosi collettiva”. Ci sono stati anche vari articoli e uscite sui social in cui ad esempio esponenti dell'Unione degli Istriani ti accusavano di "anti-italianità" per aver parlato dei crimini del Regio Esercito Italiano come quelli nel lager di Arbe/Rab. Sembrerebbe che ultimamente, e quanto recentemente accaduto al professore Simon Levis Sullam pare confermarlo, si vogliano squalificare a priori gli studiosi e le studiose "colpevoli" di essere antifascisti o semplicemente riconoscersi nei valori che hanno costituito la Repubblica italiana. Si può dire che tutta questa operazione sia in fondo la logica conclusione di come è stata impostata la narrazione legata al "giorno del Ricordo"? Tutto il discorso sul 10 febbraio sembra avere come vero fine quello di imporre una visione dell'identità italiana come etnico-razziale (si pensi al film Red Land), basata su "Sangue e suolo", anziché sulla condivisione di una cornice valoriale democratica. Concordi?

E.G. Gli attacchi che ho ricevuto, anche molto violenti, al limite della diffamazione, sono tutti pretestuosi. L'esempio della “psicosi collettiva” è esemplare: si tratta di una delle molte cause – non l'unica - individuate dagli studiosi per spiegare il fenomeno dell'esodo. Peraltro la maggior parte di queste aggressioni riguardava la mia persona, non i miei studi o le mie argomentazioni, tant'è vero che molte “stroncature” uscite sui giornali di estrema destra sono arrivate prima ancora della pubblicazione del mio libro “E allora le foibe?”, solo sulla base del titolo. La ragione è evidente: non hanno alcun elemento di critica reale a una ricostruzione storica condivisa da tutti gli studiosi e non gli resta altro che cercare di screditarmi sulla base di una mia presunta appartenenza ideologica. 

Mi ritengono un nemico perché mi dichiaro apertamente antifascista, ed esprimono così, in maniera limpida, il loro posizionamento ideologico. D'altra parte il mio lavoro degli ultimi anni su questo tema ha proprio l'obiettivo, oltre che di ribadire i fatti e riportare la discussione su un piano di realtà storica, anche di difendere i valori della nostra democrazia. Quel tipo di narrazione (è il caso ad esempio del film che citi, Rosso Istria) ha infatti l'obiettivo ultimo di capovolgere i valori fondanti della nostra Repubblica, quelli scritti nella Costituzione per intendersi, presentando i fascisti come vittime e i partigiani come criminali. Intendiamoci, questa è una narrazione di parte, legittima, pur se scollegata dalla realtà, proprio in quanto “opinione” fascista. Ma non può diventare, come sta accadendo, la “verità ufficiale” del nostro paese. Non solo perché è falsa, ma anche perché è contraria ai valori che dovrebbero stare alla base del nostro vivere civile. La situazione quindi è molto grave: si tratta di un'appropriazione da parte neofascista della memoria storica del nostro paese, con l'intento di modificarne i valori fondanti, cambiare i connotati della nostra democrazia. Un processo che va fermato prima che sia troppo tardi.  

A. Dall'Europa giungono segnali contraddittori in merito alle politiche della memoria, da un lato la parificazione tra nazismo e comunismo, dall'altro la Germania che chiede scusa per il genocidio in Namibia e premia un magistrato "cacciatore di nazisti". Cosa si muove nel discorso pubblico europeo e perché da noi in Italia arriva solo il peggio? Ovvero perché a differenza degli altri paesi europei e nonostante i molti e ottimi studi storici sul tema, nel discorso pubblico dominante non si riesce ad andare oltre al mito degli "Italiani brava gente"?

E.G. La mancata “Norimberga” italiana (i processi contro il sistema politico fascista che noi non abbiamo celebrato), la “continuità dello stato” e l'ossessione anticomunista nel dopoguerra, la presenza di un partito politico neofascista fin dal 1946… si potrebbero dire tante cose sulle difficoltà dell'Italia di fare i conti col proprio passato. Certo anche la Germania ha faticato, nonostante tutto, ad esempio a riconoscere i crimini commessi dall'esercito e non solo dai nazisti. Ma il senso di responsabilità di quel paese è assolutamente superiore al nostro, se si pensa che noi non abbiamo mai riconosciuto ufficialmente i crimini commessi in Etiopia o in Jugoslavia, che il peggiore campo di concentramento italiano, quello di Arbe, continua ad essere completamente sconosciuto, e si trova a pochi chilometri dal nostro confine. Tutte le forze politiche hanno approfittato di questa raffigurazione edulcorata della nostra guerra, ma oggi appare evidente come i maggiori vantaggi siano andati proprio a chi era responsabile di quei crimini rimossi.  La narrazione tossica sulle foibe, il mito dei “bravi italiani”, l'oblio dei crimini fascisti stanno favorendo un'egemonia politica e culturale neo-fascista e neo-nazionalista. Quelle forze magari non inneggiano apertamente al duce (anche se sempre più spesso non nascondono le loro simpatie nostalgiche), ma di fatto promuovono un modello politico fascista, basato sulla violenza politica, sull'intolleranza, sull'esclusione, sul primato dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri. 

A. Torniamo al litorale adriatico e ai Balcani. Oggi quei territori sono teatro delle violenze subite dai migranti che risalgono la cosiddetta "Rotta balcanica", e questo avviene non per una semplice decisione delle polizie locali, ma su mandato dell'Unione Europea. Confrontare la storia e il presente fa pensare che la narrazione su foibe ed esodo, tutta incentrata su un'idea di italianità "etnica" e sull'incubo di una "sostituzione di popolazione" sia un elemento che contribuisce alla persecuzione dei migranti di oggi. Pensiamo al fatto che esponenti dell'associazionismo dei cosiddetti esuli istriani, ad esempio Fausto Biloslavo, siano tra i principali responsabili della campagna mediatica contro le ONG nel Mediterraneo o volta a minimizzare gli orrori dei lager libici. In generale la continua contrapposizione tra i migranti di oggi e gli esuli istriani di 70 anni fa è uno degli argomenti più usati dai razzisti. Avverti anche tu questo specifico uso del passato?

E.G. È uno dei tanti corto circuiti di questa narrazione contraddittoria. Ci viene chiesta estrema empatia nei confronti dei nostri profughi di 70 anni fa, che hanno vissuto certamente un'esperienza traumatica, ma che hanno anche goduto di un grande sforzo di accoglienza da parte delle istituzioni, in un contesto generale favorevole dal punto di vista politico ed economico. Ogni anno dedichiamo intere giornate a ricordare la loro tragedia e contemporaneamente ignoriamo ciò che accade qui, oggi, davanti ai nostri occhi: la tragedia di milioni di profughi, che però questa volta scacciamo, respingiamo, imprigioniamo, condanniamo alle peggiori sofferenze se non alla morte. 

Nella migliore delle ipotesi ci viene detto che questi “non sono italiani”. A parte l'assurdità di accogliere o condannare a morte sulla base di una presunta appartenenza etnica (cosa che è del tutto contraria alle leggi internazionali, oltre che al puro e semplice senso di umanità), varrebbe la pena notare che nemmeno gli esuli erano propriamente “italiani”. Su 300.000 persone gli storici hanno calcolato almeno 50.000 sloveni e croati dichiarati. Senza contare tutti coloro (ed erano la maggioranza, dato il contesto di provenienza) che avevano origini miste, sia recenti (un qualche parente slavo, ungherese, tedesco ce l'hanno tutti gli esuli che ho conosciuto), sia più antiche, come dimostrano i cognomi di origine slava, che sono la maggior parte. Lo stesso cognome Biloslavo ne è la prova!