Che cosa succede in Kazakistan? Scontro di classe, accesso alle risorse, contesto geopolitico

Report del dibattito tenutosi sabato 22 gennaio al Laboratorio Occupato Morion di Venezia

25 / 1 / 2022

Sabato 22 gennaio si è svolto al Laboratorio Occupato Morion di Venezia il dibattito "Kazakistan: cosa accade nella più grande delle ex repubbliche sovietiche", a cui hanno partecipato Paolo Sorbello (Università Ca’ Foscari), Maria Chiara Franceschelli (Scuola Normale Superiore) e Giulio Benedetti (dottorando alla Graduate School of Governance, Maastricht University). La discussione, prendendo le mosse dalle proteste di massa che ci sono state in Kazakistan all’inizio del 2022, si è poi allargata ad altre repubbliche ex sovietiche attraversate da momenti di crisi e tensioni, pur senza dare adito a fuorvianti parallelismi.

Video a cura di Sherwood Produzioni.

Per primo è intervenuto Paolo Sorbello, che ha innanzitutto inquadrato il contesto storico, sociale e politico del Kazakistan, spiegando come le proteste, la cui scintilla è stata il rincaro dei prezzi del GPL, abbiano una continuità con la lunga tradizione di disuguaglianze, di emarginazione politica e sociale, di crisi della rappresentanza che il Paese vive dal 1991.

Il Kazakistan è un paese estesissimo, ed è stato prima una colonia durante l’impero zarista, e poi un paese satellite durante il periodo sovietico, nel quale le periferie avevano poca indipendenza. Negli anni ‘80 Gorbaciov nominò un russo come segretario del partito comunista in Kazakistan, cosa che generò moti di protesta, soprattutto da parte della componente studentesca. Ci furono forti scontri di piazza, repressi nel sangue dalla polizia sovietica, ed è in questo contesto che Nazarbayev prese il potere e si mise alla guida della repubblica. Un potere che ha mantenuto anche dopo la caduta dell’Unione Sovietica, con i primi anni di indipendenza in cui si è assistito a una forte crisi economica, dovuta alla mancanza di accordi per lo sfruttamento delle risorse energetiche di cui il Paese è ricco, alle deboli relazioni tra Eltsin e Nazarbayev, e ai forti scompensi demografici, dovuti soprattutto alla fuga di circa 2 milioni di russi.

È all’inizio degli anni 2000 che vengono firmati i primi accordi internazionali per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas. L’ingente flusso di denaro che ne seguì fu un elemento essenziale per il rafforzamento del potere di Nazarbayev e per l’espulsione di tantissimi dissidenti. Il preside kazako si diede cariche molto solenni e importanti, come ad esempio quella di “padre della patria”, un titolo che a livello costituzionale dava a lui e alla sua famiglia l’immunità totale. Decise poi di spostare la capitale e di espanderla con progetti urbanistici creati a sua immagine e somiglianza, ovviamente finanziati con i soldi provenienti dalla vendita di gas e petrolio.

Nel 2010 scoppiarono diversi moti operai a Jañaözen, una cittadina di lavoratori del petrolio che dichiararono lo sciopero a causa delle sempre più precarie condizioni lavorative portate avanti dalle compagnie petrolifere. Lo sciopero si concluse dopo 8 mesi, nel 20° anniversario dell’indipendenza dall’URSS. Il governo, infatti, predispose il montaggio di tende celebrative e palchi proprio nella piazza in cui i lavoratori scendevano in sciopero. Davanti al rifiuto da parte degli operai di abbandonare la piazza, vi fu un confronto forte, ma non violento. Entrano però in campo gruppi più violenti che provocarono un uso della forza indiscriminato da parte della polizia. Fu uno dei momenti più neri nella storia del Kazakhstan, superato solo dalle vicende accadute più recentemente nel gennaio 2022.

Le proteste sono nuovamente iniziate a Jañaözen a causa dell’aumento del prezzo del Gpl, che è molto diffuso in questa parte del paese in quanto carburante più accessibile rispetto alla benzina che è invece utilizzata nella maggior parte del Kazakhstan. Da Jañaözen le proteste si sono espanse in tutto il Paese, nel giro di pochissimi giorni. Le autorità non si aspettavano una tale diffusione, anche perché dal secondo giorno di protesta il prezzo del Gpl era stato diminuito. Tuttavia il vero motore propulsore delle proteste è stata l’insoddisfazione legata alla disuguaglianza, alla marginalità politica e all’insicurezza lavorativa.

Il popolo kazako, infatti, non sceglie i suoi rappresentati attraverso elezioni, per 30 anni hanno sempre avuto lo stesso leader, poi sostituito da un suo stretto collaboratore, mantenendo così sempre lo stesso sistema. Il dover subire l’ennesima decisione da parte di un governo non eletto ha provocato una forte rabbia e dissenso in tutta la popolazione. A ciò si deve aggiungere la pandemia, che in due anni ha provocato forti problemi a livello lavorativo e un drastico calo nella qualità della vita.

Infine, le proteste violente ad Almaty, le cui immagini hanno avuto una diffusione globale, sono frutto di infiltrazioni criminali, di persone appositamente chiamate e portate per distruggere e vandalizzare. Un elemento che è forse servito a gruppi delle élite per creare caos e anche per giustificare la repressione violenta che è stata praticata sin dai primi giorni, quando le proteste erano ancora pacifiche.

Rispetto agli effetti delle proteste sul piano di carattere più eminentemente economico, Sorbello ha insistito sul fatto che, dopo l’avvio del processo di decarbonizzazione in Cina, molte aziende si sono spostate in Kazakistan. Tuttavia questo non ha nulla a che fare con il Gpl, né tantomeno con le criptovalute a cui si è dato un grande risalto nella lettura occidentale – perché queste sono creare con server che utilizzano tantissima energia elettrica, che in Kazakhstan è prodotta soprattutto con centrali a carbone.

Il gas riguarda invece tutta un’altra questione. Vi è certamente un’eccessiva dipendenza da questa industria estrattiva, al punto che in Kazakistan non è stata avviato un processo di decarbonizzazione, e le città sono estremamente inquinate al punto che in alcuni mesi dell’anno diventa quasi impossibile respirare. Il mix energetico kazako è dunque fortemente basato sullo sfruttamento di combustibili fossili, e l’esportazione di petrolio è la più praticata data la maggior facilità nel trasporto. Vi sono infine moltissime problematiche legate alla corruzione da parte delle compagnie petrolifere. Ad esempio, Eni ha moltissimi interessi in Kazakhstan, ed è stata protagonista di alcuni scandali relativi a interessi italiani in questo paese.

Maria Chiara Franceschelli si è focalizzata sul modo in cui queste proteste sono state narrate dai media occidentali, facendo anche alcune comparazioni con le mobilitazioni russe del 2019, 2020 e 2021, che ad esempio hanno avuto una copertura relativamente scarsa.

Il Kazakistan viene avvertito dall’Italia e dai paesi europei come un paese molto distante, non solo geograficamente, ma anche a livello psicologico. E questo nonostante il fatto, ad esempio, che l’Italia sia il primo paese importatore di materie dal Kazakistan, dato che l’Eni importa principalmente da quel paese. Anche gli Stati uniti o altri paesi dell’Europa sono economicamente molto legati al Kazakistan, ed è difficile portare narrazioni complesse ed esaustive nel momento in cui tanti stati sono legati strettamente a tale Paese.

In realtà ci siamo trovati di fronte a un evento molto complesso, che ha radunato una molteplicità di persone senza precedenti, ma allo stesso tempo non è stato rivendicato da nessuna forma partitica o di movimento che lo ha fatto proprio. Queste proteste sono arrivate come una risposta all’aumento dei prezzi del Gpl, ma è apparso subito chiaro come si iscrivessero in una situazione generale di diseguaglianza e in un mancato accesso della popolazione alle risorse che il paese produce. Diseguaglianze che sono frutto della gestione di uno Stato corrotto e della gestione di determinate aziende extra statali.

Questo tipo di narrazione è stata completamente omessa dai media occidentali. Una cosa simile è accaduta alle proteste che hanno attraversato la Russia negli anni passati, scoppiate quando il leader dell’opposizione Navalny è tornato nel Paese dopo oil suo avvelenamento avvenuto in Germania. La narrazione che si è data ineriva ad una concezione etica delle proteste ed è stata strumentalizzata in maniera molto sensazionalistica. Ad esempio nella narrazione più occidentale si sentiva spesso che le proteste fossero ispirate alle democrazie liberali occidentali o europee e questo è un errore molto importante, semplicemente per il fatto che Navalny ha avuto spesso posizioni antieuropeiste.

Maria Grazia Franceschelli ha sottolineato come ci sia qualcosa che viene sempre glissato: l’elemento di classe. Sebbene Navalny non sia stato in grado di coinvolgere persone di diversi strati sociali della popolazione, anche nel caso russo il discorso di classe è centrale, è legato alle sofferenze che un popolo ha dovuto attraversare, ad anni di diseguaglianza. Per certi versi questo elemento si presta meno alle narrazioni sensazionalistiche o etiche, come ad esempio quella di “un popolo contro un tiranno”.

Anche Giulio Benedetti ha insistito sul tema delle narrazioni, e in particolare sul fatto che l’informazione giochi un ruolo fondamentale in questo tipo di crisi, in particolare nei loro risvolti di carattere geopolitico. Il suo intervento si è focalizzato sulla crisi in atto lungo il confine russo-ucraino.

Quello che colpisce, in questo caso, è il fatto che questa crisi non venga trattata in termini di “eccezionalità” dai media ucraini, anche perché lo stesso presidente ucraino Zelens'kyj l’ha definita di recente in termini di “normale amministrazione” all’interno dei rapporti tra Russia e Ucraina. Secondo Benedetti, sul campo non esiste una possibilità concreta che si apra un conflitto completo: la nasce con la questione del gas (vedi l’aumento prezzi in Europa), ma si sono sommate una serie di cose più ampie che riguardano la cosiddetta “transizione verde”, la chiusura di numerose centrali in Germania, e in generale la ripresa post-Covid. Il Cremlino da tempo sta esercitando pressioni per sbloccare la costruzione del grande gasdotto North Stream 2, al quale si oppongono molti Paesi, in primis l’Ucraina.

Per controbilanciare questa pressione, l’Ucraina ha fatto dei passi in avanti per entrare nella NATO, e i centomila soldati schierati da Mosca sono un’ulteriore contromossa. Allo stesso tempo gli Stati Uniti stanno cercando di enfatizzare quanto sta accadendo, per entrare a loro volta nella partita.

La questione della NATO è legata anche a quanto sta accadendo nel Donbass, a cui sono legate la maggior parte delle sanzioni economiche sulla Russia, che vive su questo una situazione molto contraddittoria, perché da un lato ha interesse alla chiusura del conflitto, dall’altro il mantenimento del conflitto impedisce all’Ucraina di entrare nella NATO.

Infine c’è un ultimo aspetto che riguarda la politica interna ucraina, dove i due leader dei principali partiti di opposizione sono agli arresti: c’è una situazione molto tesa e la presenza delle truppe vuole mettere pressione all’opinione pubblica ucraina.

Giulio Benedetti ha infine posto una domanda a Paolo Sorbello sul fatto che la “narrazione neoliberale” abbia interpretato le proteste in Kazakistan sotto tre aspetti: in chiave di conflitto etnico tra popolazione kazaka e quella di origine russa; come lotta tra élite; come frutto dello sviluppo di movimenti civici che potessero dare inizio a una nuova “rivoluzione colorata”. Viene completamente sottaciuta la dimensione di classe di questa protesta che, secondo Sorbello, è molto presente in queste e in altre proteste passate che ci sono state nel Paese, che hanno visto come protagonisti i lavoratori del petrolio. Il problema degli sbocchi delle proteste in Kazakistan consiste nel fatto che le istanze di giustizia sociale ed economica dei lavoratori non possono essere raccolte dai sindacati, che sono stati fortemente depotenziati negli ultimi anni dalle riforme che hanno completamente stravolto il diritto del lavoro.