Biocidio o zoocidio? Un punto di vista postumano sulle lotte ambientali

9 / 4 / 2014

Il Postumano è un testo che tende paradossalmente alla completezza, se per completezza intendiamo il fatto  che non la fa buona a nessuna incarnazione della storia dell'universale maschile, a nessuna delle manifestazioni della costruzione meticolosa della tara umanista, quella tara che ha organizzato la gerarchia delle forme di vita, delle specie , delle storie, dei generi, delle scienze, etc.

 E' un testo che va letto valorizzando una prospettiva situata, facendone un suo attento, in modo da metterne in luce i tratti più efficaci. Proprio a partire dalla politica del posizionamento, così efficace anche per prendere parola su un testo, vorrei proporre degli spunti di riflessione che muovono dalla relazione tra il Postumano ed il divenire terra, affondando questa nell'immediata attualità politica della devastazione ambientale campana. Non è affatto una forzatura se si parte dall'assunto per il quale il testo di Braidotti scandaglia profondamente la morfologia della vita qua vivimus contemporanea e questo e'  d'altra parte  il territorio su cui alcune donne ed alcuni uomini che lottano da anni contro la devastazione ambientale, a seguito di uno straordinario accumulo di conoscenze e di saperi vivi e collettivi,  hanno coniato un termine, che ha molto a che fare con la vita e la morte e con il confine tra umano e postumano. Questo termine è biocido e la necessità di conferire potere dirompente alle parole, di mettere al centro la forza del significante, ci impone di confrontare questo lemma spregiudicato ed efficace con una prospettiva pienamente postumana.

Per farlo attraversiamo diagonalmente e non neutralmente il testo di Braidotti,  che per vocazione e per scelta dei temi si colloca comodamente in mezzo alle contraddizioni, sulle barricate della teoria critica, in modo che possa servire da spunto analitico per chi si è interrogato correttamente sullo sterminio sistematico di tutte e forme di vita che abitano questo ed altri territori, inventando per questo sterminio un termine ad hoc.

E' innanzitutto evidente che pure se il riferimento esplicito e' al Bios, l'attacco a cui i movimenti fanno riferimento riguarda più correttamente la vita che chiamiamo Zoè, la vita qua vivimus appunto, non, s quella qualificata, quella della relazione, quella degli  affetti, della comunicazione. E' evidentemente e più correttamente uno zoocidio quello a cui troppo spesso i territori delle periferie del pianeta vengono sottoposti loro malgrado, in cui è già di fatto coinvolto quel soggetto postumano "che è un 'entità trasversale che comprende l'umano, i nostri vicini genetici animali e la terra nel suo insieme”. Investita nei processi di devastazione e saccheggio messi in opera dalla furia delle nuove accumulazioni originarie, e' una soggettività che stringe insieme l'umano e l'inumano ed in cui l'eterna coppia natura cultura  e' sciolta in un continuum indistinto. Mettere al centro dell' attacco il Bios rischia di operare una centralizzazione dell'antropos che è già sempre smentita dallo scenario  catastrofico in cui si trovano immersi questi territori e che ha invece   molto più a che fare con la dimensione postumana di cui ci dice l'autrice. Parliamo di intere aree agricole contaminate, cibo portatore di cancro ed altri morbi, animali nati già modificati, creature mostruose che palesano la drammaticità della contaminazione dei terreni, incremento della diffusione del cancro con percentuali paragonabili a quelle dei disastri nucleari. Il privilegio dell'umano non ha ragione d'essere neppure pensato. Coinvolta nel disastro  è tutta la soggettività, non solo quella umana. Non è' probabilmente un caso che proprio a proposito della relazione tra postumano e divenire terra venga citato un autore fondamentale per gli studi postcoloniali indiani, Dipesh Chakrabarty, che certamente non a partire da un posizionamento consapevolmente postumano, ma certamente da presupposti antistoricisti ed estremamente polemici con l'egemonia coatta del soggetto bianco maschio e universale, si interroga sulla crisi ecologia e sulla posizione geocentrica che ne deriva. Non è un caso perché i sud, intesi come territori politici dello sfruttamento e del saccheggio, vivono un'eterna prossimità con le forme plurime della necropolitica messa in campo dal neoliberalismo e con la soggettività meticcia, scalzata dall'umano, declassata ad alterità negativa. L'aggressione multilaterale alla biosfera, all'ambiente, al clima, alla sopravvivenza di alcune specie impone quindi  l'assunzione di una diversa dimensione spazio-temporale , seconda la quale vita e morte dell'antropos non sono più due punti eccezionali su una linea retta sempre autocentrata, bensì punti indifferenziati dentro una processualità che li prescinde. Questo tanti movimenti in difesa dei commons l'hanno capito molto bene e si muovono già secondo uno sguardo che Braidotti definisce quello del  materialismo vitalista, un materialismo in debito con Spinoza,  non spaventato dalle trasformazioni postumane, slacciato dalle nostalgie, proiettato nel presente senza sentori di apocalisse, senza rigurgiti tecnofobici e senza vezzi olistici.

Braidotti  facendo a più riprese  riferimento alla rilettura spinoziana di Deleuze e Guattari, intende il postumano dal punto vi vista di un egualitarismo zoocentrato, un caos produttivo che si muove dentro la disomogeneità delle forme di attacco, estrazione o semplice trasformazione di zoé. Sono convinta che l'occasione dentro al caos l'abbiano ben intuita le donne e gli uomini che si battono quotidianamente ,su questi territori e non solo, contro il disastro ambientale. Senza entrare nel merito quantitativo dell'incremento della mortalità, i dati incarnati dalla storie ci restituiscono il quadro di una comunità che ha completamente modificato il focus della battaglia politica. La caducità della vita di ogni abitante ha fatto sì che la prospettiva della battaglia contro il biocidio fosse da sempre una battaglia non antropocentrica,  il cui rifiuto per una visione ancorata a quella dell'individualismo umanista e' effettivamente rafforzata anche dalla massiccia presenza di componenti femminili e complessivamente subalterne. La cifra materialista che abbiamo sempre individuato dietro queste battaglie è  evidente dalla denuncia continua e chiara della selezione coatta delle frontiere della valorizzazione che, nelle molteplici fasce di subalternità, scelgono terreni diversi e sempre più prossimi alla messa in discussione della sopravvivenza di Zoe' . Il valore che il capitale stesso ha attribuito alla vita palesa la cartografia di questa stessa diversificazione: mentre intere zone  vengono lasciate morire in nome di un modello di sviluppo che prevede il sacrificio delle stesse forme di vita a causa di un avvelenamento criminoso della biosfera (basti pensare a quello che i territori del sud Italia hanno patito e stanno patendo a causa dello smaltimento illegale dei rifiuti industriali), su altre zone si immagina che la vita stessa possa essere l’oggetto migliore sul quale accumulare il plusvalore smarrito, magari attraverso l’avanzamento di tutte le branche della ricerca che prevedono la modificazione dei cicli biologici. Insomma, se è vero che non tutti hanno goduto dell'accesso alla tara normativa umana, ma anzi troppi hanno sofferto l'imposizione di un'alterità qualitativamente negativa, è vero che l'era post-umana oggi presenta una cartografia disomogenea, come Braidotti stessa afferma  quando invita a tenere conto dell'immanenza radicale della collocazione.

Se è probabilmente vero, come si legge nelle ultime ultime pagine del testo che  la nozione di postumano deve slacciare il proprio statuto dai post della contemporaneità in modo da evitare completamente l'afflizione, il lutto e il  posizionamento disperante, e' però altrettanto vero che proprio un posizionamento materialista non può perdere di vista la modalità sempre fluida e sempre multiforme con cui il capitale stesso mette in atto quella che Melinda Cooper (ne La vita come plusvalore) descrive come modalità di valorizzazione anti-fondazionistica, volta cioè al superamento di tutti i limiti retroattivi alla relazione di profitto. Questo sguardo garantisce la spiegazione della continua mutevolezza dei luoghi e dei modi della valorizzazione e fornisce alcuni strumenti teorici per evidenziare la suddetta disomogeneità e fluidità. Il capitale fa i conti con gli ostacoli imposti dai sommovimenti sociali, dalla storia delle istituzioni politiche, dalla performatività degli attori economici di ogni territorio e di ogni epoca storica. L'individuazione di questi limiti è esattamente il punto di frizione su cui l'etica post-umana diventa politica affermativa.

Ecco perché se è vero, come si dice nelle ultime battute di questo viaggio attraverso a vita oltre la specie, l'individuo e la morte che l' etica nomade esige un'elevata potenza visionaria o un'energia profetica che non può essere evidentemente rintracciata in nessuna etica del soggetto eroico rivoluzionario, allora il cerchio si chiude e si spiega facilmente il motivo per cui il postumano ha a che fare soprattutto con i movimenti in difesa dei commons. Innanzitutto perchè se è  vero che un'uscita assoluta e completa dai retaggi umanisti è assai complicata e le  litanie nostalgiche sono nascoste dappertutto, pronte a tendere trappole concettuali di ogni tipo,  è altrettanto vero che  i sommovimeti sociali, quelli che si muovono dentro la società politica  così definita sempre dagli stessi post colonial studies, rappresentano una forma di esodo efficacissimo dall'universalismo umanista. Osservando dall'interno il tessuto degli stessi, viene da porsi alcune  domande, a mio avviso già immediatamente postumane: chi si muove, quale soggettività nomade agisce?  Come questa soggettività investe il proprio corpo?  A quali rischi profondi e non autocentrati lo espone?   Rispondere a questi quesiti  correttamente ci mostrerà come alcune pratiche politiche collettive stanno già da tempo sconfinando l'angusto perimetro della soggettività umana, in senso conflittuale, oltre la visione pacificata che confonde il contiuum natura cultura con una visione olistica ed inefficace. L'etica nomade e postumana,  come scrive l'autrice nelle conclusioni, ha certo bisogno di una trasformazione profonda dei comportamenti quotidiani,   necessaria innanzitutto a definire la trasformazioni del proprio posizionamento sul pianeta ma evidentemente questa non basta. Essa per non essere confusa con un'etica descrittiva o precettiva  deve assumere una dimensione  collettiva e dunque immediatamente politica, non come  non la sommatoria di singolarità  piene di confine ma come come coacervo di soggettività interconnesse e decentrate, finalmente non normate.