Basaglia e le metamorfosi della psichiatria. Recensione del libro di Piero Cipriano

25 / 7 / 2022

Piero Cipriano è psichiatra di stampo cognitivista ed etnopsichiatra. Lavora in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura a Roma, ed è promotore della campagna “E tu slegalo subito”, per abolire la contenzione meccanica nei servizi psichiatrici.

In questo libro, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, uno dei tanti che ha pubblicato per Eleuthera, ripercorre la storia della psichiatria dal ‘600 ad oggi. Al centro ci sono Basaglia e tutti gli psichiatri e gli operatori che hanno lavorato con lui, e che hanno posto le basi per la legge 180. Ma, come racconta con una precisione e una chiarezza disarmanti Piero Cipriano, la 180 non sempre basta: oggi ci sono nuove gabbie, nuovi manicomi contro cui combattere è sempre necessario. Necessario, ma incredibilmente difficile.

Breve storia della psichiatria

Tutto inizia nel ‘600, in Francia: a Parigi viene costruito un grande ospedale, il Grand Hopital General, dove, come ricorda Foucault in Storia della follia, vengono chiusi tutti i devianti. Chi sono questi devianti? Criminali, folli, alcolizzati, omosessuali, prostitute, dissidenti politici.

Arriviamo al ‘700: il filantropo Philippe Pinel divide criminali da folli, creando il carcere e il primo manicomio. Più che un ospedale il manicomio è un carcere a vita in cui vengono tentate terapie che alla fine hanno il solo obiettivo di rendere tranquilli gli internati (lobotomia, inoculazione di malaria, elettro schock, legacci e botte): i prossimi 150 anni saranno dominati dal concetto “il manicomio è terapeutico”. L’isolamento diventa la pratica terapeutica per eccellenza, perché secondo Pinel l’equilibrio psichico si recupera solo standosene a parte protetti da ogni relazione (penso che nessuno meglio di noi sappia abbia esperito e quanto questo sia tendenzialmente sbagliato, dopo un lockdown che ha devastato la salute mentale di tutti e tutte).

L’isolamento serve poi per diagnosticare, studiare, categorizzare con etichette, etichette che vengono perfezionate sempre più nei decenni, fino ad arrivare a distinguere (nel 1883 con l’opera di Kraeplin) le follie che guariscono, ovvero quelle dell’umore, la follia maniaco-depressiva, da quelle che non guariscono, le follie cognitive, la dementia praecox. E i malati a cui viene diagnosticata quest’ultima vengono internati per sempre, senza possibilità di guarigione a priori. I manicomi aumentano sempre di più, gli internati aumentano esponenzialmente. In Italia, negli anni Sessanta, sono 100.000.

In Italia la prima legge sui manicomi è del 1904, cito: «Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose per sé o per altri o riescano di pubblico scandalo». Pericolosità e follia vengono confuse, accostate, diventano la stessa cosa. Come follia e miseria. Chi sono coloro che riescono di pubblico scandalo? I miserabili. E Basaglia renderà centrale il discorso sulla miseria all’interno del suo lavoro, all’interno di tutti i suoi scritti. È inutile curare, proporre terapie ad un internato in manicomio, se ciò che ti chiede sono dei soldi per comprarsi qualcosa e un posto in cui vivere. Bisogna combattere la miseria, prima di combattere la follia. In manicomio non vengono internati semplicemente i folli, ma vengono internati i miserabili, i poveri, coloro che devono essere allontanati dalla società.

Anni ’50: finalmente alcune molecole donano autorità agli psichiatri, i medici più “sfigati”, come li descrive Cipriano, fino ad allora perché la loro arte era basata su nessun fondamento scientifico. Antipsicotici, antidepressivi, ansiolitici e stabilizzatori dell’umore sembrano dare una soluzione ai maggiori disturbi.

Negli anni ’60 viene messo in discussione il manicomio come istituzione. Non è la prima volta in assoluto che succede, ma sicuramente la prima volta che questo dibattito supera i confini dei pochi addetti ai lavori interessati, in particolare in Italia. I protagonisti di questa storia sono Franco Basaglia e gli altri medici e operatori del suo team: Antonio Slavich, Lucio Schittar, Agostino Pirella, Domenico Casagrande, Leopoldo Tesi, Giorgio Antonucci, Maria Pia Bombonato, Giovanni Jervis e Letizia Jervis Comba.

L’esperienza di Gorizia mette al centro il paziente, che diventa vero direttore del manicomio, di fatto. Basaglia, come racconta ad esempio in Conferenze Brasiliane, si era reso conto che il rapporto di dominio, di potere, che esisteva tra paziente e psichiatra non poteva essere terapeutico in nessun modo. Non c’era reciprocità. Bisognava scardinare quella dinamica. E lo fa spogliandosi del camice e impostando il lavoro in manicomio su riunioni e assemblee. Riunioni con lo staff, riunioni tra gli infermieri, e soprattutto, cardine di tutto, l’assemblea generale, in cui pazienti, psichiatri, infermieri, anche persone esterne erano esattamente sullo stesso piano, e tutti e tutte insieme discutevano sul futuro e sulla quotidianità del manicomio.

A Trieste, qualche anno dopo, Basaglia metterà in atto quella che poi diventerà la legge 180. Fonda i CSM, i Centri di Salute Mentale, i servizi territoriali indispensabili per svuotare i manicomi continuando a seguire i pazienti, gruppi appartamento, molte cooperative sociali, pochi ospedali e centri di crisi. Dallo slogan “il manicomio è terapeutico” si passa a “la libertà è terapeutica”.

I manicomi moderni

Scrive Antonello Sciacchitano, un grande psichiatra e matematico: “Aprire i manicomi e liberare i folli in quanto persone è stata una lunga battaglia. Aprire il DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico, e liberare le persone dalle etichette diagnostiche e dal farmaco che pressoché inevitabilmente consegue all’etichetta, sarà un’impresa molto, ma molto più ardua”.

Qui si parla di due aspetti fondamentali nella psichiatria d’oggi.

Primo punto: Piero Cipriano, nel suo libro, chiama gli psicofarmaci il manicomio 2.0, il manicomio chimico. Se inizialmente le sostanze come la clorpromazina o il clordiazepossido sono state un aiuto fondamentale per aprire i manicomi, sono diventati poi una nuova iatrogenia, ovvero sostanze che creano nuovi malati. Cipriano riporta alcuni studi, anche di decenni fa, poi dimenticati o ignorati, sull’effetto iatrogeno di alcuni psicofarmaci. Un esempio su tutti, il “banale” Valium, benzodiazepina, un blando ansiolitico, che se non prescritto nelle giuste dosi e nei giusti casi, provoca sindrome di astinenza con caratteristiche psicotiche e di profonda depressione. Che viene poi interpretata come disturbo depressivo maggiore o disturbo bipolare, aprendo le porte a farmaci ben più pesanti.

Secondo punto: le problematicità della diagnosi. Il DSM, giunto alla sua V edizione, è il Manuale Diagnostico Statistico redatto dall’American Psychiatric Association. Purtroppo, come disse anche Allen Frances, psichiatra a capo della task force del DMS-IV, i criteri diagnostici del Manuale hanno abbassato la soglia di molte diagnosi, creando un numero elevatissimo di falsi casi psichiatrici, con il risultato di medicalizzare una fetta di popolazione che prima sarebbe stata considerata sana e quindi di prescrivere sempre più psicofarmaci. Si parla quindi di “patologizzazione della normalità” e di disease mongering, ovvero inventare malattie per vendere farmaci.

Esemplare è il caso di quella che Cipriano chiama “epidemia della depressione”, di cui individua tre cause: la società della prestazione che crea stanchezza e porta i lavoratori, imprenditori di sé stessi, al burnout; gli psichiatri e i manuali diagnostici che chiamano questa stanchezza depressione (i criteri diagnostici per un disturbo depressivo sono, tra gli altri, umore depresso, affaticamento, perdita o aumento di peso, insonnia o iperinsonnia, etc. Tutto questo deve persistere per sole due settimane); terza causa, gli antidepressivi, che dovrebbero essere una soluzione invece per lo più si rivelano una trappola, se non vengono prescritti e scalati poi nel modo giusto.

Piero Cipriano non ci dà delle soluzioni, ma ci dà un po’ di speranza, anche con le interviste e gli interventi che troviamo a fine libro, testimonianze di esperienze nuove e rivoluzionarie nell’ambito della psichiatria. Ci dà un po’ di speranza perché ci dice che sì, il mondo della psichiatria è un mondo difficile, che sopravvive con pochi fondi, la 180 esiste ma spesso non basta, eppure ci sono degli operatori che qui e lì portano avanti ciò che ha fatto Basaglia, calando i suoi insegnamenti e le sue esperienze nei contesti di oggi.

Basaglia è stato un faro, io oserei dire che è stato un grande militante, perché cosa c’è di più disobbediente che aprire uno spazio, dialogare con la comunità, usare lo strumento dell’assemblea per restituire dignità e autodeterminazione ai pazienti? Penso che la sua storia, ciò che ha fatto ci possano insegnare molto, e che ci possano dare degli spunti per parlare di un tema, quello della malattia mentale, che non sempre abbiamo gli strumenti e le capacità per affrontare.