Yemen - Anatomia del caos

30 / 6 / 2011

Due interventi chirurgici al cranio non sono bastati a convincere Saleh a rinunciare alla propria carica e a seguire le orme degli omologhi Ben Ali e Mubarak, almeno per il momento. Il presidente yemenita si trova infatti a Riyad, convalescente all’interno di una struttura ospedaliera, a causa delle ferite riportate dopo che un razzo aveva colpito il suo palazzo presidenziale a Sana’a il 3 giugno scorso. Nel frattempo nel paese regna il caos.


Se a febbraio le manifestazioni erano in larga parte animate soprattutto da giovani (studenti universitari e non) esasperati dalle condizioni economiche e sociali del paese, da marzo in poi - in particolare dopo la defezione del generale Ali Moshen al Ahmar - la dinamica delle proteste ha iniziato ad assumere i connotati di una vera e propria guerra civile. Al momento la situazione è tutt’altro che quella di una contrapposizione piazza/palazzo: le istanze di democrazia e libertà che avevano trascinato i semplici cittadini in piazza sono state oscurate dalle lotte di potere tra opposte fazioni, tutte appartenenti all’élite del paese e divise tra loro in base a criteri di appartenenza clanica e tribale. La protesta che aveva invaso le strade dello Yemen all’inizio dell’anno, ispirata dai movimenti nordafricani, si è quindi lentamente trasformata in una guerra di palazzo.


Prima di lasciare il paese per l'Arabia Saudita, Saleh aveva temporaneamente delegato le proprie funzioni al vicepresidente, Abed Rabbo Mansour Hadi. Ma la vera partita per il potere sembra si stia giocando tra i discendenti di Saleh e i quelli di Abdullah bin Hussein al Ahmar. Quest’ultimo, morto nel 2007, aveva contribuito a fondare il partito di opposizione di stampo islamista al Islah ed era a capo di una delle maggiori confederazioni tribali del paese. Il momento di frattura più importante tra i due gruppi si è avuto quando Saleh, dopo giorni di trattativa presieduti dal Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc) in cui si era mostrato disponibile a una transizione, all’ultimo momento si era rifiutato di firmare l’accordo, in base al quale - stando a quanto diffuso da fonti giornalistiche - si sarebbe dovuto dimettere entro 30 giorni dalla sottoscrizione del documento.


All’interno della famiglia al Ahmar due individui potrebbero giocare un ruolo decisivo: Sadiq, capo della confederazione tribale Hashid, una delle più importanti e Hamid, uno dei principali uomini d’affari e uomo politico. Di quest’ultimo, in un cablogramma dell’agosto 2009 poi reso noto da WikiLeaks, l’ambasciatore americano in Yemen Stephen Seche annotava l’impressionante livello di “ambizione, ricchezza e potere tribale, una combinazione esplosiva”.


Nonostante quanto diffuso soprattutto dai media statunitensi, la formazione di al Qaida presente nel paese (Aqap) non sembra stia svolgendo un ruolo particolare nella gestione della crisi. Di sicuro lo Yemen sembra il paese perfetto su cui scommettere per l’organizzazione terroristica: la frustrazione per la drammatica situazione economica e la convivenza quotidiana con una massiccia dose di violenza favoriscono l’adesione della popolazione locale a gruppi terroristici, quindi ad Aqap. Ma va detto che, almeno per il momento, quest'ultimo rimane soprattutto il meccanismo vincente per sfruttare le paure dei paesi occidentali a proprio vantaggio.


Uno spauracchio che viene agitato di fronte agli occhi terrorizzati in primis degli americani, disposti a spendere denaro per liberarsi dalle proprie paure. La lotta ad al Qaida rimane anche un mezzo di legittimazione del potere, ma il fatto che Saleh abbia usato i fondi Usa ottenuti in questo modo per altre finalità (vedi la guerra contro gli Houthi) non lo ricorda quasi nessuno. Il 9 giugno Leon Panetta ha parlato a una commissione del Senato Usa dell’intensificazione degli sforzi antiterrorismo in Yemen, Somalia e Nord Africa, mentre a metà giugno il Wall Street Journal e il Washington Post hanno diffuso la notizia che l’amministrazione Obama aveva autorizzato la Cia e il Comando operazioni speciali dell’esercito a intensificare la caccia ai leader di al Qaida in Yemen, prevedendo anche l’utilizzo di droni Predator.


A essere preoccupati dal caos che regna all’interno del territorio yemenita, però, non sono solo gli Usa. Una massiccia dose di inquietudine proviene anche dall’Arabia Saudita, che per anni era riuscita a tenere a bada proprio la rivalità tra gli al-Ahmar e i Saleh. Non a caso Riyad si era prodigata in sforzi diplomatici per indurre il Gcc a proporsi come mediatore, sperando di assistere il prima possibile a una transizione di potere. Ma dovrà rassegnarsi, perché la situazione a Sana’a torni sotto controllo c’è ancora molto da aspettare.