Volevano conquistarci, non sapevano che eravamo resistenti

A 500 anni dalla caduta di Tenochtitlán, gli zapatisti e migliaia di “insumisos” d’Europa marciano a Madrid: “no nos conquistaron”, non ci avete conquistati!

16 / 8 / 2021

Sotto un sole cocente e un caldo da far ricordare la Selva Lacandona, lo Squadrone 421 è arrivato a Puerta del Sol, il salotto buono di Madrid, dando inizio alla marcia “no nos conquistaron” con cui gli zapatisti hanno voluto celebrare il 500° anniversario della caduta di Tenochtitlán, che per il mondo occidentale è il simbolo della sottomissione delle popolazioni indigene ma che per queste ultime è invece uno dei simboli dell’inizio della resistenza alla violenza dei conquistatori europei.

Ad abbracciarli la Madrid ribelle e resistente, insieme alle tante altre geografie che non hanno voluto perdersi questo appuntamento con la storia. Sono le Slumil K’ajxemk’op di questa povera Europa ferita e corrotta dal sistema capitalista, che non trova posto per “far danzare i cuori”, ma solo per riempire le tasche di quel maledetto 1% che ha devastato la casa di tutti, il pianeta Terra, e costretto a vivere tra miseria e violenza i suoi abitanti. Almeno duemila persone hanno applaudito, cantato, si sono emozionate all’arrivo in piazza della delegazione marittima zapatista. E forse, qualche lacrima è pure scappata pensando all’enorme sforzo organizzativo collettivo e individuale degli zapatisti per compiere questa “folle” impresa.

A Puerta del Sol lo Squadrone 421 è salito su un carro-veliero e il corteo è partito subito alla volta di Plaza de Colón, piazza ripresa alle destre spagnole che storicamente la utilizzano per i loro comizi; la marcia, partecipata, gioiosa e colorata, ha attraversato il centro di Madrid tra canti, balli e slogan dietro al veliero guidato dallo squadrone zapatista. In Plaza de Colón poi le parole di Bernal, Felipe, Lupita, Carolina, Ximena, Yuli y Marijose, in una delle «poche volte che faremo uso della parola in un atto dove in pochi parlano e in molti ascoltano». Perché 500 anni dopo la caduta di Tenochtitlán, gli zapatisti non sono venuti qui per conquistare, dominare, uccidere, rubare la terra, sono venuti qui per ascoltare e apprendere dalle resistenze locali, sono qui per tessere alleanze, perché l’idra capitalista ha molte teste ma è lo stesso identico mostro che ci opprime, si chiami “tren maya” in Messico o Tav in Valsusa, si chiami estrazione mineraria in qualche angolo nascosto dell’America Latina o occupazione militare in Palestina, si chiami guerra in Siria o difesa dell’economia nel mondo occidentale. Cambiano i “capataces”, insomma, a volte sono autoritari e violenti, altre volte più democratici e umani, ma la sostanza cambia poco e il padrone resta sempre lo stesso: il sistema capitalista.

Il primo a prendere parola è stato Bernal, compagno di lungo corso che in molti hanno avuto il piacere di conoscere con le carovane in Chiapas, essendo il responsabile dell’accoglienza dei “brigadistas” nella propria comunità. A Bernal, che è anche rappresentante della Junta de Buen Gobierno, il compito, a nome delle comunità zapatiste, di “ringraziare chi ci ha invitato. Ringraziare di averci ricevuto. Ringraziare di averci ospitato. Ringraziare di averci dato da mangiare. Ringraziare di esservi presi cura di noi».

Felipe ha invece denunciato come lo stato messicano, che ha invitato quello spagnolo di chiedere perdono per la conquista di 500 anni prima, è lo stesso stato che ha posto numerosi ostacoli burocratici e razzisti non concedendo i documenti a parte della delegazione aerea, impedendo di fatto il diritto a muoversi e ritardando la partenza della delegazione aerea. Per i solerti funzionari della “quarta trasformazione” gli indigeni sono messicani “estemporanei”, vale a dire “inopportuni”, “sconvenienti”, “inappropriati”, e per tale motivo non hanno diritto ad ottenere i documenti di viaggio.

Proprio per questo, come ha ricordato Lupita, la delegazione aerea zapatista è stata ribattezzata così, “estemporanea”, e nell’anno 501 (vale a dire il prossimo) si muoverà verso Slumil K’ajxemk’Op con 501 delegati per dimostrare ai mal governi «che siamo oltre loro. Mentre simulano una falsa celebrazione di 500 anni noi guardiamo avanti: alla vita». Perché, «i terremoti che scuotono la storia dell’umanità iniziano con un “ya basta” isolato, quasi impercettibile. Una nota discordante nel mezzo del rumore. Una crepa nel muri».

«Non siamo venuti qui a darvi una ricetta - ha detto la Comandanta Carolina - a imporre visioni e strategie, a promettere futuri luminosi e istantanei, piazze piene, soluzioni immediate. Non siamo qui nemmeno per convocare a unioni meravigliose. Siamo venuti ad ascoltarvi». E non sarà facile, perché uno dei successi dei “capataces” è quello di averci diviso noi los de abajo, di averci allontanati, di farci sentire differenti. Ognuno di noi con il proprio dolore e la propria rabbia, dimenticandoci che esistono un dolore e una rabbia più grandi che ci accomunano nelle differenze e che ci devono unire nella lotta.

«Ora, in questo nostro tempo, guardiamo e soffriamo una distruzione gigantesca, quella della natura, con l’umanità inclusa» sono le prime parole di Ximena, che poi prosegue dicendo che a ogni disgrazia corrisponde una resistenza, una ribellione, una lotta per la vita. Per gli zapatisti le pandemie, le catastrofi, non termineranno, non ci sarà un ritorno alla normalità, che era comunque parte del problema, e il responsabile di questo collasso è il capitalismo. Solo dalla sua distruzione potrà nascere qualcosa di nuovo, “non perfetto ma migliore”, per questo «faremo la nostra parte, anche se sarà piccola, anche se le generazioni future la dimenticheranno».

Spesso, ci dice Yuli, gli zapatisti sono considerati «ignoranti, ritardati, conservatori, contrari al progresso, premoderni, barbarici, incivili, inopportuni e scomodi» per non accettare le “regole” della modernità, «perché siamo contrari a un treno, una strada, una diga, una centrale termoelettrica, un centro commerciale, un aeroporto, una miniera, un deposito di materiale tossico, la distruzione di una foresta, l'inquinamento dei fiumi e delle lagune, il culto dei combustibili fossili. Forse siamo indietro perché onoriamo la terra piuttosto che i soldi. Forse siamo barbari perché coltiviamo il nostro cibo. Perché lavoriamo per vivere e non per guadagnare paga».

L’ultima parte del discorso è affidata a Marijose: «stiamo cercando altri angoli [in lotta n.d.r] per imparare da loro. Per questo siamo venuti qui, non a portare rimproveri, insulti, reclami, pagamenti di debiti insoluti», come fanno i governi nazionalisti che strumentalizzano la Conquista. Perché «dietro ai nazionalismi si nascondono non solo le differenze ma anche e soprattutto i crimini». L’impegno “per la vita” degli zapatisti è mondiale, non conosce frontiere, lingue, colori, razze, ideologie, religioni, sesso, età, bandiere. Un impegno a farsi piccoli, umili, ad imparare, ad ascoltare i mille dolori silenziosi e la degna rabbia gridata perché «dopo tanti anni abbiamo capito che in ogni dissidenza, in ogni ribellione, in ogni resistenza, c’è un grido per la vita».

Cinquecento anni dopo, le comunità indigene zapatiste sono venute ad ascoltarci e a imparare dalle nostre lotte. E fra le mille difficoltà di questo evento, possiamo dire che hanno avuto una prima risposta importante. Da parte delle compagne e dei compagni madrileni in primis, per il loro impegno, il loro affetto e i loro spazi, messi a disposizione di un'accoglienza trasversale ai vari collettivi coinvolti. La nuova Ingobernable, che da meno di un anno ha trovato la sua nuova casa in un ostello occupato nel pieno centro di Madrid, il csa Tabacalera, lo spazio comunitario "Esta es una plaza", il centro culturale "Tres peces tres", senza dimenticare le compagne e i compagni del cso La Enredadera, che non hanno potuto mettere a disposizione il loro bellissimo spazio perché a rischio sgombero, ma che si sono divisi negli altri spazi mettendo tutto il loro entusiasmo e la loro simpatia.

Ma una risposta l'hanno avuta anche da parte dei collettivi dei vari paesi europei, giunti a Madrid nonostante l'incertezza, nonostante il periodo pandemico, nonostante questo agosto soffocante. Da ogni parte della penisola iberica, dall'Italia, dalla Francia, dalla Germania, dal centro Europa e dalla Grecia, fino a Cipro, questo nostro continente malato e sfiancato dal virus capitalista ha dimostrato di voler meritare la nuova toponomastica di "Tierra Insumisa".

Volevano conquistarci, non sapevano che eravamo resistenti.

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Pic Credit: El Escuadrón 421 en un barco simbólico atraviesa Madrid / Foto- Daliri Oropeza