Viaggio in Iraq, tra resistenza agli Usa e gestione della pandemia

15 / 4 / 2021

Essendo temporaneamente disoccupato a causa delle misure anticovid, mi unisco ad una piccola spedizione di due parlamentari europei irlandesi, Clare Daly e Mick Wallace, gruppo GUE, in Iraq. La visita, assolutamente personale, mira a conoscere sul campo la situazione irachena, per capire quali iniziative portare all’attenzione europea per migliorare i rapporti con il paese medio orientale. In una settimana abbiamo concentrato un intenso programma di una quindicina di appuntamenti.

Mi immaginavo Baghdad come una città in preda alla criminalità e alle milizie, con occidentali e facoltosi vari, asserragliati nella “zona verde”. La realtà è ben diversa: arriviamo a notte tarda, Baghdad è completamente deserta, ma, per arrivare all’albergo, placidamente affacciato sulle rive dell’Eufrate, ben lontano dalla zona verde, si deve passare almeno una decina di posti di blocco, un calvario.

Prima tappa, appena usciti dall’aeroporto, è la sosta davanti al luogo dove gli Usa, paladini del diritto e della democrazia, hanno ucciso, con un drone aereo, il generale iraniano Qassem Soleimani, il capo delle Forze di Mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaabi) generale Abu Mahdi al-Muhandis e, credo, altre otto persone. Eroi popolari per avere sconfitto l’Isis, quando questo, padrone di ormai un terzo del territorio iracheno, stava marciando su Baghdad. Ora i loro ritratti campeggiano per tutto l’Iraq. Arriviamo in concomitanza con la ricorrenza della marcia tra le città sante di Najaf e Karbala, evento che solitamente muove milioni di persone. Come misura di contenimento covid (unica misura, credo, attuata in Iraq), il governo ha pensato bene di imporre un coprifuoco di 3 giorni: Baghdad è quasi deserta.

Al mattino si parte presto. Primo incontro con Ahmad al Assadi, leader di un gruppo di parlamentari sciiti. Incontro molto cordiale, tra tè, caffè, foto e strette di mano varie. Come praticamente per tutti gli interlocutori sciiti con cui parleremo, dopo che il parlamento iracheno ha votato la fuoriuscita delle ultime truppe Usa, la loro presenza non è assolutamente più tollerata. Anche la Turchia è sentita come un problema enorme perché, per combattere il PKK, occupa parte del territorio iracheno, mentre l’Unione Europea è vista con simpatia, ma è ben chiaro a tutti che è solo un fantoccio degli Stati Uniti, caldamente esortata a staccarsi dall’egemonia statunitense. Discorsi comuni per tutti gli sciiti incontrati. Ahmad al Assadi sottolinea che il ruolo Usa è quello di impedire ogni sviluppo dell’Iraq, impedendo, ad esempio, i rapporti con la Cina. La Cina ha proposto di creare un fondo per lo sviluppo infrastrutturale, nel quale l’Iraq dovrebbe investire 100 milioni di dollari e la Cina 2 miliardi, ma gli Usa hanno bloccato tutto. Rapido cambio di scorta armata e si passa al secondo incontro. Siamo ai pezzi da novanta: Hadi al- Amiri, capo della coalizione più ampia nel parlamento, perseguitato da Saddam, combattente contro l’Isis, accusato dal segretario di stato Mike Pompeo di essere la mente dell’attentato all’ambasciata Usa del 2019, più volte ministro. Incontro cordiale, più formale. I discorsi sono incentrati sull’ingerenza Usa, sul dollaro, nuova arma di distruzione di massa che impedisce di regolarizzare i rapporti economici con l’Iran, sul supporto di alcuni paesi arabo sunniti e occidentali all’Isis (l’orgoglio di averli sconfitti, con il solo supporto iraniano, è diffusissimo) e sulla simpatia e inutilità dell’Europa. Al- Amiri ci chiede perché l’euro non si sgancia dal dollaro, in modo che possa essere utilizzato per il commercio estero, senza temere le sanzioni. Si chiude con un monito: se gli Usa non smobilitano, verranno cacciati manu militari!! 

Pranzo, nuovo cambio di scorta armata e terzo incontro: Faleh Al Fayyad, ex capo del National Security Council e leader delle forze di mobilitazione popolare, accusato di corruzione, strage e molto altro, pesantemente sanzionato dagli Usa e, sembra, con una grossa taglia sulla testa. Mi aspettavo un uomo austero in divisa, come, che so, Che Guevara, Thomas Sankara o, magari, un Paolo Pulici militare. Invece si presenta un signore incanutito, leggermente sovrappeso, umile e con un sorriso meraviglioso. Le tematiche non cambiano, ma viene però posto l’accento sulla drammatica situazione del campo profughi siriano di al Hol, al confine iracheno, ospitante migliaia di familiari dell’Isis. La loro paura è che fuggano in Iraq, ricreando sacche di estremismo islamico. Sollecitato dai nostri parlamentari irlandesi, sottolinea che gli Usa sono oramai illegali e che, se non dovessero ritirarsi, qualcosa potrebbe succedere.

Il giorno dopo partiamo per Najaf: le strade sono buone, il traffico è intenso solo in prossimità dei centri abitanti. Stiamo viaggiando nella mezza luna fertile. Negli ultimi 5000 anni le cose devono essere un po’ cambiate: il panorama è prevalentemente desertico e polveroso. Lasciamo l’Eufrate e raggiungiamo il Tigri. In prossimità dei due grandi fiumi, la terra diventa più verde, ci sono palme, campi coltivati e qualche zona acquitrinosa. Un tempo doveva essere l’eden. L’albergo di Najaf è praticamente accanto alla Moschea dell’Imam ‘Ali, cugino e genero di Maometto. Terzo luogo sacro per l’islam sciita, nella moschea sembra ci siano seppelliti un po’ tutti: l’Imam ‘Ali, primo Imam sciita e quarto califfo per i sunniti, Adamo, Eva e pure Noè. Questo bellissimo luogo sacro fu, in ultimo, seriamente danneggiato dalla Guardia repubblicana di Saddam Hussein, cosa che non credo gli abbia attirato le simpatie della gente. Le misure anti covid sembrano inesistenti: la gente entra in massa nella moschea senza alcuna protezione, oltre a quella di Allah, si accampa ammassata fuori per le abluzioni e per mangiare e riposare. Il rispetto che suscita e merita la devozione di questa gente meravigliosa è assoluto. Gli incontri a Najaf sono numerosi. Incontriamo il Grand Ayatollah Bashir al Najfi, uno dei quattro Grand Ayatollah di Najaf, “fonte da seguire”: atmosfera rilassata e molto cordiale; si scusa di farci stare seduti su cuscini adagiati per terra e di “costringere” le due donne del nostro gruppo a vestirsi nella tradizione islamica. Tiene un breve discorso nel quale ci ringrazia per il nostro interessamento ai problemi iracheni, ci spiega che non siamo responsabile delle malefatte dell’occidente, che il nostro compito dovrà essere quello di risvegliare l’opinione pubblica europea e che Mick e Clare, i nostri due europarlamentari, non saranno perdonati se abbasseranno la voce. Chiude con una forte invettiva contro le guerre e il terrorismo, prima causa di tutti i mali. Ci conceda con un regalo a tutti noi. Una persona fantastica. Il figlio non è da meno, ci intrattiene a lungo, ci spiega la situazione interna e si informa sul North Stream, sull’Europa e sulla situazione del covid in Italia. Chissà perché l’Italia suscita sempre molta simpatia. Fuggiamo verso la biblioteca: breve incontro, visita, regali e una concreta richiesta di aiutarli nella digitalizzazione del catalogo. La sera passiamo alla casa del dottore Sheik Ali Smeism, fondatore del movimento di Muqtada al-Sadr, ritiratosi dalla vita politica dopo le troppe delusioni. Fa una analisi della situazione del paese e indica il problema principale nel fiorire di potentati autonomi, autoreferenziali e corrotti, che impediscono una idea condivisa di bene pubblico. La sua soluzione sarebbe quella di eliminarli tutti, cosa chiaramente impossibile. Ci invita ad una cena pantagruelica, dove ci serve personalmente. Della moglie, purtroppo, nessuna traccia. 

A Najaf abbiamo ancora incontrato il governatore della regione (il quale ha chiesto cooperazione nei campi della ricostruzione, educazione, medicina e, infine, archeologici, poiché tutti gli scavi sono bloccati), il comandante Qais al Khaz’ali e il figlio del Grand Ayatollah Saeed al-Hakim. In un pomeriggio libero, raggiungiamo la città santa di Karbala, nel giorno del pellegrinaggio. Entriamo nella moschea di Imam Husayn: altroché norme anti covid, per la commemorazione del martirio nella battaglia di Karbala, la moschea è sovraffollata, zero mascherine e tutti toccano e baciano il sepolcro. Riusciamo dopo anche a raggiungere gli scavi di Babilonia per una bellissima gita turistica.

Si torna a Baghdad per gli ultimi due incontri. Senza confinamenti, la città è viva e piacevolmente caotica. Tutto è aperto e vi sono matrimoni ovunque: tutti con banda che suona, gente che balla e una allegria contagiosa. Siamo invitati a pranzo presso il REWAQ BAGHDAD CENTER, dove il dottor Abbas AL_Anbori, funzionario degli affari esteri, ci illustra il lavoro del ministero. L’ultimo incontro, finalmente, è al di fuori della sfera sciita. Incontriamo nella sua splendida casa Ala Talabani, capo del gruppo parlamentare dell’Unione Patriottica del Kurdistan, uno dei due grossi partiti curdi. Finalmente il discorso è diverso: secondo il suo punto di vista l’atto del parlamento che ha imposto lo sgombero Usa è illegittimo, è stato un colpo di mano della maggioranza sciita. Secondo lei, nel parlamento, non c’è un singolo curdo o sunnita che abbia votato a favore e che il voto non era calendarizzato. Capisce che la popolazione non sopporta più la presenza Usa e ne chiede la sostituzione con la Nato. Si parla del problema turco in Iraq e Siria, della situazione femminile e della buona situazione del Kurdistan iracheno. Nonostante ci rassicuri della sua vicinanza agli sciiti (sono stati insieme in esilio), si percepisce chiaramente una maggiore tolleranza verso gli Stati Uniti. Dovremmo ancora incontrare un esponente della minoranza sunnita, ma il volo è imminente. Incontro rimandato ad una riunione telematica e ad un futuro viaggio.

La mattina andiamo in un laboratorio per il tampone molecolare pre volo aereo: una narice sola (come fanno anche in Belgio), non particolarmente invasivo. La sera abbiamo il risultato: tutti negativi, nonostante una intera settimana sia passata tra strette di mano, luoghi chiusi e affollati, buffet non protetti. Breve sosta tecnica a Il Cairo, Egitto: visitiamo il quartiere di Zamalek, isola sul Nilo, quartiere, credo, alto borghese. Le misure anti contagio sembrano inesistenti: tutto aperto, folla ovunque, trasporti pubblici pieni. Proviamo l’ebrezza di entrare in un pub, dove beviamo vino e birrette Stella.

Si parte per l’ultima tappa: Beirut. All’arrivo in aeroporto tutti fanno un tampone; entro tre giorni massimo lo stato ti dirà se sei un untore. Beirut, per lo meno le zone che visitiamo, lascia una ottima impressione: strade buone, marciapiedi ampi, palazzi nuovi. Ultimi due incontri con il mitico Ezbollah, il partito di Dio. Il primo incontro è con Mustapha, nome fittizio, capo militare, parla a nome personale, non dell’organizzazione. Traccia una breve storia di Ezbollah, nato nei primi anni 80 per combattere l’invasione israeliana del Libano. Si sono poi diffusi in diversi paesi del Medio Oriente dove insegnano al popolo a difendersi. Ci spiega che, solitamente, dopo l’addestramento si ritirano dal paese, mentre resteranno in Siria finché il presidente Assad lo riterrà necessario. Sostiene che in Siria hanno mandato truppe, mentre in Iraq e in Yemen hanno solamente addestrato le forze popolari e a Gaza stanno aiutando concretamente la popolazione civile, attraverso tunnel, navi o collegamenti aerei. Spiega che, con le interferenze di Usa e Israele, governare il Libano è difficilissimo e una soluzione potrebbe essere uno stato confederale. Chiede a Mick e Clare di spiegare che Hezbollah non è una organizzazione terroristica. L’ultimo incontro è con Sheikh Hussein Gabris, ala religiosa di Hezbollah, uno dei fondatori del Partito di Dio. Solito discorso sull’ingerenza statunitense che contribuisce a tenere il Libano nel caos. Hezbollah vuole un Libano unito, con tutte le confessioni accettate, perché il Corano vieta tutte le imposizioni. I gruppi come Isis sono finti musulmani e devono essere combattuti. Dice di avere ottimi rapporti con diversi stati europei, con il Vaticano e con la comunità di Sant’Egidio.

Ulteriore tampone molecolare (due narici, molto invasivo) e si torna. Malpensa è deserta, Torino è deserta, il confinamento funziona alla grande.

Conclusioni? L’Iraq è un paese meraviglioso, la gente è cordiale, simpatica e vivace. Nonostante le nostre guerre, sanzioni e interferenze varie, siamo stimati e coccolati. La comprensione geopolitica è lucida, assolutamente non diversa dalle discussioni di noi radicali. L’ingerenza degli Usa e di Israele, la prepotenza della Turchia, il ruolo del dollaro e le sanzioni internazionali sono sempre al centro di ogni discorso. L’impossibilità di non poter avere rapporti totalmente liberi con l’Iran a causa del timore delle sanzioni internazionali è un forte cruccio, soprattutto per la maggioranza sciita. A mio parere la difficoltà sta nel riuscire a pianificare uno sviluppo non completamente legato alle fonti fossili e non dipendente da capitali stranieri. Resta da comprendere cosa succederà al paese quando gli Usa se ne saranno andati e verrà quindi meno l’obbiettivo comune dei vari gruppi: ottenere la totale sovranità formale. Da quel punto in avanti, il futuro sembra un grosso punto interrogativo.