Variante Omicron, allarmarsi o far finta di niente? Affliggersi o organizzarsi?

Come dovrebbe muoversi la Sinistra rispetto all’evoluzione del virus?

30 / 12 / 2021

Un articolo di Leigh Phillips, pubblicato il 17 dicembre 2021 su Jacobinmag.com e tradotto in italiano da Emma Purgato, che analizza l’evoluzione della pandemia e in relazione a due variabili a suo dire dipendenti tra loro: apartheid e scetticismo vaccinale. Leigh Phillips è uno scrittore scientifico e giornalista e scrive per Jacobin, Nature, the Guardian, the Daily Telegraph, New Statesman, Scientific American. È l’autore di Austerity Ecology & the Collapse-Porn Addicts.

Abbiamo tradotto questo articolo per avere un punto di vista globale sulla sindemia, soprattutto incentrato sul cosiddetto “sud del mondo”, provando a uscire dalla narrazione dicotomica e un po’ “provinciale” nella quale siamo da troppo tempo costretti.

Alcune persone hanno reagito ad Omicron con disperazione, vedendo sempre più remota la fine della pandemia, mentre per altre la nuova variante non è motivo di preoccupazione, visti i dati preliminari che suggeriscono effetti più lievi. Nel mezzo di questa incertezza, come dovrebbe muoversi la Sinistra rispetto all’evoluzione del virus?

È dalla mostruosità della crisi economica globale del 2008 che l’incompetenza e l’irrazionalità del sistema che ci governa non sono così palesi. Non sarebbe dovuta andare così.

Eppure, c’è ancora chi sostiene che “non c’è niente da vedere qui”. Convinti che, siccome il Sud Africa, che è stato il primo paese ad allertare il mondo della minaccia della variante Omicron del Covid-19, ora ha una sovrabbondanza di vaccini, ma allo stesso tempo un aumento dei casi di scetticismo vaccinale, il responsabile non possa essere l’apartheid vaccinale. Non c’è una carenza nell’esportazione o nella produzione locale di vaccini, ma un’eccedenza nella produzione locale e nell’esportazione di misinformazione anti-vax, insistono. Il problema non è il capitalismo, sono i “Covidioti”.

Allo stesso tempo, a dispetto dei nuovi sforzi per aumentare la copertura del vaccino, come l’obbligo vaccinale per alcuni settori, o le certificazioni e passaporti, oltre a misure più coercitive, in particolare per quanto riguarda alcuni stati dell’Unione Europea, che stanno considerando l’obbligo vaccinale per tutta la popolazione, in diverse città, come Bruxelles, Amsterdam, Vienna si sono verificati violenti scontri tra la polizia e migliaia, o addirittura decine di migliaia di manifestanti. Ed anche chi sostiene ampiamente un certo livello di restrizioni, in un contesto di emergenza sanitaria pubblica, con l’obbiettivo di ottenere tassi di vaccinazione più elevati, si trova a disagio di fronte al livello di violazione delle libertà civili insito nelle misure più radicali adottate di recente in paesi come l’Austria, dove i non vaccinati non possono lasciare la loro abitazione, o l’Australia, dove sono stati costituiti dei campi remoti per la quarantena.

Altrove, persone comprensibilmente esauste dopo quasi due anni di restrizioni delle libertà personali, promulgano rapporti con dati preliminari da hot-spot in Sud Africa, che suggeriscono una decisa riduzione dei contagi e della mortalità, nonostante la diffusione della nuova variante. Sostengono che la virulenza dei patogeni tenda ad attenuarsi con il trascorrere del tempo, e che se dai dati emergerà che Omicron causa effettivamente una malattia più lieve, questa potrebbe essere la variante che stavamo aspettando.

Dovremmo tutti sperare che questi ottimisti abbiano ragione. Tuttavia, la credenza diffusa che i virus si evolvano sempre verso una mortalità inferiore non corrisponde a quanto ci dice la teoria della virulenza. Inoltre, l’appiattimento della curva dei contagi negli hot-spot in Sud Africa si scontra con altri dati preliminari da Danimarca, Norvegia e Regno Unito, dove si sta verificando un aumento dei casi di gran lunga superiore ai picchi già raggiunti. Dobbiamo prestare attenzione a non venire influenzati nelle nostre ricerche dal comprensibile desiderio di uscire dalla pandemia, basando i nostri ragionamenti motivati unicamente su evidenze e fonti che mostrano come la malattia stia diventando meno aggressiva.

Allo stesso tempo, il tasso di contagi non coincide più con il numero di ricoveri ospedalieri e decessi. Questi ultimi due parametri non sono forse i più importanti? Un nuovo studio dal Sud Africa di questa settimana effettivamente indica una significativa riduzione dei casi gravi. In mezzo allo sdegno e alla disperazione, c’è uno spiraglio per almeno un po’ di speranza?

Che cosa sta realmente succedendo, alla luce di affermazioni e conclusioni così contrastanti? E soprattutto, che tipo di risposte politiche dovrebbe sostenere la Sinistra? La situazione è complessa – considerando anche come l’apartheid vaccinale contribuisce ad alimentare i dubbi sul vaccino, e quanto sappiamo sull’evoluzione del virus.

Se intendiamo mettere al tappeto la pandemia, evitando ulteriori restrizioni soffocanti sulle nostre vite quotidiane, ci conviene munirci di una consapevolezza di questa complessità.

È stato l’apartheid vaccinale a causare Omicron?

Qualche giorno dopo l’annuncio dal Sud Africa della comparsa e la rapida diffusione di una nuova variante, chiamata “Omicron” dall’ONU, l’ex primo ministro britannico Gordon Brown, solitamente riservato, non ha usato mezzi termini nel denunciare ciò che ha definito “neocolonialismo dell’Unione Europea.”

Brown, che è inoltre ambasciatore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per il finanziamento della salute globale, si è infuriato quando è venuto a sapere che ad agosto, nello stesso istante in cui gli obitori di paesi come lo Zimbabwe si stavano riempiendo, mentre l’ondata più letale del virus fino a quel momento stava colpendo l’Africa, l’Unione Europea stava requisendo 10 milioni di fiale del vaccino a dose singola Johnson & Johnson, imbottigliate e confezionate in Sud Africa, ostacolando così gli sforzi per vaccinare le persone africane. Dato che a quel punto ormai il 70% degli europei era vaccinato con ciclo completo, si giunge alla conclusione che l’obbiettivo di questa requisizione sia stato quello di preparare l’Europa ad un ciclo di richiami, proprio mentre stati come il Burundi dovevano ancora somministrare una singola dose.

Alcuni uffici hanno immediatamente obiettato, sostenendo che queste dichiarazioni fossero un modo male informato e moralista di mettersi in mostra, dato che il Sud Africa in realtà avrebbe avuto una sovrabbondanza di vaccini, e invece un problema con un diffuso scetticismo vaccinale. Se solo fosse così semplice, è stata la risposta, come lo è revocare i diritti di proprietà intellettuale, e finanziare il trasferimento di tecnologie e la capacità produttiva del Sud Globale! L’Unione Europea, contraria all’eliminazione dei brevetti sui vaccini, ha colto l’opportunità di un intervento dinnanzi alla conferenza dell’OMS a Ginevra per ribadire la sua posizione, sostenendo che un tale allentamento dei diritti di proprietà intellettuale non avrebbe nessun effetto positivo sul tasso di somministrazione dei vaccini nei paesi in via di sviluppo.

Tuttavia, Brown ha ragione nel dire che non dovremmo essere sorpresi. (E l’ironia del fatto che una decisione dell’OMS rispetto all’eliminazione dei brevetti sui vaccini sarebbe rimandata a causa della diffusione di Omicron, a sua volta in parte prodotta dall’assenza di tali rinunce ai brevetti, sicuramente non gli sfugge.)

È importante sottolineare che, nonostante il Sud Africa sia stato il primo paese ad allertare il mondo rispetto alla diffusione della nuova variante, identificata tra alcuni diplomatici che erano stati in Botswana, ciò non implica che si sia sviluppata in uno di questi due paesi. Anzi, dovremmo ringraziare la regione per il superbo monitoraggio delle malattie infettive infrastrutture per il sequenziamento genomico, conseguenze della storia travagliata dell’Africa con malattie come l’HIV, la tubercolosi, e l’Ebola. Dati raccolti successivamente hanno mostrato che Omicron si stava già diffondendo nei Paesi Bassi da almeno una settimana, insinuando che la variante fosse in circolazione da ben prima che venisse emessa la segnalazione.

Tuttavia, la diffusione al di fuori dell’Africa del sud non significa neanche che non sia emersa in quella regione per la prima volta. Semplicemente non lo sappiamo. E se assumiamo che la variante si sia evoluta effettivamente da qualche parte in Sud Africa, dobbiamo tenere nota del fatto che, nonostante sia vero che il governo sudafricano abbia chiesto a Pfizer e Johnson & Johnson di ritardare le consegne di vaccini a novembre, a causa di un calo delle somministrazioni, le forniture al paese si sono stabilizzate solo in agosto.

Attraverso centri di condivisione dati online, in particolare Nextstrain, un progetto open source messo in piedi dall’epidemiologo e biologo computazionale dell’Università di Washington Trevor Bedford e dai suoi colleghi, filogenetisti e altri ricercatori sono in grado di tracciare l’evoluzione dei ceppi di SARS-CoV-2 condividendo e confrontando il loro genoma. Lavorando con Nextstrain, gli scienziati monitorano in tempo reale ogni minima variazione nel codice genetico del virus, costruendo un albero genealogico che mostra da relazione evolutiva tra le diverse linee. Bedford fa notare che i parenti più stretti di Omicron su questo albero non sono varianti recenti, ma ceppi che erano in circolazione intorno alla metà del 2020. Allo stesso tempo, nonostante le sue relazioni più strette risalgano all’anno scorso, le mutazioni che ha subito da allora la rendono sostanzialmente differente dalle varianti del 2020.

Com’è possibile? I filogenetisti individuano tre scenari. Il virus potrebbe aver fatto il salto di specie qualche tempo fa, per poi tornare ad infettare gli umani. Oppure questa variante potrebbe essere stata in circolazione in una regione non ben sorvegliata, ed essersi diffusa di recente in Botswana e Sud Africa, dove è stata finalmente individuata. Lo scenario più probabile, tuttavia, è che Omicron si sia evoluta all’interno del corpo di una persona immunocompromessa, come per esempio qualcuno con l’HIV non trattato. Il sistema immunitario di questa persona attacca il virus ma non è in grado di sconfiggerlo completamente. I virioni rimanenti (particelle di virus singole) sarebbero i meno vulnerabili al sistema immunitario. Questo accade ripetutamente nella stessa persona, con multiple iterazioni di mutazione, e quindi evoluzione, altrimenti nascosta dalla sorveglianza della malattia.

La conclusione da trarre da ciò è, in primo luogo, che un maggiore supporto per il trattamento dell’HIV non deve essere un processo parallelo alla lotta contro il Covid-19, ma parte di essa. Certo, si può sottolineare come i processi che hanno limitato l’accesso a questo tipo di trattamenti nel corso degli anni non siano diversi da quelli che perpetuano l’apartheid vaccinale. In secondo luogo, per quanto riguarda la dichiarazione di Brown e altri sul ruolo dell’apartheid vaccinale, il periodo di tempo in cui potrebbe essere emersa Omicron (dalla metà del 2020 a qualche settimana fa), diffondendosi al di là di questo ipotetico individuo immunocompromesso, include evidentemente un lungo periodo di diversi mesi in cui i vaccini avrebbero dovuto essere distribuiti su larga scala, ma non lo sono stati.

Il Sud Africa è stato in grado di iniziare la campagna vaccinale solo a maggio. Ciò non significa che, se ci fosse stata una distribuzione dei vaccini complessiva nel paese e nella regione, assieme ad uno scetticismo vaccinale limitato, Omicron non sarebbe emersa, ma che una distribuzione di questo tipo avrebbe ridotto la possibilità.

Scetticismo e forniture non sono gli unici problemi che il Sud Africa e altri luoghi del continente devono affrontare. Con molte persone incapaci di accedere alla vaccinazione a causa dei costi di viaggio verso le cliniche dove viene praticata, la distribuzione è una sfida altrettanto grande. Questo tipo di strozzature sono parte dell’apartheid vaccinale tanto quanto la questione della proprietà intellettuale, del trasferimento di tecnologie e della produzione regionale.

È quindi più che ragionevole continuare a fare pressione sulle élite per superare l’apartheid vaccinale. Non c’è stata nessuna dimostrazione di moralità.

Scetticismo vaccinale nel Sud globale

Questo non significa che non ci dobbiamo preoccupare del crescente scetticismo vaccinale in Sud Africa e nel resto del Sud globale. Il tasso di vaccinati nel paese è salito con molta difficoltà appena sopra al 55% per i maggiori di 50 anni, mentre appena il 20% dei più giovani è vaccinato con ciclo completo.

Nel loro effetto finale, l’apartheid e lo scetticismo vaccinale sono la stessa cosa: producono un grande gruppo di persone in cui il virus può continuare a mutare, e a rappresentare una minaccia per chi si è vaccinato, oltre agli interventi medici non vaccinali che abbiamo sviluppato, potenzialmente. Entrambe le situazioni devono essere superate.

Ma per una è più complesso che per l’altra. Per quanto sia difficile oltrepassare l’apartheid vaccinale, a causa degli interessi economici delle case farmaceutiche che sono ortogonali alla vaccinazione universale, e la complicità a questo comportamento disumano dei loro difensori diplomatici, almeno in linea di principio si potrebbe risolvere con uno schiocco di dita. Storicamente, lo scetticismo vaccinale è stato considerata per la maggior parte un problema minore nel Sud globale rispetto al mondo sviluppato, ma l’evidenza suggerisce come si stia diffondendo sempre di più anche qui. E non c’è una soluzione semplice.

Indagini svolte negli ultimi anni, per monitorare la forza, la diffusione e le ragioni che stanno dietro ai sentimenti antivaccinisti e di scetticismo rispetto ai vaccini nel mondo, mostrano che questo tipo di mentalità è sostanzialmente meno radicato nei paesi in via di sviluppo rispetto alle loro controparti più ricche, con solo una manciata di eccezioni. Gli autori di queste indagini hanno trovato le ragioni di questa differenziazione nel fatto che, grazie a vaccini, antibiotici, una migliore igiene e sanificazione rispetto al passato, la maggior parte delle malattie infettive più comuni che ci siamo trovati ad affrontare nella storia sono in declino nel mondo sviluppato. La consapevolezza di cosa significa vivere in un mondo cupo e spietato, dove la pestilenza attende dietro ad ogni angolo, era praticamente scomparsa prima dell’avvento del COVID-19. Nei paesi in via di sviluppo, invece, molte di queste malattie, alcune delle quali diventate endemiche in quelle regioni, restano parte della vita quotidiana. Perciò chi vive questo tipo di situazione vede chiaramente i benefici immediati dei vaccini.

Lo scetticismo vaccinale storicamente è stato una malattia diffusa soprattutto nel mondo ricco, non in quello povero.

E il Sud Africa in una sorta di situazione al confine, con livelli di sviluppo estremamente disomogenei. Qui, lo scetticismo è maggiore tra i bianchi, con livelli di guadagno relativamente più alti. Un’indagine pubblicata ad agosto, condotta su un campione di quasi 8000 sudafricani da ricercatori del Consiglio di Ricerca di Scienze Umane e dell’Università di Johannesburg, ha rilevato che mentre tre quarti delle persone adulte nere intervistate erano intenzionate a ricevere il vaccino contro il COVID-19, solo il 52% dei bianchi ha risposto allo stesso modo. In quest’ultimo gruppo, le preoccupazioni riguardavano per la maggior parte i possibili effetti collaterali o la mancanza di efficacia del vaccino.

Inoltre, lo scetticismo sta crescendo tra i giovani sudafricani bianchi, mentre diminuisce tra la loro controparte nera. (Eppure, nonostante la maggiore esitazione sia tra la popolazione bianca, queste stesse persone hanno una maggiore probabilità di aver ricevuto il vaccino, probabilmente perché hanno accesso a strutture sanitarie superiori.)

Nonostante lo scetticismo vaccinale a livello globale sia più comunemente un vizio dei benestanti, è comunque un problema crescente nel mondo in via di sviluppo, anche se l’aumento dello scetticismo parte da un livello basso. E, nel mondo sviluppato, non sono solo le mamme fricchettone che si bevono qualsiasi cosa venga spacciata per medicina alternativa e risolvono i loro problemi con i cristalli ad essere scettiche nei confronti del vaccino, ma questo scetticismo si sta diffondendo anche tra le comunità più povere e razzializzate che, per valide ragioni storiche, hanno perso fiducia nelle autorità sanitarie.

In Sud Africa, ci sono le stesse distinzioni tra le logiche che stanno dietro alla paura dei vaccini. Un articolo pubblicato su France 24 all’inizio dell’estate, proprio quando stava iniziando la campagna di vaccinazione, riporta dichiarazioni di personale medico e scettici, e, pur non essendo quantitativamente rigoroso come l’indagine dell’Università di Johannesburg, ci fornisce un utile contesto qualitativo. Per esempio, un medico che si confronta regolarmente con resistenze nei confronti dei vaccini racconta dell’impatto avuto dalla recente rivelazione della stampa che il cardiologo Wouter Basson stesse ancora praticando medicina. Basson era stato a capo di Project Coast, un programma di guerra chimica e biologica portato avanti durante l’apartheid, che, tra altre attività, conduceva una ricerca per un contraccettivo sotto forma di “vaccino” da somministrare clandestinamente ai neri per ridurre il loro tasso di natalità.

E la radicale disparità nella distribuzione e produzione dei vaccini contro il COVID-19 sta solo contribuendo a questa mancanza di fiducia. Dato che c’è un’apartheid vaccinale, i governi e le aziende occidentali staranno distribuendo al mondo in via di sviluppo solo gli scarti, ha detto il trentacinquenne Mbali Tshabalala al giornalista di France 24. “E se la maggior parte delle persone stesse ricevendo un vaccino di terza categoria?”

Pertanto, sconfiggere l’apartheid vaccinale contribuisce al superamento dello scetticismo nel mondo in via di sviluppo. O meglio, permettere che l’apartheid vaccinale continui significa lasciare che lo scetticismo vaccinale nel Sud Globale continui ad aumentare.

La fine della pandemia?

Ma tutto questo che importanza ha? Dati preliminari dal Sud Africa mostrano che la mortalità nella provincia di Gauteng – epicentro della diffusione di Omicron nel paese – è scesa a 1 caso su 200, minore di quanto lo sia mai stata dall’inizio del focolaio, e più bassa di qualche decina di volte rispetto a settembre 2020, quando il paese era decimo al mondo per il numero di casi accertati. Un primo studio, basato su tre settimane di ricerche da quando Omicron è stata identificata, e che deve ancora essere rivisto e valutato da altri esperti, indica come il tasso dei ricoveri sia notevolmente più basso, diminuendo fino a 38 ingressi in ospedale su 1000 persone contagiate, da un tasso di 101 ogni 1000 contagiati dalla variante Delta. I ricoverati inoltre hanno avuto sintomi molto più lievi, e una permanenza in ospedale decisamente ridotta. Al contempo, l’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech è scesa ad appena il 33%.

E i vaccini non sono l’unica forma di intervento che ha subito un colpo. Il cocktail di anticorpi Evusheld di AstraZeneca, una profilassi pre-esposizione per individui gravemente immunocompromessi, i cui sistemi immunitari non generano una risposta forte ai vaccini, sta resistendo bene ad Omicron, come la terapia con anticorpi di GlaxoSmithKline. Invece quelle di Eli Lilly e Regeneron sono meno efficaci. A causa di Omicron, le opzioni di trattamenti per chi effettivamente si ammala stanno diventando limitate.

Nonostante la variante sia apparentemente meno aggressiva, e la ridotta efficacia dei vaccini per contrastare il contagio, queste argomentazioni comunque non giustificano la rinuncia al vaccino. L’efficacia di Pfizer contro i sintomi più gravi e il ricovero in ospedale al momento rimane robusta al 70%. La maggior parte delle persone che hanno avuto bisogno di ossigeno, così come quelle che sono state ricoverate in terapia intensiva, non erano vaccinate. Altri ricercatori riportano che anche Moderna ha perso efficacia, tuttavia una dose booster la riporta al livello di quella contro Delta.

Se la variante risulterà essere super trasmissibile ma molto poco aggressiva, e rimpiazzerà la precedentemente dominante Delta, potremmo raggiungere l’immunità di gregge a livello globale, senza bisogno di superare l’apartheid vaccinale e lo scetticismo? Quello che ci si presenta è il migliore degli scenari possibili? E, come si è chiesta una giornalista, Omicron sarà la “variante perfetta”, la “luce in fondo al tunnel”? È la fine della pandemia?

Certamente c’è da sperare che Omicron, che, come è stato confermato questa settimana dall’OMS, si sta diffondendo con molta più facilità rispetto all’altamente trasmissibile Delta o ogni altra variante precedente, risulti in sintomi molto meno gravi nei contagiati. Tuttavia, dobbiamo fare attenzione nell’assumere che questo sia il caso. I dati dal Sud Africa, che mostrano una malattia meno grave, potrebbero semplicemente riflettere un tasso di contagi precedenti maggiori nella regione, e una demografica di età media più bassa, invece di una virulenza minore (la capacità di provocare sintomi), quindi i dati raccolti in altre regioni potrebbero variare. È inoltre importante notare che una fuga immunitaria più elevata dovrebbe portare ad una diffusione maggiore, anche senza una superiore trasmissibilità intrinseca.

La maggiore fuga immunitaria di Omicron è dovuta alle sue molte mutazioni. Come quando un personaggio di un film viene inseguito dalla polizia, e cambia giacca o colore di capelli per non essere riconosciuto, le mutazioni rendono il virus più difficile da identificare dal sistema immunitario.

Da quando la pandemia è iniziata, c’è stata un’esplosione nell’interesse verso l’evoluzione virale. Molte persone hanno fatto un ottimo lavoro nell’educarsi sul tema. Non dovremmo prenderci gioco di questa ondata di autodidattismo rispetto alla virologia e la filodinamica. Allo stesso tempo, parallelamente a questo c’è stata anche una buona dose di disinformazione e “epidemiologia da bar.”

Tipica di questa è l’idea che ci sia qualche tipo di legge per cui tutti i virus tendono a diventare più trasmissibili ma meno aggressivi con il tempo, con un’evoluzione dell’ospite e del patogeno verso una relazione mutualmente benigna. (D’altra parte, c’è anche la paura di qualsiasi mutazione in generale, con anche la parola stessa “mutazione” che evoca visioni provenienti da film horror di virus sterminatori di civiltà super mortali e super contagiosi.)

Ad incrementare la diffusione di disinformazione di questo tipo contribuisce la frustrazione derivata dal fatto che, a causa della complessità delle interazioni dell’evoluzione del patogeno con i tanti altri fattori che hanno un impatto sul progredire della pandemia, la maggior parte degli esperti insista su come sia impossibile prevedere con precisione come un particolare virus evolverà. Al contempo, come la biologa evoluzionista Elisa Visher e i suoi colleghi sostengono in un recente documento di revisione, nel tentativo di mettere in chiaro cosa possiamo dire nel mezzo del vortice di incomprensioni riguardanti l’evoluzione virale durante la pandemia di COVID-19, ciò non significa che non abbiamo una minima idea di come i virus evolvono in generale.

Gli autori osservano che il fatto che la tendenza verso malattie più lievi (“avirulenza”) man mano che il patogeno progredisce sia stata considerata una rappresentazione accurata degli eventi dagli scienziati per lungo tempo sicuramente non aiuta. L’epidemiologo Theobald Smith, pioniere della disciplina nel diciannovesimo secolo, aveva sviluppato ciò che aveva chiamato “legge della virulenza declinante.” Certamente a livello intuitivo ha senso. Se un virus prende il controllo e uccide molte delle cellule dell’ospite nel suo processo di produzione di copie di sé stesso, producendo nel mentre una grande quantità di tossine, ed essendo nella sua propria forma tossico, causerà dei sintomi gravi (virulenza alta) nell’ospite, che perciò dovrà rimanere a letto e quindi non diffonderà il virus verso tanti nuovi ospiti. Il paziente zero potrebbe anche morire in fretta, di nuovo rendendo più difficile per il virus la diffusione. Ma se il virus fosse “più intelligente”, ed evolvesse verso una forma meno virulenta, l’ospite avrebbe meno possibilità di essere costretto a letto o morire, continuando quindi a diffondere copie del virus verso molti altri ospiti, che a loro volta contageranno altre persone, e così via.

Tuttavia, dagli anni 80 in poi, questa opinione diffusa è stata rifiutata dalla comunità scientifica. Non è quanto ci dimostrano l’evidenza né la teoria contemporanea dell’evoluzione virale.

Invece di una tendenza all’avirulenza, il “modello di scambio” contemporaneo dell’evoluzione virale descrive una “virulenza ottimale”, che bilancia aggressività e trasmissione, in base alla relazione tra l’ospite e il patogeno. Questa situazione ottimale può cambiare nel tempo se questa relazione cambia. Per esempio, una virulenza più bassa risulta in una guarigione più veloce, che, come la mortalità rapida, può ostacolare la diffusione e la moltiplicazione del virus. Oppure, un virus che si replica molto velocemente potrebbe essere più dannoso per l’ospite, ma allo stesso tempo produrre una popolazione di particelle di virus più grande, e di conseguenza un tasso di contagio più elevato. Perciò, ci potrebbe essere una maggiore trasmissione assieme ad una virulenza più alta.

Situazioni del genere potrebbero verificarsi nell’ambito familiare, o in altri contesti in cui ci sia un’alta densità di persone. Questo perché, anche se un patogeno molto virulento uccidesse il suo ospite, i familiari di questa persona, ovvero altri ospiti potenziali, si troverebbero nei paraggi. Tuttavia, un patogeno con lo stesso livello di virulenza potrebbe non ottenere lo stesso risultato, in termini di trasmissione, se si trovasse nelle condizioni di un gruppo di persone con pochi contatti. Perciò, la virulenza ottimale per un patogeno in determinate condizioni potrebbe non essere la migliore se la situazione cambiasse. Infatti, anche se la febbre Dengue è in circolazione dal diciottesimo secolo, e nel tempo si è evoluta verso un livello di virulenza relativamente basso (per quanto dolorosa sia la malattia), variazioni nei numeri e nel livello di mobilità della popolazione umana potrebbero aver causato un aumento nella sua virulenza nel corso degli ultimi 50 anni.

Visher e i suoi colleghi sottolineano inoltre che, nella fase iniziale di qualsiasi spillover zoonotico (quando un patogeno passa per la prima volta dal suo ospite animale ad un umano), il patogeno ha un’esperienza molto limitata degli umani, e quindi è poco probabile che sia ben adattato alla diffusione tra di noi. Di conseguenza, questo potrebbe significare che, all’inizio di ogni epidemia o pandemia, qualsiasi mutazione che migliori la trasmissione porterebbe un enorme vantaggio. A questo stadio iniziale, un aumento della trasmissione di questo tipo potrebbe non implicare dei costi; potrebbe non essere ancora necessario fare un compromesso con la virulenza.

Tutto questo è molto generale, e non tiene conto delle specificità della biologia del SARS-CoV-2, né del regime evolutivo in cui si è trovato. Non sappiamo a che punto siamo con il SARS-CoV-2. Siamo a buon punto su questa traiettoria?

Oltretutto, come fa notare Trevor Bedford, la maggiore trasmissibilità di Omicron non implica che questa variante soppianterà automaticamente Delta, nel modo in cui Delta ha rimpiazzato gli altri ceppi. Se il considerevole numero di mutazioni di Omicron fa sì che questa di adatti ad una nicchia ecologia leggermente differente (un diverso set di condizioni umane) rispetto a Delta, potrebbero coesistere invece di competere l’una contro l’altra. Bedford porta come esempio storico l’influenza, caso in cui la dislocazione sembra essere la regola. Tuttavia, osserva che una coppia di ceppi del virus dell’influenza B (che contagia solo umani e foche), discendenti dalla stessa fonte e che si sono separati l’uno dall’altro intorno al 1980, da allora sono in circolano fianco a fianco, senza che si sia verificata la dislocazione.

Quindi, nonostante sia plausibile che SARS-CoV-2 evolverà verso una forma di malattia meno aggressiva, similmente ai coronavirus che (assieme ai rinovirus) causano il comune raffreddore, questo scenario non è inevitabile. Inoltre, anche nel caso in cui effettivamente evolvesse in una forma più lieve, ciò non rappresenta una garanzia che questo livello di aggressività sia permanente, o che la forma più lieve rimpiazzi le più virulente.

Forse Omicron, o qualche altra variante in futuro, porterà ad una conclusione la pandemia, ma non possiamo scommettere su questa possibilità. La lotta contro l’apartheid vaccinale, e per tentare di convincere le persone scettiche rispetto al vaccino deve continuare. E, per quanto riguarda quest’ultimo obbiettivo, forse bisognerebbe usare più la carota e meno il bastone, per evitare di causare l’effetto inverso. Dobbiamo ridurre le possibilità che si sviluppino varianti “Houdini”, che potrebbero evolvere una fuga immunitaria addirittura maggiore rispetto ad Omicron, mantenendo comunque una virulenza in grado di far collassare i sistemi sanitari.

Se falliremo, tutto quello che abbiamo dovuto sopportare negli ultimi due anni sarà stato per niente, tornando praticamente al punto di partenza per quanto riguarda le misure per la sanità pubblica da mettere in campo. Buona fortuna a convincere i cittadini a sottostare a lockdown e sottoporsi a nuovi vaccini quando questo accadrà.