Uno Stato palestinese sotto occupazione è una finzione

Il professore dell'Università di Bir Zeit parla dell'accordo tra Hamas e Fatah, dell'impatto della primavera araba sulla questione palestinese e di come uscire dall'ìmpasse con Israele. Il ruolo dell'islamismo e quello - irrilevante - di salafiti e al Qaida.

1 / 6 / 2011


LIMES: Secondo un rapporto  dell'Onu l'Autorità Nazionale Palestinese è pronta per diventare uno Stato. Lei è d'accordo? Quali sono le misure più urgenti da compiere a tal fine?

KHALIL: Non spetta a me essere d'accordo o meno con un rapporto dell'Onu. Ho però dei dubbi sui criteri che chi ha scritto il rapporto sembra aver adottato. La Banca Mondiale e altre organizzazioni internazionali si confrontano con l'Anp in Cisgiordania ma evitano la Striscia di Gaza, sotto il controllo di Hamas dal 2007. Ciò porta a formulare giudizi equivoci, soprattutto se per “Stato” intendiamo tutti i territori occupati da Israele nel 1967. Inoltre esse guardano all'Anp come se fosse un'azienda o un'enorme Ong: valutano i miglioramenti solo in base alla trasparenza e alle qualità amministrative. Un processo di State-building così depoliticizzato può portare a tanti risultati, ma non a uno Stato inteso come organizzazione politica di una comunità su un dato territorio.
Lo State-building è giudicato in base ai risultati finanziari e di sicurezza: ciò che viene considerato progresso sta in realtà favorendo la creazione dell'ennesimo regime autoritario nell'area, addirittura col consenso internazionale! Il fatto che questi tentativi di consolidamento siano portati avanti sotto l'occupazione israeliana rende il quadro più confuso: l'Anp si sta configurando come una debole entità para-statale: non era nemmeno in grado di pagare gli stipendi del proprio personale perché Israele le aveva ritardato il trasferimento dei proventi della riscossione dei dazi doganali.
In conclusione, non credo che sia possibile creare uno Stato sotto occupazione. Secondo me il processo dovrebbe verificarsi dopo la fine della stessa.

LIMES: Cosa pensa dell'accordo tra Hamas e Fatah? Reggerà, anche dopo le elezioni politiche?

KHALIL: Parlerei di un patto, più che di un vero accordo di riconciliazione fra fazioni palestinesi. Non pensavo che questo patto potesse essere firmato al Cairo, ma mi sbagliavo: forse applicavo i vecchi paradigmi (l'Egitto di Mubarak completamente dalla parte di Fatah, la Siria che ospita la leadership militare di Hamas) a una realtà nuova. Questa intesa va bene a tutti, anche se per motivi diversi: l'Anp continuerà ad amministrare la Cisgiordania e Hamas la Striscia di Gaza. Per il resto, non c'è accordo su nulla se non sul rinviare tutte le questioni in ballo. Non credo ci saranno elezioni, ma se ci fossero, non si può escludere che si riproponga lo scenario del 2006 (quando Hamas si impose come primo partito alle elezioni legislative e formò un governo che incorse nelle sanzioni economiche di Israele e del Quartetto, ndr).

LIMES: Qualora venisse dichiarato, come sarebbe questo Stato palestinese? L'accento sarebbe sulla componente nazionale o su quella religiosa, in opposizione allo Stato ebraico? 

KHALIL: Sarà uno Stato-nazione per i palestinesi, nel quale ogni palestinese potrà trovare rifugio. Certo che sotto questo punto di vista (la Palestina come patria per i rifugiati) questo nuovo Stato-nazione territoriale non può essere abbastanza. I rifugiati continueranno a rivendicare il loro diritto al ritorno, questa volta non allo Stato di Palestina ma alla Palestina in generale, intesa come loro patria.

LIMES: Che ruolo politico avrà l'islamismo?

KHALIL: Dipende da cosa si intende per islamismo. Se la domanda è: i partiti islamici parteciperanno al processo decisionale?, la risposta è sì, inevitabilmente. Se si intende che l'islam sarà l'unico fattore di appartenenza allo Stato, la risposta è ovviamente no. La Palestina sarà sia uno Stato nazionale sia uno stato islamico: a priori, non è una contraddizione in termini: l'Islam è senza dubbio parte integrante dell'identità nazionale palestinese, come di ogni altro paese arabo, ma non è l'unica. Al riguardo, anche i palestinesi cristiani sono parte di questa identità. L'uguaglianza dei diritti sarà determinante nel conciliare l'elemento nazionale e quello islamico in un unico popolo palestinese.

LIMES: Ultimamente giovani palestinesi sono scesi in piazza contro Hamas e Fatah. Quanto sono forti e organizzati? Possono davvero mettere in difficoltà i due partiti alle elezioni?

KHALIL: I palestinesi, com'è ovvio, sono ossessionati dall'idea della Palestina; ma sono anche esausti. Non si fidano dei loro leader né dei partiti esistenti. Come disse un mio amico, Fatah (ma il discorso vale anche per Hamas) è come un cavallo che in gioventù ha corso tanto e bene: oggi è vecchio e stanco e non serve più, ma non abbiamo il coraggio di liberarcene.
Non penso pertanto che i giovani siano in grado di organizzarsi a breve come successo nei vicini paesi arabi, né che possano sfidare Hamas e Fatah, sempre che le elezioni si tengano davvero. Non mi sembra che possano formare una specie di terzo partito.
Quello cui stiamo assistendo è piuttosto una sorta di depoliticizzazione della politica, dei partiti, dello State-building e del governo. In questo processo i partiti servono per fare le elezioni e per altre formalità, ma il governo è composto da tecnocrati in grado di amministrare il paese, tecnocrati che rappresentano i palestinesi del Ventunesimo secolo, quelli che sanno fare le cose per bene senza per questo essere rappresentativi di nessuno o avere il supporto o l'attenzione della popolazione. Stanno lì per servire la causa della creazione dello Stato, per attrarre il consenso internazionale (politico e finanziario), e per mantenere la stabilità senza intromettersi nei problemi più profondi, cui non offrono soluzioni.

LIMES: I salafiti rappresentano una minaccia per Hamas o Fatah?

KHALIL: Se presi da soli, non credo. La tradizione salafita è aliena alla Palestina, e non credo che le cose cambieranno a breve.

LIMES: E al Qaida? Perché è sempre stata irrilevante in Palestina? Le cose potrebbero cambiare?

KHALIL: Vale quanto detto per i salafiti: l'ideologia, gli obiettivi e gli strumenti di al Qaida non hanno nulla a che fare con i palestinesi. Questi sono un popolo in lotta per l'autodeterminazione; a volte esprimono questo diritto in maniera sbagliata, ma non hanno alcun interesse ad attaccare civili solo in nome dell'odio e della vendetta. La dichiarazione di Ismail Haniyeh sulla fine di bin Laden (il capo di Hamas ha condannato il raid Usa e definito Osama “un martire”, ndr) non è stata presa sul serio da nessuno, perché la posizione di Hamas su al Qaida è chiara da tempo. Quella frase era diretta solamente alla popolazione locale, che potrebbe provare empatia per bin Laden date le circostanze in cui è stato ucciso - a casa, disarmato - e per come gli Usa hanno trattato il corpo - gettandolo a mare. Per questi motivi Washington è stata criticata, non solo dai palestinesi, dagli arabi o dai musulmani fra l'altro.

LIMES: La “primavera araba” ha avuto un ruolo nella questione e nella politica interna palestinese fino ad ora?

KHALIL: Per molti, l'accordo tra Hamas e Fatah è il frutto dei cambiamenti in atto nel mondo arabo. Io non sono d'accordo perché per ora non è cambiato nulla: a entrambi fa comodo continuare così. Ma la pressione è tangibile, per lo meno qui in Cisgiordania. Sappiamo che non si può andare avanti così a lungo, e che la situazione potrebbe esplodere da un momento all'altro. La cosa peggiore per i palestinesi in questo momento è questo status di non guerra/non pace, in cui non ci sono prospettive per il futuro e non ci sono cambiamenti in vista all'orizzonte. Un'altra cosa negativa è il tempo che passa, perché Israele continua a costruire colonie e ad allargare quelle esistenti, rendendo la prospettiva di uno Stato palestinese sempre più irrealizzabile.

LIMES: Le dimostrazioni del giorno della Nakba sono il preludio ad altre manifestazioni da qui a settembre, quando lo Stato palestinese dovrebbe essere dichiarato?

KHALIL: Quello che è successo il giorno della Nakba ha un valore simbolico, non è espressione di un nuovo fenomeno o di una nuova strategia di resistenza. Ha avuto origine più all'esterno che all'interno della Palestina, e ciò è molto indicativo; in qualche modo è il risultato dell'attuale strategia dei regimi arabi in pericolo. Permettendo queste manifestazioni, tali regimi hanno implicitamente mandato un segnale a Israele e al resto del mondo sull'importanza della stabilità regionale, e quindi sul mantenimento al potere di questi governi dittatoriali. Penso al caso della Siria: normalmente al-Asad non avrebbe mai permesso quel tipo di manifestazioni contro Israele. Per il suo regime qualsiasi manifestazione - comprese quelle dei rifugiati e dei loro sostenitori - indicherebbe la presenza di gruppi politici organizzati pericolosi per la stabilità.

LIMES: Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu la pace può essere raggiunta solo attraverso il negoziato, ma lui non vuole negoziare con Hamas. D'altra parte, Hamas non riconosce Israele. Come uscire dall'impasse?

KHALIL: Quando si negozia non si sceglie la controparte. Il primo passo nelle trattative è sempre il riconoscimento della controparte, ma Israele chiaramente non ragiona in questo modo. Israele e gli Usa non hanno voluto trattare con l'Olp fino a quando questa non ha rinunciato al terrorismo. L'Olp vi ha rinunciato e ci sono stati gli accordi di Oslo. Hamas non è nell'Olp, ma potrebbe entrarci un giorno; come gruppo politico non deve per forza riconoscere Israele, così come il Likud non deve riconoscere la Palestina. La situazione può essere risolta solo con l'ingresso di Hamas nell'Olp, che basterebbe a Israele e implicherebbe l'accettazione di Hamas delle conquiste dell'Olp.

LIMES: Che impatto avrebbe la nascita di uno Stato palestinese sulla regione? I regimi hanno sempre usato la questione palestinese per nascondere i loro problemi interni, e c'è il problema dei rifugiati...

KHALIL: Questa è una falsità usata dai sionisti per confondere la comunità internazionale sulla vera questione in ballo, e suggerire che i regimi arabi usano i palestinesi per conservarsi al potere. È vero, in parte, ma il problema fondamentale è l'occupazione israeliana del territorio palestinese dal 1967, per non parlare delle sue origini più remote (Piano di partizione della Palestina e risoluzione Onu 181). La creazione di uno Stato avrà in ogni caso l'effetto di migliorare la vita dei palestinesi rifugiati negli altri paesi: anche se i rifugiati non torneranno mai a casa, la condizione di apolidi di milioni di loro verrà se non risolta quantomeno migliorata.

LIMES: Come vede i rapporti tra Italia e Palestina dopo l'assassinio dell'attivista Vittorio Arrigoni e l'elevamento al rango di ambasciatore del rappresentante palestinese in Italia annunciato dal presidente Napolitano?

KHALIL: L'assassinio di Arrigoni è un delitto imperdonabile. Sappiamo che la solidarietà al popolo palestinese non ne verrà intaccata, perché la gente ha capito che atti come quello non rappresentano i palestinesi. Quanto alla decisione del presidente Napolitano, penso che abbia un valore più che altro simbolico: rappresenta in un certo senso il sostegno della comunità internazionale all'idea di uno Stato palestinese, non necessariamente quello che verrà dichiarato a settembre. Ma la questione è un'altra: che ruolo possono avere l'Italia e l'Europa (considerata come entità unica) nel conflitto mediorientale? Il rapporto tra Roma e la Palestina è ovviamente importante, quello a livello europeo è fondamentale.

Tratto da Limes del 31/05/2011