Una Tunisia contro l’altra

Un articolo di Thierry Brésillon

5 / 11 / 2018

Nel 2019 in Tunisia ci si recherà alle urne per eleggere il Presidente e rinnovare l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (Il Parlamento n.d.T.). 

In un contesto economico e sociale teso, i dibattiti e le polemiche si concentrano più sulle persone che sulle idee. Di conseguenza, la riduzione del grave divario di  sviluppo fra la Tunisia della costa e quella dell’interno non figura fra le priorità. Così, la notte fra il 2 e il 3 giugno 2018 una piccola barca da pesca affondava a cinque miglia nautiche dalle Isole Kerkennah, al largo di Sfax. A bordo 180 passeggeri che speravano di raggiungere le coste italiane: soltanto 68 sono sopravvissuti. La più parte delle vittime erano tunisine. Più che una tragedia, si tratta di un sintomo: la Tunisia diviene, per i suoi giovani, una terra senza speranza. Da un anno le partenze clandestine verso l’Europa hanno subito un’accelerazione. La delusione tocca persino i più benestanti. Secondo il segretario dell’Ordine Nazionale dei Medici, il 45% dei nuovi iscritti ha lasciato il paese nel 2017, contro il il 9% del 2012. (1)

Mentre alcuni fuggono, altri cercano ancora di far sentire la propria voce. L’Osservatorio sociale tunisino recensisce l’insieme delle proteste, individuali o collettive, i blocchi stradali, i sit-in, gli scioperi. La temperatura è salita e non diminuisce più: ha contato 5.000 movimenti nel 2015, più di 11.000 nel 2017, e 4.500 nei primi quattro mesi del 2018. La democratizzazione non riesce più a trasformare il pluralismo dei partiti, le libertà politiche e le responsabilità istituzionali in una nuova proposta economica suscettibile di tracciare un orizzonte di aspettative, in mancanza di risultati immediati.

Dal 2011 lo Stato non ha trovato altre soluzioni se non quella di comprarsi la pace sociale a breve termine, con assunzioni in massa nella funzione pubblica, inizialmente per reintegrare i beneficiari dell’amnistia generale che ha interessato i prigionieri politici con il decreto del febbraio 2011, poi per regolarizzare i circa 50.000 lavoratori impiegati nelle ditte in subappalto - cioè con prestazioni esternalizzate - e, in maniera generale, per riassorbire la disoccupazione. Fra il 2011 e il il 2017 si è arrivati a avere un effettivo di 200.000 funzionari, elevando la massa salariale dal 10,8% al 15% del prodotto interno lordo (2): uno shock senza precedenti e un tasso fra i più alti al mondo.

Per calmare le ricorrenti esplosioni di proteste, il governo ha fatto ricorso anche ai “cantieri”, cioè ad assunzioni in società dette “ambientali” o di giardinaggio, posti di lavoro il cui unico merito è è di distribuire magri salari (meno di 100 euro al mese) alle famiglie povere.

Invece di portare vere soluzioni alla questione sociale, tali spese hanno asfissiato la capacità d’investimento dello Stato e aperto le porte a un ciclo di grave crisi delle finanze pubbliche. La Tunisia ha talmente aumentato l’incasso di prestiti, che il debito è schizzato in alto, passando dai 25,6 miliardi di dinari del 2010 (13 miliardi di euro con il tasso di cambio dell’epoca) ai 76, 2 miliardi del 2018 (24 miliardi di euro), di cui 46 miliardi di debito esteriore. Oramai lo Stato deve consacrare più del 20% del suo budget per rimborsare i creditori.

Frattura regionale

Inoltre l’aumento dei salari e del prezzo del petrolio, così come l’aumento della moneta in circolazione, dovuto al proseguire della distribuzione generosa di crediti bancari e all’espansione dell’economia informale (probabilmente più della metà del PIL), hanno creato le condizioni per una spirale inflazionistica. Il potere d’acquisto dei Tunisini è crollato. Nel bacino minerario di Gafsa, all’origine della lunga sommossa del 2008, ripetizione generale di quella del 2010, la crisi sociale si è incancrenita. L’estrazione annuale di fosfati, una delle principali fonti di valuta del paese, si limita a quattro milioni di tonnellate, la metà del periodo prima precedente al 2010. Mentre il doppio shock della rivoluzione del 2011 e l’ondata di attentati del 2015 hanno ridotto la crescita al minimo livello.

Inflazione, disoccupazione, indebitamento, abbassamento delle riserve in valuta …Per uscire da questo circolo vizioso, i governi succedutisi hanno chiamato alla riscossa il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Una prima volta nel 2012, per un prestito di 1,74 miliardi di dollari, accordato nel giugno 2013 su due anni; una seconda volta nel 2016 per un prestito di 2,9 miliardi di dollari su quattro anni. In cambio, naturalmente, di un piano di “riforme”: la Tunisia deve provvedere al risanamento dei conti pubblici e, per farlo, deve aumentare alcune tasse, ridurre la massa salariale nella funzione pubblica, aumentare il prezzo dei carburanti ogni tre mesi per alleggerire il costo delle sovvenzioni, riformare il suo sistema pensionistico.

Già nel 2016, la Tunisia ha dovuto adottare il principio dell’indipendenza della banca centrale, dando la priorità al controllo dell’inflazione rispetto al sostegno allo sviluppo economico. Risultato: dalla primavera 2017 essa ha lasciato andare il dinaro, tanto che se per acquistare un euro nel 2011 ne occorrevano 1,9 ora ce ne vogliono più di 3. Questa misura avrebbe dovuto rendere le esportazioni più competitive e ricostituire le riserve di valuta, passate all’equivalente di tre mesi d’importazioni. In realtà, per il momento, questo deprezzamento alimenta soprattutto l’inflazione e pesa ancor di più sui consumatori. Per spezzare questa dinamica, e su raccomandazione del FMI, la banca centrale ha lanciato i tassi d’interesse all’inseguimento del tasso d’inflazione, avviatosi ormai all’8% annuale, per proporre tassi reali positivi ai risparmiatori e per dissuadere dal ricorso al credito, per limitare la domanda.

Tali misure draconiane devono teoricamente rimettere in sesto i conti pubblici e ridare allo Stato i margini necessari all’investimento, stimolare le esportazioni e, di conseguenza, la crescita.

Ma lo scenario che tutti temono assomiglia invece a un brutale rallentamento dell’economia: austerità del budget, aumento dei prezzi, restrizioni agli investimenti e alla consumo, aumento dei prelievi...Tenendo conto del processo politico in corso, l’FMI si è mostrato piuttosto accomodante nel corso dei primi anni successivi alla caduta di Ben Alì, nel 2011. Ma dallo scorso maggio, le revisioni del programma, che erano semestrali e condizione per sbloccare le rate del credito, sono diventate trimestrali e, a ogni comunicato il tono si fa più minaccioso, mentre gli indicatori si degradano (a parte un leggero miglioramento in termini di crescita e di bilancia commerciale). La pressione sul sindacato, l’Union Générale du Travail (UGTT), impegnato a difendere i dipendenti della funzione pubblica, toccherà presto i suoi massimi livelli. Nei prossimi mesi di dicembre e gennaio, periodo che tradizionalmente rappresenta l’appuntamento per le proteste sociali, si prevede tensione, soprattutto con l’avvicinarsi delle lezioni legislative e presidenziali previste per dicembre 2019.

Un vero buco nero economico, sociale e politico da cui nessuno sa come uscire. Lo sbloccamento ipotetico della produzione di fosfati e il ritorno verificato dei turisti daranno forse una boccata d’ossigeno, ma non abbastanza per risolvere il male tunisino. Male che consiste in una crisi di modello, ma di quale modello precisamente? Il primo livello di comprensione, spesso evocato, è l’inserimento dell’apparato produttivo del paese a un gradino basso nella scala di valori della divisione internazionale del lavoro. La Tunisia fece questa scelta a partire dagli anni ’70 per compensare il fallimento di uno Stato tutto concentrato sullo sviluppo. Posizionatasi in settori in cui la sua competitività s’ è velocemente ridotta, come quello tessile, si è lanciata al ribasso sociale per preservare le proprie posizioni, praticando un regime di incitazioni fiscali da cui hanno tratto profitto investitori con pochi scrupoli e aumentando la precarietà dei loro salariati. Il turismo, anch’esso, ha intrapreso una corsa al ribasso, a scapito della qualità. Sotto la presidenza di Ben Alì, le banche pubbliche avevano come consegna di non esigere il rimborso dei loro crediti per mantenere a galla questo settore strategico e di garantire gli interessi dei clan protetti dal potere, proprietari di alberghi. Dopodiché la gestione dei crediti irrecuperabili continua tuttora a penalizzare un settore bancario per il quale l’FMI e la Banca Mondiale continuano a chiedere la riforma. Malgrado la liberalizzazione, avviata dagli anni ’80, l’economia e la politica si trovavano fortemente connesse fra loro. “Le privatizzazioni sono state un luogo unico per la predazione dei “clans”, ma anche di distribuzione di vantaggi e di rendite per la borghesia tradizionale” osservavano al Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme nel 2011 (3).

Lo Stato conservava numerosi mezzi d’intervento attraverso le restrizioni doganali, le procedure di autorizzazione per le attività, le ripartizioni fondiarie e l’accesso al finanziamento. La liberalizzazione in assenza di una vera concorrenza era l’espressione economica dell’esercizio autoritario del potere.

Questa economia politica della dittature si iscrive di fatto nella continuità della costruzione dello Stato tunisino. La sua storia è quella della dominazione di Tunisi e delle élites – élites prodotte all’inizio dall’Impero Ottomano, poi dal protettorato francese – sulle popolazioni e le tribù dell’interno. L’indipendenza, nel 1956, non aveva invertito la tendenza. Al contrario, Habib Bourghiba, originario di Monastir, una città del Sahel, si alleò con i Tunisois (élites di Tunisi città ,N.d.T.)fornendo  loro una base popolare, ma privilegiò i Saheliani nell’attribuzione del potere, come testimoniano le scelte dei governatori e dei direttori generali dell’amministrazione e la composizione dei governi. “Tuttavia, i Saheliani dovevano costruire la base economica della loro dominazione politica. Lo fecero attraverso l’orientamento delle spese pubbliche a loro profitto e con la loro capacità di bloccare gli imprenditori delle altre regioni, grazie a un modello di un’economia iper-amministrata al servizio della protezione delle rendite” valuta Sghaier Salhi, autore di un’opera molto documentata intitolata “ La Colonisation intérieure et le développement inéquitable” (La colonizzazione interna e lo sviluppo iniquo).(4) Una tale dominazione si è adattata ai cambiamenti economici e politici e resiste alla democratizzazione (5). Per  Sghaier Salhi, parlare di frattura regionale fra la costa e le regioni dell’interno non significa che le due parti del paese funzionino in parallelo. In realtà, è un sistema unificato: l’interno e il sud del paese forniscono all’economia, dominata dalla costa, una mano d’opera a buon mercato, prodotti agricoli, fosfati, acqua…Si tratta proprio di una forma di confisca”. La ricercatrice Béatrice Hibou, da parte sua, parla di “una formazione asimmetrica dello Stato” che condanna una parte dei tunisini alla subalternità sociale e politica(6).

Per mantenere la pace sociale nelle regioni dominate, le cui rivolte marcano la storia tunisina, il potere continua a “governare tramite l’attesa”, secondo l’espressione di Hamza Meddeb, in particolare attraverso la distribuzione di posti precari e l’inserimento nei dispositivi di gestione della disoccupazione (7). “Lo Stato dovrebbe dedicare più mezzi alla risoluzione delle difficoltà delle regioni subalterne; invece preferisce delegarne la gestione (…) alle strutture del partito al potere, alle reti di clan che controllano la redistribuzione e l’accesso alle risorse economiche sotto forme clientelari” afferma il sociologo. Lo sviluppo del commercio informale (contrabbando) nelle regioni di frontiera denota, a questo proposito, meno un’assenza dello Stato che una maniera di lasciare questa parte del territorio integrarsi da sola all’economia mondiale e realizzare la propria accumulazione di capitale.

Se per decenni questo sistema ha potuto produrre stabilità politica, dal 2008 esso è entrato in crisi. E’stato contro questa ingiustizia, sempre più flagrante, che i giovani delle regioni dell’interno si sono ribellati, prima nel bacino minerario nel 2008, poi nel 2011, prima che le élite politiche si impadronissero del corso della rivoluzione: senza immaginazione, queste ultime non hanno altro riferimento se non la disciplina di budget preconizzata dal FMI, né altri orizzonti da proporre se non la conclusione dell’accordo di libero scambio completo e approfondito (Aleca) con l’Unione Europea. Un accordo che costringerà la Tunisia ad adottarne le regole  e avrà per effetto di “creare un mercato tunisino esclusivamente riservato ai prodotti europei” (8)secondo l’economista Mustapha Jouili.

A rischio di peggiorare ancora l’ineguaglianza fondamentale del modello tunisino.

1)Wafa Samoud, « Le nombre de médecins quittant le pays double d’une année à une autre », HuffPost Maghreb, 14 février 2018.

2) Dati tratti da  Mahmoud Ben Romdhane, La Démocratie en quête d’État, Sud Éditions, Tunis, 2018.

3)Béatrice Hibou, Hamza Meddeb et Mohamed Hamdi, « La Tunisie d’après le 14 janvier et son économie politique et sociale. Les enjeux d’une reconfiguration de la politique européenne » (PDF), Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme, Copenhague, juin 2011.

4)Cf. « La transition bloquée : corruption et régionalisme en Tunisie », International Crisis Group, rapport Moyen-Orient et Afrique du Nord n° 177, Bruxelles, 10 mai 2017.

5) Irene Bono, Béatrice Hibou, Hamza Meddeb et Mohamed Tozy, L’État d’injustice au Maghreb. Maroc et Tunisie, Karthala, coll. « Recherche internationale », Paris, 2015.

6)Ibid.

7)Béatrice Hibou et Hamza Meddeb, « Tunisie : la “démocratisation” ou l’oubli organisé de la question sociale », AOC, 29 janvier 2018.

8)Marco Jonville, « En Tunisie, “l’Aleca, c’est la reproduction du pacte colonial de 1881” », Mediapart, 1er octobre 2018.

Traduzione e adattamento dal francese a cura di Patrizia Mancini

L’articolo originale è apparso nel mensile “Le Monde Diplomatique, Novembre 2018

*** Foto in copertina Manifestazione a Tunisi crédit photo: Anadolu Agency

Tratto da: