Una guerra che non interessa a nessuno

18 / 10 / 2022

Con un baricentro spostato sempre più a destra e lo sdoganamento delle falangi più oltranziste, Israele sta intraprendendo una delle più importanti operazioni militari in Cisgiordania degli ultimi vent’anni. Complice il silenzio internazionale e il clima di totale impunità, le violenze dei coloni supportati dall’esercito stanno raggiungendo livelli senza precedenti. Tuttavia, la nascita di nuovi gruppi armati palestinesi, ben organizzati e decisi a recidere i legami con i propri vertici, potrebbe cambiare le carte in tavola. L’intervista a Michele Giorgio, direttore di Pagine Esteri e corrispondente de Il Manifesto a Gerusalemme.

YBEB: Michele, negli ultimi giorni la chiusura di città palestinesi come Nablus e Anat, nonché del campo profughi di Shuafat ha il sapore amaro di una punizione collettiva. Allo stesso tempo, da Gerusalemme e da tutta la Cisgiordania occupata ci arrivano immagini sempre più inquietanti, che mostrano la violenza esercitata dai coloni protetti da militari sulla popolazione civile palestinese. Il caso più emblematico è l’incursione a Sheikh Jarrah del deputato del Partito Sionista Religioso Ben Gvir, che ha guidato un assalto armato di pistola nel quartiere palestinese di Gerusalemme Est. Il progetto di colonizzazione della Palestina sta entrando in una nuova fase?

Michele Giorgio: Il movimento dei coloni è cambiato, soprattutto all’interno delle frange più estremiste. Ora sanno di avere molto più campo libero rispetto al passato. Sebbene sin dal principio si siano permessi di prendere tutta una serie iniziative oggi i coloni possono contare su un atteggiamento molto più compiacente da parte dell’esercito e della polizia di Israele. Con lo spostamento a destra dell’asse politico e lo sdoganamento della destra neofascista l’atteggiamento è sicuramente mutato in peggio, forti dell’impunità che sanno di poter godere. Le azioni Ben Gvir a Sheikh Jarrah ne sono la conferma. Il deputato della Knesset non si è limitato semplicemente ad estrarre una pistola, un fatto abbastanza eccezionale per una città come Gerusalemme, ma ha urlato ai palestinesi che lì, in quel quartiere, loro sono i padroni e che per i residenti sarebbe stato meglio capirlo al più presto.

E in Cisgiordania?

Nei territori occupati della Cisgiordania questo tipo di provocazione avviene regolarmente, ma anche in questo caso il livello si è alzato in maniera molto pericolosa. I recenti assalti del villaggio di Huwwara lo dimostrano. Siamo in un’area che è sempre stata soggetta a tensioni perché le strade che conducono alla città di Nablus si incrociano con quelle di alcune delle colonie più estremiste di tutti i Territori occupati. Tra i coloni, sono soprattutto i giovani ad essere inclini ad utilizzare la violenza, come dimostra anche quest’ultimo avvenimento. Il fatto è preoccupante se pensiamo che gli assalti dei coloni, sempre accompagnati e supportati dall’esercito, che prima si limitavano ai villaggi rurali più isolati ora avvengono indisturbati e alla luce del giorno anche nei centri abitati più importanti, come i sobborghi di Nablus e Salfit. In Cisgiordania ci stiamo avvicinando pericolosamente a una guerra aperta tra coloni e palestinesi, un conflitto che non interessa a nessuno ma che viene al contrario annacquato dai media internazionali come la fisiologica tensione, più o meno frequente, che caratterizza la Palestina.

Con l’aumento delle incursioni dell’esercito e delle aggressioni da parte dei coloni, negli ultimi mesi sono stati consacrati nuovi gruppi palestinesi impegnati nella resistenza armata, come la Fossa dei Leoni a Nablus e la Brigata Jenin nell’omonima roccaforte. Perché queste nuove organizzazioni sono diventate rapidamente il simbolo di una nuova resistenza e ritrovata unità palestinese?

Dopo gli attentati di Tel Aviv dello scorso maggio, Israele ha lanciato una delle più grandi operazioni militari in Cisgiordania degli ultimi vent’anni. Ogni notte i villaggi, soprattutto tra Nablus e Jenin, devono fare i conti con i raid dell’esercito a caccia dei cosiddetti “sospetti terroristi”. Ogni incursione si lascia dietro arresti, morti e feriti. A volte sono combattenti, più spesso semplici civili che finiscono coinvolti negli scontri o vengono uccisi dai cecchini. Questo ha creato una forte ondata di sdegno all’interno dell’opinione pubblica palestinese, in una situazione in cui una leadership spaccata in due si dimostra sempre meno rappresentativa: a Ramallah la presidenza di Al Fatah tiene aperto il dialogo con Israele, il partito rivale, Hamas, concentra le sue politiche a Gaza dove si trova isolato dal resto del mondo. Così quando la popolazione palestinese individua una reazione, anche armata, tale scintilla di resistenza viene esaltata e giustificata in quanto forma legittima di autodifesa alla violenza dei coloni e dell’esercito. Queste risposte non sono nuove per Jenin e Nablus, che costituiscono da sempre le roccaforti della militanza armata palestinese. Una lotta che nell’ultimo periodo è stata in grado di rafforzarsi e riorganizzarsi.

I media israeliani parlano della Fossa dei Leoni di Nablus come uno dei gruppi militari più influenti degli ultimi anni. Abbiamo a che fare con un’organizzazione indipendente che allo stesso tempo, nelle sue comunicazioni ufficiali, rivendica di seguire le orme di Abu Ammar, nonché di essere la scintilla della seconda rivoluzione contemporanea della Palestina. Intanto abbiamo la presenza, seppur minoritaria, di alcuni membri che rivendicano la vicinanza a gruppi come Hamas o il Jihad palestinese. Che cosa rappresenta dunque la Fossa dei Leoni di Nablus e quali sono gli elementi che la rendono un elemento di rottura rispetto al passato?

In Palestina stanno accadendo molte cose, compresa una rivolta all’interno del gruppo armato di Fatah. I settori di base si stanno ribellando ai vertici del partito, a quello che fanno, pensano e dicono. Non accettano che dopo 30 anni dagli accordi di Oslo, ci sia ancora un dialogo con Israele che non ha mai mostrato la volontà di cedere alcunchè. La base non accetta la collaborazione dell’Autorità palestinese con l’esercito israeliano e la recente rivolta che è scoppiata a Nablus, scoppiata in seguito ad alcuni arresti eseguiti dall’Autorità palestinese, ne è la dimostrazione.

Questa nuova formazione è l’incarnazione di un’insofferenza che non vuole più stare nascosta. Io non credo che i militanti del Jihad o di Hamas che vi hanno voluto aderire siano realmente indipendenti, ma hanno dimostrato di essere molto organizzati, compatti e preparati. Tutte le fazioni si rendono conto che in questo momento è importante assecondare il movimento nascente, compresa l’Autorità palestinese, che non potendo apparire collaboratrice fino in fondo delle cosiddette politiche di sicurezza di Israele, si rivela del tutto paralizzata.

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I media israeliani hanno un tono sempre più allarmistico, la destra invoca il braccio di ferro, i massimi vertici della sicurezza stanno tenendo una serie di riunioni per decidere sul da farsi. Allo stesso tempo l’Autorità palestinese cerca di persuadere le nuove formazioni radicali a deporre le armi. Quali scenari possiamo aspettarci nelle prossime settimane?

La nascita della Fossa dei leoni ha sorpreso gli israeliani. L’indipendenza dei suoi membri, vera o presunta, ha reso difficile ai servizi di intelligence capire chi fossero realmente. Sono rimasti disorientati dalla loro capacità di organizzazione, di come sono riusciti a mettersi insieme e di coordinarsi tra gruppi diversi. Hanno stabilito una sorta di programmazione della lotta armata, non più estemporanea né affidata alle decisioni di pochi individui. I militanti prestano una grande attenzione all’aspetto comunicativo, sono molto attivi sui social – nonostante le censure recenti da parte di Tik Tok – diffondono comunicati stampa e replicano alle azioni e dichiarazioni della controparte. Israele si sta trovando davanti una delle organizzazioni armate più compatte e potenzialmente insidiose degli ultimi quindici anni. La Fossa dei leoni si sta dimostrando persino più unita e preparata della Brigata Jenin. Non sappiamo quanto durerà e se riuscirà a coinvolgere altre zone della Cisgiordania, quello che è certo è che ha fatto breccia negli animi della popolazione palestinese e sta godendo del massimo supporto. La posizione dell’Autorità nazionale è incerta. Da una parte non può permettersi di andare contro i sentimenti popolari ma dall’altra, qualora il suo potere dovesse venire davvero minacciato, è possibile che possa decidere di intraprendere anche una serie di azioni repressive. Io credo che in questo momento preferisca continuare sulla strada delle trattative. Allo stesso tempo, se Israele dovesse rendersi conto che questi nuovi gruppi non possono essere controllati e arginati dall’Autorità palestinese, invitata a più ripartite “a fare la sua parte”, non escludo l’avvio di una nuova operazione militare ancora più potente, fino ad arrivare alla rioccupazione militare di Nablus. Temo uno scenario simile a quello avvenuto a Jenin nel 2002, che si è concluso con la demolizione indiscriminata di una buona parte del campo profughi della città.

massacro jenin


Il tipo di decisione che prenderà il primo ministro Yair Lapid sarà influenzata dalle continue pressioni a destra di Benjamin Netanyahu?

Netanyahu fa la sua campagna elettorale. Ma se tornerà ad essere primo Ministro non farà scelte diverse da quelle di Lapid. Quando c’è di mezzo la fantomatica sicurezza di Israele non ci sono particolari differenze tra la destra e il presunto centrosinistra. Nethanyau in certi momenti si è dimostrato più moderato di alcuni suoi predecessori cosiddetti moderati. Poi si è rivelato colui che nel 2014 ha intrapreso la guerra contro Gaza. D’altronde Lapid non si sta rafforzando grazie ai bombardamenti di agosto e con le ultime incursioni in Cisgiordania? Le operazioni militari degli ultimi mesi sono tutte funzionali ad ottenere il consenso del proprio elettorato.

Negli ultimi giorni il leader di Hamas Ismail Haniyeh e il dirigente di Fatah Azzam al-Ahmad hanno firmato ad Algeri un nuovo accordo per la riconciliazione nazionale palestinese. C’è chi ha accolto la notizia con freddezza chi la vede come un’ulteriore passo in avanti per il ricompattamento della resistenza palestinese. Qual è la tua opinione in merito?

Questi colloqui, gli ennesimi, sono privi di sostanza. È un atto dovuto in seguito a quanto è avvenuto, in basso, sul terreno. Non c’è stata unità politica e di conseguenza convergenza tra forze militari, bensì il contrario: le unità di base si stanno mostrando molto meno divise dei propri vertici che ora hanno la necessità di richiamarsi nuovamente all’unità nazionale. Ma questa unità, almeno tra le vecchie leadership, è alquanto improbabile perché continuano a puntare a obiettivi molto diversi tra loro.

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Sempre sul piano internazionale, Israele si trova a fronteggiare le recenti minacce da parte della Russia, che intima Tel Aviv di non procedere con la fornitura di armi a Kiev. Israele può davvero permettersi di schierarsi contro Mosca?

Siamo di fronte a una crisi internazionale di proporzioni spaventose in cui stiamo procedendo pericolosamente a un conflitto aperto, o peggio di tipo nucleare. La NATO ha rinnovato le proprie esercitazioni per affermare la deterrenza nucleare e lanciare al contempo un messaggio chiarissimo ai russi. Le minacce da Mosca a Israele vanno allo stesso modo prese seriamente. Per ora Tel Aviv ha mantenuto un atteggiamento di facciata, sebbene importanti società israeliane, riporta il New York Times, abbiano fornito a Kiev immagini satellitari molto importanti rispetto ai movimenti delle truppe russe. Io non credo che Israele si spingerà oltre perché ha bisogno dell’ok della Russia per continuare i suoi raid sulla Siria. Qualora succedesse credo tuttavia che le conseguenze potrebbero essere molto gravi per tutti.