Tutti i colori dell’ingiustizia. La Patagonia di Benetton tra violenze e desaparecidos

1 / 9 / 2017

Pubblichiamo un articolo di Riccardo Bottazzo, scritto per il sito dell’associazione Ya Basta Êdî Bese, in cui vengono messe in luce le responsabilità del gruppo Benetton nelle continue violenze nei confronti del popolo mapuche in Patagonia, messe recentemente in risalto dal caso della sparizione di Santiago Maldonado.

Giù, giù, verso sud. Giù, lungo la Ruta 40 raccontata da Chatwin, La Ruta 40 che parte da Buenos Aires e si ferma solo ad Ushuaia. Dopo non c’è niente: è la Fin del Mundo. Sempre a sud, tra gli spazi sconfinati della Patagonia, quando arriverete vicino alla cittadina di Leleque – quattro case in croce per poco più di cento abitanti -, non crederete ai vostri occhi nello scorgere un grande cartellone pubblicitario che vi informa che in quell’immenso niente qualcuno ha costruito un museo. Un museo dedicato al “pueblo desaparecido”, il popolo scomparso, realizzato dalla Benetton.

Già, perché tutto quell’infinito che vedete attorno a voi – terra, acqua e anche il cielo, se fosse possibile confinarlo – appartiene al Gruppo trevigiano. Lo ha comprato nel “reparto occasioni” nella svendita avviata dal presidente Carlos Menem (ve lo ricordate? L’amico personale del Berlusconi!) nel ’91, quando una Argentina appena uscita dalla dittatura doveva pagare i tanti debiti accumulati dalle eroiche imprese delle giunte militari. In cambio di dilazioni e finanziamenti, il Fondo Monetario Internazionale aveva chiesto al Governo sudamericano di vendere tutto quello che poteva vendere e privatizzare tutto quello che ancora rimaneva da privatizzare. Il provvedimento, come era ragionevole attendersi, fece piombare l’Argentina nella crisi monetaria più pesante della sua storia ed ebbe come effetto la messa all’asta delle terre mapuche. E senza che, per questo, qualcuno abbia mai chiesto l’opinione dei mapuche che, come loro affermano, “viviamo in queste terre sin dal 11 ottobre del 1492”. Come dire: da prima che arrivasse il Cristoforo Colombo con le sue cazzo di caravelle.

A proposito, sono loro il “pueblo desaparecido” cui i Benetton, che furono i principali accaparratori di quelle terre, hanno dedicato il loro elegante museo. Va da sé che i mapuche, che non si sentono ancora “desaparecidos” del tutto, non vedono di buon occhio le installazioni di Leleque. Questo il motivo per il quale, tutte le volte che ci sono passato, il museo è circondato da reparti dell’esercito con i mitra spianati.

Il resto, sono tutte storie di quotidiana ingiustizia. Violenze, botte, stupri, assassinii e sgomberi forzati da una parte, resistenza e guerriglia da quell’altra.
Resistenza che non si è mai fiaccata, nonostante la disparità delle forze in campo e che, al contrario, si sta allargando in tutte le terre che i mapuche “recuperano” al furto, abbattendo le barriere di filo spinato e organizzandosi in comunità autogestite. Cosa che, d’altra parte, hanno fatto in tutta la loro storia.

Mai amati e tantomeno sostenuti dalle autorità di Buenos Aires, i mapuche hanno comunque ottenuto importanti riconoscimenti, come quello non affatto scontato del diritto di esistere come comunità indigena, durante i governi di Néstor e Cristina Kirchner. L’arrivo di Mauricio Macri e con lui della destra liberista, un paio di anni fa, ha portato ad un giro di vite nella questione sino alla tentazione, sempre insita nelle destre di tutto il mondo, di trovare una “soluzione finale” al problema indigeno. Argentina e mapuche sono arrivati ad una vera e propria guerra non dichiarata che ha fatto pensare ad una nuova Conquista del desierto, come ha denunciato il giornale La Jornada. La Conquista fu una campagna militare portata avanti dal governo argentino per mano del generale Julio Argentino Roca negli anni 1870 contro gli indigeni del sud e che sfociò in un vero e proprio genocidio.

Il pugno duro del Governo Macri ha avuto come contropartita anche un cambio all’interno della Benetton che ha affidato la gestione di quelle terre dove ricava perlomeno il 10 per cento della lana di cui ha bisogno, a Ronald Mc Donald, uno “scozzese coriaceo” come lo definisce Repubblica. “Un tipo duro, dai modi spicci. Conosce queste terre, sa come trattare gli imprevisti”. Non ama i mapuche e non fa nulla per nasconderlo. “Mi sembrano fuori dal tempo – dice. – È come se oggi andassi nell’Inverness, in Scozia, e rivendicassi la terra dei miei antenati. Una follia”.
Non è questo il paragone giusto, mister Ronald Mc Donald. Direi piuttosto: “È come se oggi andassi dal tuo sindaco, comprassi il terreno dove hai edificato casa tua e buttassi fuori a calci in culo te e tua sorella”. Mi sembra più azzeccato, o no?

Fatto sta che la lotta in Patagonia si è fatta più dura e le pallottole di gomma diventano di piombo. Un anno fa, Facundo Jones Huala, leader riconosciuto dei mapuche, viene arrestato con l’accusa non provata di essere un terrorista e comincia un duro sciopero della fame per denunciare al mondo le ingiustizie patite dai popoli indigeni dell’Argentina.

Ma il capitolo più grave accade a Cushamen, dove il primo agosto un attivista di 27 anni nativo di Buenos Aires ma che viveva in una comunità mapuche a El Bolsón, viene fatto sparire dopo essere stato prelevato dalla gendarmeria nazionale durante una manifestazione per la liberazione di Facundo. Si chiama Santiago Maldonado e per l’Argentina torna lo spettro della desaparicion forzada.
La gendarmeria nega ogni responsabilità, ma ci sono video e foto che la provano. Così la magistratura avvia una indagine che per la prima volta tira in causa anche il Gruppo Benetton e indaga sulla gestione da parte dell’esercito e delle forze dell’ordine della questione mapuche e sui diritti violati dei popoli indigeni.

L’opinione pubblica argentina, che pure non si è mai allargata troppo sulle questione indigena, questa volta, è scossa. Televisioni e giornali parlano di un nuovo desaparecido ad opera di gruppi militari. È il primo dell’era Macri ed è come se tutte le piastre che ornano i muri di Buenos Aires per commemorare i migliaia di rapiti, torturati ed assassinati, si mettessero a sanguinare. La storia ritorna. E torna a far paura a chi non l’ha mai dimenticata.
Il caso di Santiago Maldonado esce dai blog sui i diritti umani e rimbalza nei giornali e nei media del mondo. Le associazioni più sensibili alla questione organizzano manifestazioni nelle maggiori città europee. Anche a Treviso, anche nella città di Benetton, sabato scorso, 26 agosto, una cinquantina di attiviste e attivisti di Ya Basta Êdî Bese mette in scena una iniziativa con volantinaggio e striscioni davanti al negozio del Gruppo. “Donde està Santiago Maldonado?” chiedono.

Nessun commento da parte della famiglia Benetton. L’Argentina è lontana. In Italia, il gruppo continua a mostrare il suo volto da “capitalismo illuminato”, ammicca al centro sinistra, delocalizza la produzione e fa contenti gli azionisti tenendo la barra sul fatturato, acquista palazzi storici di Venezia per stuprarli e trasformarli in rivendite di cialtronerie in stile centro commerciale da aeroporto.
Attraverso la sua Fondazione spende e spande beneficenza, finanza lavori sulla pace e premia progetti virtuosi di tutto il mondo per far scrivere i giornali. E paga viaggi ai giornalisti pronti a scrivere su questi progetti, gira soldi all’associazionismo che diventa un mestiere come la fondazione bolzanina dedicata ad Alex Langer e collabora con i Centri Pace dei Comuni come faceva con quello di Venezia.
Nessuno chiede da dove vengano quei soldi.
E se questo a voi non fa schifo…